Finalmente, dopo un autunno caldo come pochi , è arrivato il freddo. E il freddo ha portato con sé le feste. E le feste hanno portato con sé IL cenone.
Se pensate che questo sia l’ennesimo articolo
da soia che prende per il culo il cenone di Natale e i suoi partecipanti (lo zio boomer, la nonna con le emorroidi, la zia che ti chiede della fidanzatina…), avete sbagliato giornale, e forse siete capitati qui per sbaglio dopo aver speso la tredicesima su Onlyfans per illudervi di averla, la fidanzatina.
Perché sì: il cenone è sacro, come il Santo Natale.
Scrivere articoli sulla tradizione culinaria italiana è un esercizio di campanilismo, inevitabilmente viziato dalle origini dell’autore. Per evitare di scrivere cazzate, e beccarmi insulti da tutta la penisola, scriverò di quello che so e conosco approfonditamente (giornalisti di Repubblica prendere nota):
la cucina tradizionale veneta, anzi, trevigiana.
Come prima cosa, non vai in ristorante a mangiare a Natale, mi sembra ovvio, la cucina tradizionale si gusta tra le mura domestiche. Non importa se sei ospite e la casa non è la tua, noi siamo per la famiglia patriarcale; la casa della nonna, luogo solito del convivio festivo, è in parte anche casa tua ed ospita egregiamente il cenone coi barba, le amie e i dermàn (zii, zie e cugini). Ovviamente non si fa distinzione tra prozii e zii: si chiamano tutti zii. Devo dire, comunque, che i prozii hanno anche loro figli e nipoti che li ospitano, ma può capitare che la vecchia zia vedova sia alla nostra tavola ed è bene salutarla come saluti la nonna.
Il cenone non inizia con l’antipasto: inizia con l’aperitivo. Offrire uno spritz o un’ombra di bianco mette d’accordo tutte le generazioni (si, anche i nonni e i bambini) e mia zia (la sorella di mia mamma, non la prozia che è comunque mia zia) dice che stimola la digestione perché
“el vèrde al stomego”
Quando è ora ci si mette a tavola e si delizia il palato con insaccati vari, formaggi e giardiniera di verdure. Questo piatto è un sempreverde: ricordo che mia nonna offriva sempre salame, formaggio e vino a chi passava a trovarla, anche a metà pomeriggio, prima di offrire il caffè.
L’antipasto veneto insomma, è terra-terra, è nazional-popolare, ottimo piatto per festeggiare un bambinello nato in una grotta.
La regina degli insaccati è la soppressa, tradizionale del periodo invernale perché si manteneva meno del salame (che è più stretto e sopporta meglio il caldo), che coccola il palato accompagnata dalla grassezza vellutata del più ghiotto tra gli insaccati: l’ossocol. Se il Prosecco, che in queste lande viene bevuto anche fermo (un’enochicca oramai per pochi), non fosse bastato a sgrassarvi il palato ci penserà la giardiniera.Sia chiaro:
la giardiniera è un’arte.
Un’arte che unisce un po’ tutta la penisola e che è stata svilita dall’industria alimentare. Questa, ha bistrattato l’ottimo piatto della cucina nostrana e lo ha ridotto a una mistura insipida, acida e croccante: nulla a che vedere con la giardiniera casalinga, autentica esplosione dei sapori delle verdure dell’orto, che conservano la loro anima durante l’inverno nei vasetti, disposti in file ordinate in cantina.
Tra i formaggi, quelli freschi vengono dimenticati, casatelle, formajee, puìna (ricotta) e stracchino non trovano spazio alla tavola delle feste. A loro vengono decisamente preferiti Montasio, Asiago e la più “recente” tra le tradizioni culinarie venete: il formaggio imbriago (ubriaco).
Questo, vanta poco più di un secolo di storia ed è testimone di quando gli austriaci facevano malanni in terra italiana.
La leggenda narra che durante l’occupazione austriaca, un contadino scaltro, per impedire all’occupante di razziare la sua dispensa, nascose il formaggio sotto la vinaccia (la buccia dell’uva dopo la fermentazione); l’austriaco rimase affamato, il contadino ignoto regalò ai posteri memorabili antipasti il giorno di Natale.
