Baby K: La Fine dell'Estate

Baby K: La Fine dell'Estate
Lettura boomer
«Tutta la vita che aspettiamo quel sogno di un tramonto sudamericano»: questa frase mi sconvolge. È davvero questo il senso del nostro viaggio? Questo il senso dell’italianità? Questo che ci raccontano da decenni canzoni e film? Davvero l’estate non esiste più, come scriveva Labranca nel 2016? Davvero le vacanze italiane sono sempre destinate ad avere un esito tragico?

Primo di settembre. Mi trovavo in macchina con la professoressa M, direttrice dello scavo di Kayalıpınar-Šamuḫa, diretto verso una clinica privata. La mia fottuta unghia incarnita attendeva l’ora fatale della sua rimozione chirurgica, mentre l’auto sfrecciava per le trafficate vie di Sivas. Mi girava la testa, stordito com’ero dal susseguirsi degli eventi.

Che ne sarebbe stato della mia unghia? Sarei stato esiliato a Lemno come Filottete? 

D’un tratto, l’eco di un pianoforte anni ’80. E parole confuse.

Remember. That piano. So delightful. Unusual. That classic. Sensation.

La mia mente va immediatamente a Jerry Calà con la Mini De Tomaso Turbo, le Timberland, il montone, i Ray-Ban. Ma questo non è un cinepanettone, questa è la realtà.

Dico alla professoressa che c’è nostalgia nell’aria, mi invita a mettere una canzone italiana.

Il primo di settembre non posso che mettere Impressioni di settembre. Ma mentre siamo imbottigliati nel traffico e in quella sensazione mistica che si prova tutte le volte che abbiamo quasi…paurache si perdaaa…, mentre si affacciano le grandi domande: No, cosa sono adesso non lo so. Sono un uomo, un uomo in cerca di sé stesso. Ecco, proprio in quel momento un pensiero avanza prepotentemente.

«Tutta la vita

Che aspettiamo

Quel sogno di un tramonto

Sudamericano»

Ma certo! Eureka! Eureka, eureka, eureka! Come ho fatto a non pensarci prima? Perché affannarsi a cercare un senso? Il senso è qui!

Il pensiero ha l’aria di una rivelazione. La professoressa mi ha chiesto di farle ascoltare qualcosa di italiano. È questa la domanda più difficile in assoluto. Per me qualcosa di italiano significa qualcosa che sia italiano fino al midollo, che sprizzi italianità da tutti i pori, che insomma sia sintesi filosofica dell’italianità stessa. E non mi riferisco certo a quel macchiettistico celentanoide famoso in Russia che ci ha lasciati qualche giorno fa con grande sollievo per tutto l’ozono presente sul pianeta.

No, no, no!

Cosa c’è di più italiano di questo costante desiderio di evasione, di questa malcelata esterofilia, di questo provincialismo che non fa altro che negare sé stesso attraverso continue manifestazioni oicofobiche? Italia Paese di merda, Italia cara, Italia provinciale. E allora tutti in vacanza in Albania, dove costa meno e sono tutti contenti.

Ma dopo l’ennesimo Spritz Apeiron, tra sole, whisky, pole positions e libidini varie, ecco sorgere un’inquietante domanda

«In capo al mondo che ci vado a fare se tu vai via

Tanto l’unica destinazione è ovunque tu sia»

E quindi ecco che il viaggio non ha più senso. Ci si chiede se quel tu sia sempre lo stesso nel primo e nel secondo verso. In caso affermativo, ci troveremmo di fronte all’ennesimo amore sdolcinato, con una Baby K pronta a viaggiare per il mondo per seguire l’amore della sua vita. Se invece – come ci piace credereil secondo è un tu impersonale, ecco che la frase assume un valore gnomico: inutile viaggiare, tanto l’unica destinazione è ovunque ci si trovi. Una sorta di proverbio dall’eco caproniana:

«Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
Qua, dove non fui mai»

Così aveva scritto il poeta nel suo Biglietto lasciato prima di non andar via.

A questo punto, sorge spontaneo chiedersi se qualcuno è ancora pronto a scandalizzarsi per il fatto che Bianconi abbia fatto una cover di quello che – dicevano – è solo un tormentone estivo, solo una canzonetta. E va bene, Baby K non potrà mai diventare direttore generale delle poste o delle ferrovie, non potrà mai far carriera nel Corriere della Sera.

Ma Bianconi ha dimostrato che andando oltre i ritmi veloci e martellanti della canzone originale e superando l’odiosa voce di Baby K, è possibile attribuire un significato profondo anche a un tormentone estivo, che è comunque una manifestazione creativa dell’uomo all’interno di uno specifico ambiente e di un preciso contesto storico, vedasi quanto fatto, per esempio, da Claudio Giunta con l’Eurovision e con Vamos a bailar (Esta vida nueva) di Paola e Chiara, vero e proprio inno dei tempi nuovi berlusconiani. E allora non cincischiamo e analizziamo il testo.

