Nemico lettore, ti guardo adesso fisso negli occhi e ti dico:
«oggi si parla di argomenti di nicchia: taci e fattelo andar bene!».
Nemico lettore, non lo faccio né per spocchia, né per la presunzione di farti da maestro, ma perché, se vorrai, come credo, abbandonare la lettura, ammutinandoti, allora il mio consiglio è di salpare per lande desolate e terre senza Dio. Perché oggi si parla di Dio: cioè di musica, di teatro e di uomini.
Chi vi scrive bazzica ormai da otto anni gli ambienti della lirica lombarda ed emiliana, scrivendo recensioni di opere liriche da tre anni. L’opera lirica, per gli oranghi che si approcciano al genere per la prima volta, capisco possa presentare qualche difficoltà relazionale. Tre o quattro ore chiusi in teatro ad ascoltare soprani gorgheggiare e vedere tenori sovrappeso che, mentre stanno morendo, invece di morire, cantano.
È il trionfo dell’irrealtà.
Ma oggi l’irrealtà ce la facciamo andare bene, perché in questi decadenti e lignei mausolei a ferro di cavallo che sono i teatri all'italiana
, si consuma ogni sera la più reale delle lotte per la vita:
quella tra artisti e pubblico.
Ora, il rapporto tra artista e pubblico è problema annoso che non è mia intenzione sciogliere (come sempre, nell'acido) in questa sede. Penso sia da tutti voi lettori condivisibile la necessità che un artista non segua il consenso del pubblico. A costo di essere linciati nel camerino, registi, direttori e cantanti devono essere capaci di emanciparsi dalle richieste di quel bambinone capriccioso che è il pubblico. Soprattutto il pubblico dell'opera. Soprattutto quello italiano (il più noiosamente conservatore del globo terracqueo).
Ma il pubblico può e deve avere un ruolo attivo e partecipato nell’Arte. Come?
- Il fischio. Discorso apologetico per una pratica in disuso.
I vecchi tempi dei loggionisti scaligeri che fischiavano ogni cosa sono terminati.
Alla Scala, appunto, tempio sacro della musica mondiale
, nel 1982
fu sonoramente fischiato addirittura Luciano Pavarotti dopo una stecca
madornale al termine del secondo atto del Don Carlo verdiano. Pavarotti, pur tanto amato dal pubblico internazionale (soprattutto nazional-popolare, non dagli esperti)
e a dispetto della sua conformazione fisica, non era certamente un gigante
della musica. Voce eccezionale ma carente di capacità interpretative e abilità tecnice. Tuttavia era considerato, già in vita, un mostro sacro assolutamente intoccabile. Quella stonatura colossale alla Scala
gli valse una più che giusta contestazione da parte degli espertoni in piccionaia (modo colloquiale di rivolgersi al loggione, l'arcata più alta del teatro)
.
Odiatissimi da sempre, i loggionisti non vedono l’ora di far naufragare nel fango
l’operato di qualche malcapitato artista. Talvolta a ragione, come nel caso di Pavarotti
, talvolta per semplici dissapori personali e antipatie. Capita spesso che un regista d'opera venga fischiato aprioristicamente perché noto al pubblico per alcuni allestimenti meno convenzionali.
Abitudine affermata ormai da qualche decennio nel mondo dell’opera (e del teatro in generale)
è, infatti, la trasposizione contemporanea di capolavori ambientati secoli, se non millenni prima. Ora, io, a differenza dei vetusti scartatori di caramelle che dominano i loggioni o degli altrettanto vetusti abiti da fumo che dominano le platee nelle serate d’occasione, non condivido questo astio per le regie moderne
. La riflessione di partenza dovrebbe essere: ben vengano le riattualizzazioni perché l'opera non muoia di vecchiaia incancrenendosi nei soliti allestimenti con parrucconi, cotte di maglia e spadoni medievali
(che poi, voglio dire, solo rispetto per gli spadoni medievali, ma al duecentesimo spadone vi assicuro che un po’ la voglia passa).
Tornando al pubblico, oggi viziato e tremendamente bambinesco, malgrado l’età media di chi lo compone, la necessità è quella di tornare a fischiare con criterio i cani e cercare di comprendere e accettare gli allestimenti contemporanei che conferiscono nuova linfa vitale a opere vecchie di due secoli.
Tuttavia, non si può pretendere troppo da un pubblico di forforosi ottuagenari, perciò, ci accontenteremo del fischio generalizzato, che travalichi i confini dell’accettazione passiva di ciò che viene propinato al pubblico e che rompa la distanza tra spettatore e artista, mettendo in scena l’unica verità assoluta del teatro. Perché il fischio è vita, stimolo, è la rabbia personale trascinata in teatro e lanciata contro un artista inesperto, è la voglia di rivalsa sociale che spinge a gridare contro una diva affermata e a darle della CAGNA. Questo serve: riportare vita nei nostri teatri.
- La stroncatura. Ovvero come fottersene del perbenismo
La stroncatura è un genere nobile (…). Non la pratica più nessuno. Perché? Perché in Italia (…) non puoi fare il culturalmente anarchico. (…) Come mai? Relazioni. L’Italia, di facciata, è un popolo di santi, poeti, navigatori; in realtà, è un paese di mafiosi, di pavidi e di leccaculo.
Così Davide Brullo introduce alla lettura del suo libro “Stroncature” (GOG, 2020) – di cui straconsigliamo la lettura. Un libercolo destinato a svelarvi la vera natura, da una parte
, del mondo letterario ed editoriale italiano, e, dall'altra
, della critica. Brullo raccoglie in questo divertente ma contenutisticamente pregno libro una lunga serie di barbare stroncature da lui attuate su vari giornali a proposito di libri incensati dalla critica italiana. Libracci venduti dai critici come oro colato, che cadono sotto le taglienti sferzate di Brullo, che ne attua, con toni volutamente grotteschi ed esasperati
, una disamina dalla precisione anatomica, inquadrando gli intoccabili (Baricco, Carofiglio, Camilleri,...)
come il vero male della letteratura nostrana.
Brullo, con i suoi toni polemici ma di straordinaria lucidità, ci ricorda non solo che si può, ma che si DEVE
dissentire dal pensiero comune. Abbatterlo proprio a partire dai giganti che lo governano. Dobbiamo essere Davide contro questa schiera di sudici Golia. Una lotta impari ma che renderà onore ai pochi che la vorranno perseguire.
- Elogio della provocazione
Fischiare sì. Stroncare sì.
Ma il dibattito artistico funziona se anche l'artista dimostra di avere le palle
. Osare. Osare sempre
. Portando in scena, sulla tela o sulla carta stampata le più genuine manifestazioni della libertà e dell’audacia di un artista. Chi fabbrica arte non è un semplice operaio di catena di montaggio.
Producete arte, dunque. Scrivete valanghe di pagine purché ne valga sempre la pena. Non c'è bisogno di altro letame. Sappiate che dall'altra parte ci sarà sempre qualcuno pronto a stroncarvi o a fischiarvi. E forse farà bene. Ma l'artista consapevole delle proprie capacità, ai fischi risponderà con gli insulti, e con le stroncature ci si pulirà il culo.
Ed è così, in definitiva, che si fa Arte.