Mi ricordo allora un episodio accaduto tanti anni or sono, in quinta elementare. Mi trovavo in gita al castello di Masino e fui convolto in un’attività didattica consistente nella rievocazione delle campagne del nostro Giulio Cesare in Gallia. Un energumeno burbero e severo nell’aspetto venne verso di me e mi armò alla maniera gallica, con venti altri compagni.
Vercingetorìge
Pronunciato anche con accento storpiato.
Allora, ovviamente, non sapevo nulla sul De bello Gallico, ma alla prima battaglia appresi il nome del nostro austero rīx: Vercingetorìge, pronunciato anche con accento storpiato.
Eravamo un’armata Brancaleone sanza meta e perdemmo due battaglie. Il rīx s’infuriava facilmente – bastava uno starnuto – e i miei compagni erano tutti intimoriti. In questa rappresentazione macchiettistica della battaglia di Alesia (52 a. C.), Vercingetorige lanciò un appello disperato ai suoi uomini perché lo seguissero, ma questi disertavano, passando dalla parte di Cesare. Forse ero rimasto affascinato dai fumetti di René Goscinny, da quell’unico villaggio della Bretagna che resiste indomito all’incedere delle armate del goffo Cesare, o forse ribollivano in me la mia doppia natura, ligure e taurina, la mia vocazione di ambrone, il mio sangue di fero allobrogo. Fatto sta che, pur non conoscendo ancora la Germania di Tacito e le considerazioni di Simone Weil sulle origini dell’hitlerismo nell’impero romano, sentivo di simpatizzare per Vercingetorige, il buon Selvaggio che era riuscito a conquistare la mia fiducia
Provai a farmi avanti, a urlare per farmi notare dal mio duce. Non mi sentì. O meglio, non volle sentire, perché quel personaggio caricaturale aveva deciso che la sua avventura doveva finire in solitudine, ad Alesia appunto. Così, mi dovetti unire, mio malgrado, all’esercito dell’odiato imperialista.
Qualche tempo dopo, la maestra di storia, compiendo un’operazione davvero brillante, invitò la mia classe a una riflessione sul rapporto tra Roma e i barbari, sull’integrazione e sull’imperialismo romano.
Da un lato, vi è una tradizione che elogia Roma in qualità di grande impero muticulturale. Tale corrente di pensiero arriva fino a un autore tardo come Rutilio Namaziano (V secolo d. C.), il quale, pur vedendo l’impero sgretolarsi a opera di predoni cristiani lungo il suo cammino verso le Gallie, si esibisce in un poetico e decadente saluto a Roma, che nella sua visione sarà certamente in grado di risvegliarsi dalla sua momentanea decadenza. Per Rutilio, Roma ha dato una patria – e con essa il diritto e la costituzione, in una parola la civiltà – a tutte le genti del mondo:
Latino | Traduzione |
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«Fecisti patriam diversis gentibus unam; profuit iniustis te dominante capi;Dumque offers victis proprii consortia iuris, Urbem fecisti, quod prius orbis erat.» | Desti una patria ai popoli dispersi in cento luoghi: furon ventura ai barbari le tue vittorie e i gioghi: ché del tuo dritto ai sudditi mentre il consorzio appresti, di tutto il mondo una città facesti.» |
(traduzione di Giovanni Pascoli).
Dall’altro, vi è la tradizione che vede nel barbaro il buon selvaggio, non ancora corrotto dai vizi della Civiltà (si pensi alla Germania di Tacito)
In particolare, in Agricola, 30, Tacito fa dire a Calgàco, capo dei calèdoni, che il prezzo da pagare per ottenere l’integrazione tanto cara ai romani è assai alto:
Latino | Traduzione |
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«Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, et mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» | «Razziatori del mondo, adesso che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra, vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare. Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Fanno il deserto e lo chiamano pace» |
Ebbene, la maestra ci chiedeva se concordassimo più con Calgaco o con altri autori che invece sottolineavano la pars construens della conquista romana: strade, ponti, acquedotti, teatri, anfiteatri e edifici pubblici di vario genere. Io mi schierai con i secondi: nel giro di pochi mesi la mia posizione era cambiata dall’essere immune agli huntingtoniani «canti di sirena del multiculturalismo» nella mia Arcadia gallica, come un Bongo Bongo Bongo qualsiasi, al voler essere partecipe del grande sogno imperiale. È il subdolo ricatto degli imperi ben descritto da Yoram Hazony ne Le virtù del nazionalismo (Guerini, Milano 2019, pp. 66-78): assicurare la pace in cambio della rinuncia all’indipendenza da parte delle singole nazioni.
Un’evoluzione non da poco nel nicomacocozismo. Si trattava di un riconoscimento al contempo della finitezza della mia civiltà rurale e dell’evidente superiorità tecnica dell’avversario. Una civiltà archeofuturista è una civiltà capace di andare oltre sé stessa, finanche di reinventarsi. Quel fatalismo dimostrato da Hitler il 18 marzo 1945, quando scrisse ad Albert Speer:
La mia presa di posizione non era già una stanca ripetizione del sogno romano, ma piuttosto aveva l’aria di una sintesi hegeliana: se la tesi è che Cesare è un eroe della patria e l’antitesi che è un oppressore, come direbbero gli antropologi culturali – qualunque cosa sia un antropologo culturale (cit. Claudio Giunta) – la sintesi, e quindi il giudizio storico, non può che essere che Cesare ha fatto anche cose buone.