L’accelerazionismo mal si adegua al cenone. Come tutti i riti ci sono i passaggi più lenti e i passaggi più concitati, ma non ci sono passaggi veloci. Il primo del cenone è un elogio alla lentezza ed è intimamente sposato con il brodo. Ovviamente il brodo è come il vino della messa, non si celebra la comunione col tavernello.
Poiché la preparazione spetta alle donne di casa, non mi sono mai preoccupato di assisterle, anche perché sono abbastanza sicuro che tra al toc de poastro e al toc de bestia (il pezzo di pollo e il taglio di manzo), il rischio di finire dentro anch’io, nel brodo, è alto. Il brodo deve essere grasso e l’ha da ‘ver i oci (deve avere gli occhi). Non potendo essere più preciso sulla preparazione, pena la perdita del cognome, vi basti sapere che nel brodo siffatto ci affoghiamo i tortellini salsiccia e radicchio, rigorosamente di Treviso. Per il primo si passa a un rosso beverino che non rovina il brodo coi suoi tannini: un marzemino dei colli trevigiani fa al caso nostro.
I discorsi intorno al tavolo, che fino al primo sono estremamente rilassati, dal secondo iniziano a farsi più concitati: Prosecchi e Marzemini iniziano a farsi sentire quando il re della serata, il bollito, è pronto a fare la sua entrata in scena. Il bollito delle feste è diverso da quello che si consuma a novembre perchè è sempre accompagnato dal muset, che qualcuno traduce con cotechino anche se non sono sicuro sia corretto.
Il muset è il piatto tipico del Natale perché questo insaccato, fatto con la cartilagine del muso, appunto, non si conserva come un salame; e poiché il porzel viene fatto su da dicembre a febbraio, i primi muset sono pronti sotto Natale. Un salame di cartilagine bollito, credetemi, è stomachevole, ne mangi due fette e senti appagato il tuo bisogno di misticismo e tradizione fino al prossimo Natale (o fino a Capodanno).
Come la baba jaga emerge dal ventre della Madre Russia, la storia di mio zio di ritorno da una serata alcolica che si mangia un muset intero, crudo e con la pelle, emerge dalla pentola del bollito. Comunque, ne avesse mangiato uno intero cotto, lo stupore misto al disgusto sarebbe stato uguale.
Non si capisce perché questo ingombrante ospite debba essere presente ad ogni Natale; del muset farei volentieri a meno, ma di una tradizione no; e poi, se sulle fette ci spalmi il cren, diventa quasi buono. Il cren è essenzialmente rafano grattugiato messo sott’aceto. Punto. Chi ci aggiunge zucchero o altro lo fa per smorzarne il sapore, che definirei acido-piccante, e ingentilirlo. Sbagliato.
Mio nonno e mio zio una volta si sono sfidati a chi teneva di più in bocca un cucchiaino di cren, il nonno ha vinto ma entrambi ne sono usciti lacrimanti e paonazzi.
Se il cren non vi fa questo effetto non è cren.
Il muset col cren è fatto per restare e ce lo porteremo avanti ancora per molto, nel XXI secolo ne abbiamo ancora bisogno per ricordarci chi siamo; a modo suo è futurista: non è un piatto per puttanell*, rimette uomini e donne al proprio posto.
Col muset col cren metteteci il vino che volete, tanto a questo punto sarete già mezzi ubriachi e con le papille gustative in pappa.
Contro l’eterna lotta tra pandoro e panettone, per evitare confezioni regalo con spumantini di dubbia provenienza annessi, spaccarsi i denti sul mandorlato è sempre un piacere (oltre al fatto che così vi risparmiate imbarazzanti flatulenze alla messa di mezzanotte dovute alle uvette del panettone).
Perché sì, tra affettati, brodo e muset col cren non dimenticate la cosa più importante:
ANDATE A MESSA
GESÙ CRISTO È NATO