«Prendo uno spicchio di luna e lo metto nella sangria»: 

Un concetto molto futurista. Lo spicchio di luna, immagine di ogni residuo romanticismo, viene affogato in un sogno etilico. La morte al chiaro di luna preannuncia un dionisismo molto più oscuro di quello romantico, quasi scapigliato, maledetto, bohémien. Affogo nell’alcol le mie delusioni amorose, non c’è più spazio per la poesia. Già qui s’intravede la vocazione decadente di una stagione – l’estate – che, per riprendere una teoria di Labranca, non esiste più.

«Se mi allontano sarà per sentirti dire “Sei mia!”»:

Il narcisismo dei nostri tempi riassunto in una frase. Mi allontano per metterti alla prova, come il marchese Gualtieri di Saluzzo nella novella del Boccaccio. Così, «Ho scordato tutto tranne che eravamo insieme»:per il gusto di sentirmi amata, per il gusto di sentirmi dire “sei mia”. Come vadano a finire queste prove ce lo insegna De André nella Ballata dell’amore cieco: alla fine, a trionfare è colui il cui amore non è corrisposto

«Ma lei fu presa da sgomento
Quando lo vide morir contento
Morir contento e innamorato
Quando a lei niente era restato
Non il suo amore, non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene»

«Tutta la vita a rimandare
Perché tra il dire e il fare 

C’è di mezzo il mare»

Una poetica semplice, che non ha paura di ricorrere a frasi fatte, a modi di dire, a proverbi ed espressioni colloquiali. Ricorda, per certi aspetti, Umberto Saba. 

«La musica, la playa

L’estate, la festa»:

Queste sono le cose veramente importanti nella vita. O, come scrcategoriaisse un curioso poeta diciottenne,

«Tutti i poeti moderni
Cantano
Astrusi elementi naturali:
Lampone, litchi, papaya.
Io per me amo
Una mela cotta,
Una banana» 
(Usignolo, Passione vegetale, dalla raccolta Morfel, in corso di pubblicazione)

«E allora dimmi com’è che si fa a nuotare
Se ho bisogno di te in questo mare»:

Metafora della condizione dell’uomo moderno, l’esser-gettato heideggeriano. Un grido disperato d’angoscia, la ricerca di Dio. Solo ora si comprende chi è quel tu a cui la canzone si rivolge. Solo Dio sa come si fa a nuotare in questo mare.

«Tutto cambia colore dove non tramonta mai il sole»:

Qual è l’impero sul quale non tramonta mai il sole? Quello di Carlo V? Ma no, il Paradiso, ovviamente. Dove tutto cambia colore, investito dalla luce di Dio. Ancora una volta, diremmo con Carmelo Bene, c’è troppo puzza di Dio.

«C’è una giungla sulla costa»:

C’è una giungla sulla costa, ed è il giardino dell’Eden. Non a caso, la costa è quella condizione esistenziale originaria a cui tutti vorremmo tornare. Ricordiamo qui che eden in sumerico vuol dire steppa.

«Nelle foto vengo mossa»: 

Perché vengo mossa? Perché dall’affannosa ricerca di Dio scossa!

«Ho scordato tutto tranne che eravamo insieme»:

Ho scordato tutto, tranne quella perfetta simbiosi originaria. Ho scordato tutto, tranne la prima Alleanza. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Mi dicono di andare a capo, ma come si va a capo se il punto non l’ho messo io?

Con questo si è voluto dar prova di come quello che a prima vista può sembrare un banalissimo tormentone estivo celi in realtà un significato profondo, finendo per essere un perfetto esempio di quel filone vacanziero-tragico che è tutto italiano.

Agli scettici rispondiamo – con il poeta – che dai diamanti non nasce niente, dalle tane nascono i fior. «Letame, Gigione, LETAME!» «Letame ce lo dici a tuo padre, strunz!».

baby K gigione

Non si creda che questa canzone rappresenti un’eccezione. Che la vacanza italiana sia votata a un esito tragico lo diceva già Labranca. Sin dai tempi in cui, nel primo Vacanze di Natale (1983), l’avvocato Covelli annunciava trionfante «Anche questo Natale se lo semo levato dalle palle!», sin dai tempi della scena finale di Yuppies – I giovani di successo (1986), in cui i protagonisti discutono del conto salato. E sin dai tempi del Sorpasso (1962), che, tra le altre cose, annunciava la mutazione antropologica verso il consumismo sfrenato e l’euforia capitalista, che portò con sé la sostituzione della colonia e della villeggiatura con le post-moderne vacanze.

E allora mi sia consentito dire che se la proposta di Enrico Vanzina di sostituire lo studio dei Promessi Sposi con quello della commedia italiana vuol dire guardare film come Il Sorpasso, e non i suoi cinepanettoni, sono pienamente d’accordo.

Perché l’Italia è anche e soprattutto questo.

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