ASPASIA, OVVERO DEL GHOSTING

ASPASIA, OVVERO DEL GHOSTING
Lettura boomer
Se fossi qui con me in questo momento, ti direi che sei assolutamente degna di quel tuo nome da eroica matrona romana. Lucrezia.

Sul tuo sacrificio un tempo fu fondata la Repubblica. Oggi io e te vorremmo tornare a una monarchia sacra che forse mai è esistita. Del resto, la nostalgia non può che riguardare epoche non vissute. I giorni vissuti sono giorni non vissuti.

Se fossi qui con me in questo momento, riconoscerei che non mi dispiaceva affatto quel soprannome che mi desti. Cavaliere oscuro e vendicativo e dal tono ipotermico. Con una sola espressione richiamasti valori da troppo tempo dimenticati, che con fare donchisciottesco avremmo restaurato, e antiche leggende sugli incappucciati seguaci di San Francesco da Paola.

Ma forse tali giustizieri mai esistettero.

Tu non sei la baronessa di Carini, e forse non capiresti questa mia Vocazione per la Storia.

Se fossi qui con me in questo momento, ti ricorderei quei giorni lontani, quando ci sdraiammo per terra in quella squallida stamberga. Tu mi chiedesti di immaginare un cielo stellato, ma io solo il tetto vedevo di una prigione.

Se fossi qui con me in questo momento, ci abbufferemmo di cannoli siciliani, di cui un giorno mi rivelasti di essere golosa. Nel cioccolato scioglieremmo ogni nostro affanno, e tu mi confesseresti i tuoi sogni proibiti.

Un bagno nudi nella bevanda che Motēcuhzōma offrì a Cortés, o forse nel latte d’asina, come Cleopatra. Io, come Antonio, mi lascerei sedurre dall’Oriente.

Ti racconterei di quei miei meriggi romani, di Andrea Sperelli e del Piacere, mio romanzo prediletto.

Ti mostrerei quella vecchia foto sbiadita nella quale io e i miei folli amici pensammo di impersonare gli artefici del Secondo Triumvirato. Io sentivo di essere Antonio, ma il mio volto malinconico prefigurava un destino da Lepido. Ti parlerei di dispotismo, di città mesopotamiche e di autocrazie.

Ti descriverei la pochezza con la quale ancora oggi si obbedisce al dogma secolare ex Oriente lux e il pregiudizio verso le non-città orientali. Glorificherei Tiberio, Domiziano e l’età severiana, e in particolare Eliogabalo, con quel suo singolare sacerdozio maschile.

Ma tu non comprenderesti.

Tu preferisci la classicità agli imperi alla fine della decadenza, Ottaviano ad Antonio, la luce all’oscurità. Tu non conosci Giovanni 3, 19 e gli antichi riti degli Aztechi, tu consideri il D’Annunzio melenso e le sue parole superliquefatte e per te Artaud è soltanto il goffo motto di un francese che ancora non ha imparato bene la nostra lingua.

Se fossi qui con me in questo momento, ti condurrei per le vie della mia città e ti descriverei il suo schema ippodameo.

Tu mi parleresti di Venezia, di Budapest, di Napoli, di Trieste, di Vienna, di Leuven, di Cracovia, di Parigi e di mille altre città che non conosco. Io però ti direi che la mia è una città magica e ti guiderei nei suoi più oscuri anfratti. Cammineremmo per ore e ore, senza curarci del tempo perduto e delle persone intorno a noi. https://www.yo

Esaudiremmo l’ultimo desiderio di Carmelo Bene: parlare del nulla per ore.

E ci perderemmo, malgrado l’impossibilità empirica di perdersi in una città dallo schema così regolare.

Tu sorrideresti e metteresti a confronto la regolarità della mia città con il caos delle viuzze della tua superba città di mare. Ma, ora che ci penso, la vita moderna ci impone ritmi assai frenetici. Non riusciremmo a passeggiare lentamente né privi di pensieri. Correremmo, senza accorgercene. Tu ti lamenteresti del caldo, della stanchezza e della tua miopia e non riusciresti a starmi appresso. Non comprenderesti la congiunzione delle energie positive, la magia nera e la mia superstizione, e mi chiederesti esausta di accompagnarti alla stazione.

