Cercando Matrici

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Lettura boomer
Racconto post-umano: in un mondo di automati, cibernetica e rovine, un’androide si muove alla ricerca di terminali di una vecchia collezione. Rivenderli è facile, troppo facile con tutti quei collezionisti nella Grande Rovina, trovarli è un altro discorso.

Si erano fatte le quattro, e il cielo sembrava sintonizzato su un canale morto, su un continuo riverbero, rafforzato da nuvole acide, una seconda pioggia settimanale, che avrebbe piegato le lamiere, l’alluminio e la ruggine a un volere superiore.

La cittàuna volta con un nome derivato da millenni di scambi linguistici – era un ciclostile, qualità scarsa, inchiostro nerastro ovunque, capacità di ricarica inesistenti: le batterie si erano esaurite da una decina di anni, le ultime chiazze di petroleum erano ormai prosciugate, là dove osavano gli androidi, ora osano rari piccioni metallici alla caccia di ingranaggi da inghiottire, per spremere – ed estrarne – olio motori.

Là dove una volta razziavano i longobardi – i più fieri dei popoli – ora vi era solo un accenno di quello che era. Milano era sì morta, ma dal cadavere migliaia di vermi, centinaia di simili e centinaia di migliaia di microbi si muovevano accatastandosi, e spalleggiando, alla ricerca di un po’ di caro elisir violaceo.

Grande Rovina all’orizzonte, e la ragazza si svegliò, e la puttana di Babilonia tardava ad arrivare.

L’ora dell’Apocalisse: posticipata, l’ora dell’uomo: in supplementare.

Fiaba di AG4TA

Dare un nome a un microbo è affare di biologi, io mi limiterò a citare il codice a barre sulla sua spalla: AG4TA.

Camminava spedita verso un buco nel muro, un sassofono usciva da lì, mendicanti ai lati, passava e guardava rassegnata. Quella fessura era il suo obiettivo, e non aveva comunque monete per i poveri. Anche lei lo era.

Lei si faceva chiamare AGA. E loro, i microbi, ben la accettavano. Probabilmente in un altro mondo sarebbe stata una prostituta. Forse uno scienziato folle ebbe un attimo di lucidità a non dare simili pensieri agli androidi. E lei, vestita di stracci e pantaloni mimetici digitali ruggine, si muoveva aggraziata per la rovina, saltellando, atterrando e rovistando. Un corpo fatto da altri androidi, per l’uso dell’uomo nel più perverso dei modi, ma ora che non erano più alla guida di quel paese: tutto sembrava decisamente asettico.

Forse anche innocente.

Una nota di sassofono aprì il locale, dentro un androide serviva quel poco alcolico rimasto sul fondo di una bottiglia di sintetico a un simile. Il simile – umano inumano – era accasciato sullo sgabello, intorno a lui fili e cablati. Intorno a lui un androide suonava perché così voleva l’uomo che l’ha costruito. Una melodia malinconica, capace di farti mangiare melanzane e cetrioli sott’aceto a colazione, osservando Milano e pensando a vecchi cartoni animati: li davano ancora nel locale, forse per ricordo.

  • Hai quel pezzo che ti ho chiesto? Il collezionista aspetta.
  • Ah! Che sciocca, penso proprio di essermi scordata…

Aga estrasse un pezzo di carta di betulla riciclata. Dentro un programma antico, forse direttamente preistorico in quell’epoca, una memoria a 16 unità binarie – nemmeno troppo esotico. Lo porse al ricettatore e aggiunse:

  • Fortunatamente oggi è il giorno dei contrari vedo…

Lui con uno scatto le piegò il collo sul tavolo, la testa sul vetro rotto. Dopodiché prese il pacchetto, si alzò e se ne andò, sputando dietro di sé. AGA si ricompose, prese un sospiro. Prese il bicchiere rotto e lo porse all’androide. Sperava in un complimento, sperava di non essere solo un microbo.
Spera AGA. spera. Un suono riecheggiò nel locale, una campanella – poteva benissimo farne a meno, preferiva tenerla, era una compagna – AGA si toccò il braccio. Crediti addebitati dall’anonimo collezionista, bonifico rapido. Sorrise. Ordinò con un gesto un secondo bicchiere, festosa.