Eppure, la mia maestra non comprese questo mio sforzo di assimilazione al nemico e corresse il compito assegnandomi un misero «bene».
A un mio compagno, più filantropologo che filantropo, che aveva criticato più duramente l’imperialismo romano, andò un «ottimo lavoro!».
Superato il trauma di un voto mediocre in quella che reputo la Regina delle materie, non posso che lanciarmi ancor più convintamente in un elogio di Cesare. Infatti, ho constatato che:
«il sogno di una più grande Inghilterra, di una più grande Germania, di una più grande America porta, qualunque cosa si voglia e qualunque cosa si faccia, al sogno di una più grande umanità»
(Anatole France, Sur la pierre blanche, Calmann-Lévy, Parigi 1905, p. 161).
È l’utopia – o distopia che dir si voglia – di Nick Land.
Le legioni di Cesare, profeta del Progresso, sono come i cannoni del generale von Frundsberg ne Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi (2001): esse giungono ad annunciare ai galli un nuovo modo di combattere, una nuova tattica militare. Cesare è Hitler che invade la Polonia, è la dittatura dello sviluppo di Stalin, è l’anarchismo intellettuale che si manifesta in un’esplicita libertà di oppressione, è l’espansionismo illimitato sia a livello geografico sia a livello morale.
Un galata morente è una tragedia, un milione di celti morti è statistica.
La vecchia saggezza russa ci insegna che quando si fa una frittata bisogna rompere le uova e che quando si taglia il bosco volano le schegge. È la verghiana fiumana del progresso e i galli non sono altro che i vinti, tragicamente spazzati via dall’impetuoso vento della Storia. Si può simpatizzare per loro per solidarietà, ma forse l’atto veramente futurista consiste nell’abbracciare la visione sintetica dei vincitori con tutte le sue contraddizioni.
Convertitevi e credete all’Impero, o galli della padanosfera tutta, poiché l’era del colonialismo spaziale è vicina. Me ne fotto di voi!
Cesare è il volto di un Occidente che incede non ancora minacciato dalla morale giudaico-cristiana. Non è solo, ma è la sintesi dell’umanità tutta, un monstrum che tutto assorbe.
I camerati che la morte ha già baciato son sempre qui e marciano con noi, come nell’Horst Wessel Lied.
Scrive Latouche (L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 35)
«l’Occidente ci appare come una macchina vivente, i cui ingranaggi sono degli uomini e che tuttavia, autonoma rispetto a coloro dai quali trae forza e vita, si muove nel tempo e nello spazio secondo i suoi umori».
Cesare è un sognatore come l’Alexandros del Pascoli, un utopista in senso donchisciottesco, ma in lui la pars destruens si confonde con la pars construens:
«la più formidabile macchina per produrre è per ciò stesso la più spaventosa macchina per distruggere. Razze, società, individui, spazio, natura, foresta, sottosuolo: tutto dev’essere utile, tutto dev’essere utilizzato, tutto dev’essere produttivo in una produzione spinta al massimo dell’intensità»
(Pierre Clastres, Recherches d’anthropologie politique, Seuil, Parigi 1980, p. 56).
Ma la vocazione imperiale non è l’unico motivo per lodare Cesare.
Ve ne sono almeno altri cinque.
Il primo è la clemenza, la virtù che consiste nel non infierire sugli sconfitti e nel non provare odio per i nemici. Il secondo è il garantismo che dimostrò nel 59 a. C., da console, quando esiliò l’infame Cicerone, colpevole di aver denunciato Catilina e i suoi sostenitori in Senato facendoli condannare alla pena di morte senza concedere loro il diritto di appellarsi al popolo con la provocatio ad populum (fatti avvenuti nel 63 a. C.). Quousque tandem, Cicero? Il terzo è la sua appartenenza ai populares, nonché la generosità dimostrata nel suo testamento, pur essendo sicuramente consapevole – e lo dimostrano i fatti – che il popolo, come diceva Hegel, è una massa informe che non sa ciò che vuole. Il quarto l’aver ripudiato Pompea perché la moglie di Cesare dev’essere al di sopra di ogni sospetto.
Il quinto è il suo aspetto oscuro, il suo fascino per l’Oriente di Nicomede IV Filopatore e di Cleopatra, che gli diede un figlio cretino – come capita a tutti i grandi -, Cesarione.
Un aspetto oscuro ben esemplificato da un’affermazione che Plutarco gli attribuì, secondo la quale è meglio esser primo in un piccolissimo villaggio delle Alpi che secondo a Roma.
Una frase che anticipa il Lucifero di Milton. Nelle Vite dei Cesari Svetonio narra che il giorno del trionfo sui galli i suoi soldati cantarono:
Latino | Traduzione |
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«Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem» | «Cesare ha sottomesso le Gallie, ma Nicomede ha messo sotto lui. Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso, non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui» |
Mi piace ricordarlo così.
Regina di Bitinia, imperatore e autocrate, dittatore a vita, inetto e dissoluto, audace e risoluto.
Anarchico che, diversamente dall’Eliogabalo di Artaud, non fece in tempo a essere incoronato.
Diagnosta perspicace della crisi della repubblica, volle accelerarne la fine, e cadde vittima della sua stessa accelerazione per mano del figlio traditore.