Io ti parlerei delle passeggiate di Nietzsche e di quella mia stramba teoria secondo cui egli rinsavì grazie alla malattia, quel lontano 3 gennaio 1889. Ma tu non mediti Nietzsche, e forse neppure lo meriti. Tu hai scelto la filosofia analitica, che è un po’ come il tagliar camicie della signorina Felicita, con la quale, oltre alla semplicità, condividi una quasi-bruttezza accentuata dal tuo comportamento.

Se fossi qui con me in questo momento, mi definirei nazista, ma di un nazismo sano, come Carmelo Bene. Ti parlerei della necessità di arianizzare il cristianesimo liberandolo dalle contaminazioni paoline e dalla morale giudaica e capovolgerei il crocifisso che porti sempre al collo, non per satanismo, ma per il gusto del sacrilegio.

E tu, paganamente, approveresti.

Insieme celebreremmo oscuri rituali, leggeremmo un grimorio o un testo alchemico, o correremmo nudi per le foreste.

Se fossi qui con me in questo momento, mi parleresti di antichi borghi romiti abbandonati in seguito al suicidio dell’ultimo eroico abitante. Vivremmo con la semplicità della gente di campagna, parlando solo di cibo, di clima e di aria fresca. Ci meraviglieremmo ogni giorno delle tinte di un bosco in autunno, degli antichi saperi occulti, delle erbe miracolose dei guaritori, dei segreti dei rabdomanti, del profumo della vendemmia in settembre, della rugiada e della galaverna, rimembrando i perduti giorni dell’età dell’innocenza.

Vivremmo solo dei frutti della terra.

Ma tu, ora che ci penso, vieni dal grigio mondo della città, e consideri la campagna solo come meta di evasione. Tu considereresti questo mio sogno autarchico una mera utopia, e non mi seguiresti nel progetto. Lungo i sentieri di montagna, ti lamenteresti solo della fatica e non confideresti nelle mie forze. Insieme ci distenderemmo all’ombra, nostro rifugio naturale, e forse per un attimo ci illuderemmo di essein mormant viatare felici.

Se fossi qui con me in questo momento, colorerei il mio eloquio di parole auliche e dal sapore antico che tu non capiresti. Tu mi contesteresti l’incorrettezza politica e io mi scaglierei duramente contro il barbaro dominio di schewa, asterischi e simili derive sapirwhorfiane. Io proverei a spiegarti la differenza tra genere e mozione, la questione del femminile in indoeuropeo e finanche qualche base d’ittita, ma tu lo considereresti mansplaining.

Tu mi mostreresti tutto il tuo fanatismo accusandomi di non capire la tua condizione in quanto nato con il pene e col tuo womansplaining capovolgeresti il ragionamento. Tu adori le categorie. Vegana, femminista, bisessuale e antifascista. Ti presenteresti così, quasi a sbattermi in faccia le mie colpe di maschio bianco eterosessuale privilegiato.

Se fossi qui con me in questo momento, guarderemmo un film. Il verdetto di Sidney Lumet del 1982. Io ti parlerei dell’Antigone, di Hegel, delle leggi naturali e delle leggi divine, ma tu preferiresti inquinare il dibattito concentrando la tua attenzione sull’espediente narrativo della damigella in pericolo, aspetto del tutto secondario, o su altre stupide teorie.

Damigelle in pericolo, letterature al rogo.

Io ti citerei Cassandra di Christa Wolf. Ti direi che non si acquista maturità se alla follia maschile si sostituisce quella femminile e se le conquiste del pensiero razionale, solo perché opera di uomini, vengono gettate a mare dalle donne in nome dell’idealizzazione di stadi prerazionali dell’umanità.

Se fossi qui con me in questo momento, contraddiresti il tuo stesso femminismo accusandomi di eccessivo sentimentalismo. Io ti racconterei di quella volta in cui piansi tutta la notte perché il mio amico Alessandro, che inconsapevolmente mi salvò dal suicidio, era partito, e tu mi considereresti un debole, un fallito, indegno di essere uomo.

Ma anche Achille pianse sul cadavere di Patroclo.

Se fossi qui con me in questo momento, ti ricorderei la notte di san Lorenzo, quando, ebbra d’amore, mi recitasti a memoria quella poesia di Sandro Penna, facendomelo apprezzare per la prima volta.

Ma, ora che ci penso, tu non ti nutri più di buone letture.

Mai raggiungeremmo un simile momento di poesia. Tu mi citeresti, piuttosto, uno pseudo-Calvino, o uno pseudo-Neruda, o una pseudo-Szymborska o simili citazioni pescate dai più bui anfratti della rete. Insieme moriremmo lentamente.