Il sassofono continuò, con una canzone acuta, da camminata, lungo città – di certo non rovinate – solitarie – spettatori alle finestre. Apparve quel che sembrava una sorta di ritornello, si sviluppò un continuo riverbero. Finché lo strumento non toccò una nota dolce, aggraziata. Aga era contenta, si pulì dall’alcalina sul labbro con la mano, succhiandone il dorso subito dopo. Entrò un androide. Si posizionò di fianco al sassofono.

Se un programmatore potesse dare nomi – e non gli inventori – darebbe categorie, colonne e righe di codice come nome. Un disegnatore industriale aveva fatto un lavoro perfetto con lui. L’androide è atto alla sua funzione, così dicevano tutti. Le regole della meccanica sono semplici – son tutte e tre di Asimov – e una afferma:

UN ARTIFICIALE
DEVE SERVIRE
UN ESSERE UMANO

E lui lo faceva: alla perfezione. Acciaio cromato, verdastro, si sporgeva là dove la pelle al silicone mancava, la maschera era caduta, ovunque sul suo corpo immense ferite biomeccaniche. E quando vide AGA, sorrise con i suoi denti coltivati in laboratorio. Si avvicinò.

Ordinò da bere, bagnandosi quel che rimaneva delle labbra con del Campari. Mandò giù tutto in un attimo. AGA lo osservò, con sguardo pietoso. Lui sorrise incrociando il suo sguardo. Non aveva un vero nome, perché un androide del genere ha solo un numerino stampato in fronte, ora sbiadito e in una numerazione aliena.

Porse una memoria a AGA. Lei si spaventò, ma prese in fretta la scheda, la passò sul braccio. Emise un suono, letta.

  • Sto cercando qualcosa di simile, sai aiutarmi?
  • È difficile, sembra risalente a un secolo fa.
  • Te sei la peggiore, ma quella con più coraggio.
  • Chi te l’ha detto?
  • I vermi.

Mandò giù dell’altro amaro e passò la sua mano su quella di AGA. Un secondo suono. Sorrise, digrignò i denti. Fuori dal buco iniziò a piovere, cadeva pioggia azzurro brillante. Piccoli cristalli che AGA osservò da una spaccatura nel muro, e sognò ad occhi aperti: Una cattiva idea – a detta di chiunque -: dare sogni a un androide, dovevano pur tentare – e dopo i primi incubi qualcosa sembrò stimolare un lato macabro negli umani. Riposò la testa sul tavolo, giocherellando col bicchiere.

E se un androide potesse sognare – tranne pecore elettriche – cosa direbbe a un suo simile incapace di ciò?

Legata a un tavolo, senza braccia, solo un involucro, tra numerose persone tutte con la faccia diversa. Uno le allungò una siringa, pungendo la sua pelle. E quando si risvegliò dalla dose tremava, ma era solo il primo cliente.

Si svegliò dopo poco. Aprendo gli occhi. Di nuovo, pensò. Perché? Perché a me e non a una più semplice.

Trovò le coordinate nella memoria. Disse qualcosa al braccio, una frase in codice, e si accese una piccola spia nella sua visione. Una faccina comparve alla sinistra. Sorrideva a occhi chiusi, come un vecchio cartone giapponese.

  • Ciao! Come stai AGA?
  • Bene, COM, sto bene… brutti sogni anche oggi.
  • Sei formidabile ricordatelo! Le coordinate sono a sedici chilometri da qui. Il meteo è sereno, oggi ruggine.

Il COM rise, una voce metallica. Poi si spense. AGA sorrise amaramente. Era il suo unico amico.

Fiaba di D3SP-4IN

Come costruire un androide? Complesso chiederlo a un umano: direbbe creare vita. Chiederlo a un similare: come me, ma senza pensiero. Chiederlo a un androide: meccanismi che sappiano replicarmi. L’androide creerebbe una replica di sé stesso – sempre se abbia un’immagine del sé in mente – è lecito pensare che per ogni forma cibernetica esista un suo clone, da qualche parte. D3SP era uno di questi. Lui era stato creato per rassomigliare un soldato: uno dei migliori in realtà. Cromatura verde, capace di cambiare colore per mimetizzarsi, dal giallo tramontino, al blu marino. Ormai era squarciato da battaglie. Vi era un pezzo di silicone simil-pelle in ogni provincia italiana. Da Napoli alle Alpi. Poi finì a bere Campari, piaceva pure al soldato. Il sassofono finì, AGA era uscita dal buco.

Anche lui si levò. Pagando in petroleum, lanciando una vibrante scossa al barista. Ogni innesto li prudeva. Ogni battaglia era visibile. D3SP levò gli occhi al cielo e ne codificò il colore. Verrà di nuovo a piovere, sussurrò.

Si girò di spalle al locale e iniziò a camminare. Eppure un desiderio dentro di lui lo spingeva a non bere più, un programma nella sua mente gli permetteva di essere sobrio doveva replicare tutto per tutto l’immagine ideale del soldato. Avvolto in un lembo di tessuto sintetico, continuò a fare ciò che sapeva fare meglio: marciare verso le stesse coordinate di AGA – come aveva fatto da almeno qualche anno. Le coordinate portavano lontano da Milano – in zone oscure ai microbi e ai vermi, ai simili e al sintetico.

Accese la torcia integrata dopo qualche giorno di luce artificiale, facendo vibrare la mano in silicone. Davanti a lui una palude. Un ammasso di acqua nerastra, alberi artificiali – dalle fondamenta cresceva tarassaco verde e luminoso, trifogli spennacchiati come piume di un uccello che aveva appena imparato a volare, un fiore giallo, luminescente, cresceva lungo la corteccia, correva, e correva fino ad annidarsi in uno spento similare artificiale. Il corpo immobile di un microbo, a caccia di petroleum, riposava con un grosso cacciavite tra D3SP e l’albero. Lui si chinò, ispezionò la zona, finchè: un colpo.

Si girò. Una lancia nel costato cromato. Guardò davanti a sé: tre microbi lo attendevano, arrugginiti e sfiancati. Lui sollevò la bocca, in una specie di sorriso. Tese la mano: il microbo che l’aveva colpito venne immobilizzato da un raggio elettrico. Esplose in mille pezzi. I microbi impugnarono le lance di rottami.

Potevate accogliermi meglio.

Colpi e scariche, il soldato si staccò la punta della lancia dal costato, e ne uscì olio motori. La lanciò contro i due, accumulò velocità, colpì in pieno un microbo intento a caricarlo. Il terzo si trovò da solo, furia e sventura, arriva il crociato: un solo colpo di mano gli staccò la testa, che rotolò nella pozza di acqua e olio. Si sfregò le mani, divennero incandescenti, cauterizzò la ferita fondendo il silicone. Prese la testa del microbo – un vecchissimo modello che fungeva da manutentore di sistemi idrici – e la lanciò lontana.

continuò la marcia

Salmo di TH30S

AGA saltellava da una parte all’altra delle dune, riempiendosi le scarpe di plastica di sabbia. Davanti a lei l’orizzonte era giallognolo. Ogni granello era un cristallo rossiccio – là dove una volta cresceva il riso – rare pozze di inquinamento davano modo alla vita di prosperare, ma tra una pozza e l’altra solo silenzio. L’androide prese un granello di sabbia e lo guardò da vicino, sorridendo: sembrava un piccolo fiocco di neve. Lo posò, con molta attenzione in mezzo agli altri, ora non aveva più un’identità. Saltellò di nuovo, muovendosi felice fino alle coordinate, sicura di trovare qualcosa che non siano grani ferrosi.

AGA guardò davanti a sé, con occhi dall’iride azzurra, e pupilla rossa. Come un fotogramma riuscì a indivuare nella sua visione un androide.

  • COM! Chi è?
  • Dalle informazioni che mi danno i tuoi occhi posso dire solo che sta viaggiando verso sud a dieci chilometri orari, sembra sprovvisto di armi, forse ha del petroleum.
  • Grazie! Che mi dici del suo atteggiamento?
  • Sembra deciso, vede davanti a sé l’obiettivo, ingrandendo vedo acciaio cromato verde.

AGA corse, non poteva essere lui, pensò. Quando fu vicina all’androide anche lui si fermò. Si girò e AGA rivide l’androide del buco. Chinò la testa come davanti a un principe, rivelando il collo. Lui la guardò stranito. In realtà si aspettava di trovarla.

  • Sei l’androide dei vermi! Mi hai seguita o che?
  • Stavo vedendo se eri seria, se il coraggio non ti è mancato.
  • Sei ferito?
  • Non è nulla, disse coprendosi il costato con la mano.
  • Allora possiamo andare insieme alle coordinate!