Mi domanderesti: «Verresti?». No, non verrei. 

Se fossi qui con me in questo momento, ti direi che ogni mia disgrazia è il frutto di quattro maledettissime componenti: introversione, intuizione, ragione e giudizio. Tu mi risponderesti che tutto questo è pseudoscienza, il tipico esempio di convalida soggettiva, e che, se già Freud era un cocainomane, Jung era invece un eroinomane.

Anche questo tuo discorso dimostrerebbe la validità dell’indicatore di personalità.

Se fossi qui con me in questo momento, ti direi che sei Acquario ascendente Scorpione e che hai la Luna in Gemelli e calcolerei il tuo segno celtico, azteco e cinese. Tu rigetteresti millenni di storia come mera superstizione. Io ti spiegherei che certamente gli astri non costringono, ma che al contempo il mondo astrale è lo specchio della vita terrena e della realtà corporea e che tutto l’universo è governato dal principio di sincronicità.

Ti parlerei dell’I Ching e dello scarabeo d’oro di Jung e ti direi che anche questo nostro incontro non può essere frutto del caso. Ma tu non capiresti. Tu non credi nell’algoritmo che regola le armonie dell’universo e ti impegni attivamente per portare il caos.

Tu canti un canto tutto tuo, come Melkor nell’Ainulindalë.

Ma io ho buone ragioni per credere a questo principio. L’ultima volta che ti ho scritto per proporti un appuntamento e per sfuggire all’infame gioco delle doppie spunte blu, il mio amico Stefano ha fatto un sogno.

Ha sognato che stavo parlando con un’oca che indossava il tuo stesso abito vittoriano. Un’oca assai elegante, ma pur sempre un’oca.

In quel momento ho capito.

Ho capito di avere avuto a che fare con un’oca. Nulla di più. Dopo oltre un anno di conoscenza, tu non mi hai più risposto, portando con te i segreti di una vita passata.

Passata perché dopo questa esperienza sono rinato. 

Se fossi qui con me in questo momento, non celebrerei i tuoi capelli mossi dal fulvo colore, né le tue curve barocche, né il tuo portamento che mi ricordava Bianca Lancia di Monferrato, il tuo sorriso raggiante, i tuoi occhi cerulei o le tue vesti vittoriane.

Se fossi qui con me in questo momento, solo una parola ti direi.

Grazie.

Grazie per avermi illuso che la vita fosse qualcosa in più di un pendolo che oscilla tra l’istinto omicida e l’ideazione suicidaria.

Grazie per avermi restituito fiducia nel genere umano in un tempo buio fatto di reclusioni domestiche e solitudine. Grazie per essere stata un’eccezione alla mia misoginia e grazie per aver preferito essere tale piuttosto che una tra le tante.

Eppure, mai più potrò farti questo discorso. Mai potrò ringraziarti. Spaventata dalla dolcezza delle mie parole, o forse dai miei troppi buongiorno, hai scelto di scomparire.

Eppure, i miei buongiorno erano proprio lo stratagemma per sfuggire alla schiavitù del ciao. Non volevo sentirmi schiavo di nessuno, tanto meno dell’amore.

A sedici anni dicevo di essere innamorato dell’amore.

Mai fu detta cosa più stupida. Ma io non ero innamorato di te. Della mia immagine riflessa nei tuoi occhi, semmai. E così, come nella canzone di Battiato che traumatizzò la tua infanzia: «è stato molto bello, finisce la tarda estate».

Ebbene, è giusto che tu sappia che per me sei solo un fantasma, il fantasma di Aspasia, e in quanto tale non esisti.

O meglio, sei esistita in funzione della mia salute mentale. Sei stata posta sulla Terra dal destino, che ti ha ripresa quando la tua presenza era divenuta superflua.

Io non ho bisogno di te.

L’altro giorno ti ho vista accanto a quel mio amico filosofante che mi ha tradito. Terminato il tuo compito presso di me, hai già scelto la tua prossima vittima. Con lui avrai gioco facile, siete fatti della stessa materia. 

Ora, se ti incontrassi per strada, fingeresti di non avermi visto, o forse mi guarderesti inorridita, o spaventata dalle voci che tu stessa hai diffuso su di me.

Mi guarderesti come si guarda un molestatore, o un assassino, e in casa mia cercheresti le prove della mia colpevolezza, i cadaveri nell’armadio.

Invece io sono guarito, e lo voglio gridare.

SONO GUARITO!

Potrai mai dire lo stesso?

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