Viaggiarono insieme, nel silenzio, interrotto dal vociare di AGA. Continuava a guardare tra i suoi piedi, in cerca di insetti meccanici. Ma nulla, solo altro ferro. Chissà quanti androidi avrebbero potuto fabbricare con tutto quel minerale. Lui però lo sapeva: era la ruggine di androidi spenti, abbandonati lì, morti, uccisi, danneggiati, senza codici di riconoscimento, come granelli di sabbia.

AGA non credeva a quella leggenda, COM lo ripeteva spesso, lì ci fu una battaglia di microbi e vermi. Nessuno sapeva cosa li spense e nessuno sapeva perché nessuno li riaccese, aspettando la ruggine, e infine la polvere, senza possibilità di vita.

AGA inciampò, lui la prese al volo, sentendone il peso – irrisorio rispetto al suo – la rimise in piedi, poi guardò sotto di lei. Un piccolo ammasso di matrici meccaniche, ruggine penetrata nel profondo. Sollevò il marchingegno, lo ispezionò lasciando fare al suo COM. Prima di sapere la risposta, lo strinse al petto, come un cucciolo.

  • Che c’è?
  • Siamo vicini.
  • Le coordinate?
  • Esatto, siamo vicinissimi, disse, con un sorriso trattenuto dal volto apatico. Un sorriso che ben sapeva non appartenergli.

Arrivarono a una pozza. D3SP prese con le mani il liquido, lo portò alla bocca: dolce. Intorno a loro granelli di ruggine, intorno a loro stralci di una vita: l’acqua sporca faceva crescere numerosi fiori, migliaia di colori oltre al rosso, omnipresente. Mentre sopra di loro la Luna arrivava allo zenit. D3SP scavò sotto la pozza.

  • Siamo alle coordinate?, domandò AGA festosa.
  • Siamo arrivati, lasciami scavare.

Le sue mani di silicone e metallo erano piene di fango, sollevò una piccola cartuccia di un vecchio terminale, la pulì. Il verde brillante, mimetico, cambiava colore a ogni riflesso lunare. Guardò AGA. Lei rispose con un sorriso. D3SP mise la cartuccia in una tasca della mimetica. Prese un sospiro.

  • Siamo alla fine. Questa cartuccia dona la vita. Questa era la memoria del soldato da cui sono stato clonato, quasi un centinaio di anni fa. Ora riposa qui, e io riposerò con lei.
  • Vuoi che me ne vada? Sembri contento però…
  • No, anzi, avvicinati, è tempo di mostrartela.

AGA si avvicinò spedita, sorridendo, saltarellando. In un attimo fu vicina, sentiva il respiro del soldato, la sua massiccia corporatura, era pronta ad accettare la vita. D3SP prese un secondo sospiro, poi urlò.

Con un colpo tagliò di netto la testa di AGA. Liquido rosso schizzò ovunque, sui fiori azzurri e gialli, che si tinsero di cremisi. Sotto alla testa di AGA vi era una colonna vertebrale. E la sua trachea continuò a respirare ancora per qualche secondo. D3SP prese la cartuccia, la macchiò di sangue.
  • Era un segreto che doveva appartenere a me, ma oggi sei tornata utile, microbo umano. Gioisci Agata, gioisci! M’hai dato la vita! Finalmente un’anima!

D3SP alzò le mani al cielo, prese a pieni polmoni l’aria, giunse le mani battendo la cartuccia nella destra con la sinistra, si illuminò. La portò in un segmento del suo corpo, con un connettore. La connesse. Una lacrima iniziò a solcargli il volto. Poi una seconda. Terza, quarta, fino a che non crollò a terra, ridendo, sorridendo, in un pianto gioviale.

Alzò le mani al cielo. D3SP fu accolto da un bagno di pioggia, cristallina e pura, trasparente, fresca. Il suo corpo si sgretolò. Lasciando la carne viva, quella che aveva ottenuto in laboratorio, ogni goccia creava nuove cellule, nuovi innesti umani. Era nutrimento, era Manna. La pioggia si placò. D3SP rideva, nudo nella ruggine, avvolto dal suo mantello, intorno a lui pezzi di silicone e cromato verde.

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