Osteria, Hosteria, Ostaria, chiamatela come volete, tanto non esiste più.
Domenica 21, insieme ad altri blastidi, mi sono recato in una località segreta del Nord Italia
per una mostra d’arte. Chiaramente ci siamo recati lì per voi, e a breve uscirà un articolo dedicato.
In tutto eravamo in quattro e dovevamo mangiare. Io sarei anche andato al kebab ma Ranpo dice
“gnoo andiamo in un’osteria a mangiare qualcosa di tipico”
che tradotto nella mia lingua
“gnoo facciamoci inculare in un posto per turisti”
d’altronde eravamo pur sempre in un posto bellissimo ridotto al rango di parco giochi per tedeschi. Ahimé destino condiviso da altri centri storici italiani.
Comunque l’idea di Ranpo non era così male e alla fine lo convinco ad andare all’osteria, nominata, in modo molto banale, “la Frasca”.
Da un posto che si definisce Osteria ci si aspetta, generalmente, un servizio alla buona, una cucina tipica, amari nazional-popolari, vino sfuso della casa, tanto vino… E un’ostessa formosa che mette abbastanza in mostra il suo davanzale, quella che in veneto chiamiamo
“’na bea femenota”.
L’assenza dell’ostessa è sempre una carenza ma in fin dei conti ci si può passar sopra. A meno che tu non sia un vecchio di 80 anni che va in osteria per star distante dalla moglie e per godere con gli occhi (questo tipo di avventore ha fatto il camionista per tutta la vita ed è questo il segreto delle sue nozze d’oro: non vedere la moglie più di tre giorni al mese).
Insomma, l’ostessa sarebbe un bel plus ma non è essenziale. Ciò che è essenziale è il servizio alla buona. D’altronde senza l’oste, l’ostessa o il semplice cameriere, che ti danno del tu e che in 30 secondi inquadrano i tuoi gusti e i tuoi desideri, non ci sarebbe osteria.
Ma anche questo non basta, altrimenti il baretto dei cinesi sotto casa sarebbe l’osteria romana da manuale.
Per fare l’osteria ci vuole anche la cucina tipica, semplice, popolare, genuina, con i nomi in dialetto.
Oddio, a dire il vero le frasche di fine ‘800 erano semplicissime mescite di vino, se il locale era particolarmente infimo diventavano delle bettole, ma il cibo non era una prerogativa. Lo è diventato quando è nata l’osteria con cucina. Osteria con cucina che si è evoluta negli anni ‘30 e fino agli anni ‘70 nella trattoria.
Ma restiamo concentrati sull’Osteria.
Lo avrete capito, la cosa fondamentale dell’Osteria – o della Frasca – è una: il vino.
Beninteso, il vino popolare, nazional-popolare, un vino semplice, un vino coca-cola per certi versi, un vino da bere per scaldarsi d’inverno o per rinfrescarsi nella calura estiva, un vino senza pretese, un vino leggero, un vino da bere a colazione, un vino da servire in caraffe, in bicchieri, in goti, non in calici.
BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI BEVI
BEVI!
Con mio sommo sbigottimento, quando ho chiesto mezzo litro (a testa) di vino bianco della casa, il cameriere – che non ci aveva inquadrato in 30 secondi e che non mi aveva fatto sentire a casa – mi dice:
“non lo abbiamo, se vuoi vino devi prenderlo al calice”.
Se vuoi vino devi prenderlo al calice.
E tua mamma è puttana! Volevo rispondergli io.
Ma siccome sono un signore (sono stato anch’io cameriere), ma soprattutto non pranzo mai senza vino, specialmente la domenica (sono un uomo all’antica), mi sono limitato ad ordinare un calice di chiaretto (a testa).
Era bevibile, ma avrei bevuto meglio e speso meno col mezzo litro della casa. Insomma, col mezzo litro della casa me ne sarei andato più contento. Per il resto la cucina era buona, il conto un po’ caro, ma eravamo sempre in un turismificio – e avevamo preso un calice di mediocre chiaretto a 5 euro
.
Da questo insolito pranzo domenicale ho tratto alcune riflessioni.
La prima è che venti euro per la guida slow food alle Osterie d’Italia sono un buon investimento.
La seconda è che a Ranpo voglio bene ma… Nessun “ma
” amici, un uomo può definirsi tale solo se sa prendersi le proprie responsabilità e sto giro è colpa mia.
La terza è il declino dell’osteria italiana – termine abusato e totalmente snaturato -, fenomeno complesso causato dall’oste e dal consumatore stesso, uniti in uno strano rapporto di interdipendenza.
Pensateci un attimo. È inutile fingersi esperti sommelier (che comunque mi stanno sul cazzo), è inutile roteare il vino nel calice per darsi un tono, come è inutile dire che sa di “frutta rossa
”, o stronzate simili, quando stai bevendo un Prosecco.
Non voglio cagarvi in testa dall’alto della mia cultura enologica, anche perché questo articolo somiglierebbe pericolosamente a un articolo di Repubblica; voglio farvi riflettere sul perché.
Perché vi atteggiate quando avete davanti un calice al bar? Perché quando state bevendo il peggior Traminer esistente in Italia, che più che di rosa sa di carta igienica, inventate 4000 descrittori floreali? Ma soprattutto, perché vi sembra normale pagare 5 euro (come minimo) un pessimo calice di un bianco pieno di solfiti?
Sono incazzato. Esco dal Veneto e il vino sembra trattato come l’oro, viene portato in palmo di mano, costa tanto e si vede poco.
Essenzialmente viene trattato come una figa alla prima uscita.
Volendo fare un parallellismo, a forza di bere merdaccia e strapagarla, avete scambiato la brunetta mezza figa per cui tutti avevano una cotta in seconda superiore per la Gatta Nera.
La cosa peggiore è che i ristoratori stessi, in parte canaglie attaccate ai schei, in parte esperti ignoranti in fatto di vino, hanno pensato di fare ciò che si è già visto nei pub e nelle birrerie per le birre:
Trentamila etichette, diciottomila stili, 97% dell’offerta “artigianale” “naturale” o “biodinamica”, prezzi, folli.
Con buona pace dell’osteria NaziPop che voleva dar da bere a tutti e regalare un po’ di svago e di sano stare insieme alle anime in pena, viandanti assetati in questo deserto sociale che è il mondo del terzo millennio.
Di bere aceto e strapagarlo, francamente, non ne ho voglia
.
Di bere birra, surrogato del vino per i popoli barbari che non conoscevano la CULTURA della vite, francamente, non ne ho voglia
.
Di bere acqua, l’avrete capito, non ne ho voglia
.
IO VOGLIO BERE VINO BUONO A POCHI SCHEI.
Chiedo troppo?
Via il calice, rimpiazzato col goto da ombra; via le bottiglie, rimpiazzate coi fusti e le spine; via il biodinamico, il naturale, l’artigianale, rimpiazzati con dell’ottimo vino proto-industriale anche del produttore locale. Perché sì, accanto a naturalisti fricchettoni truffaldini venditori di aceto, ci sono tanti piccoli e medi produttori che fanno ottimo e semplicissimo vino, senza grandi pregi, senza grandi difetti. E anche grandi produttori che fanno dell’ottimo e semplicissimo vino. Di più, qualsiasi distinzione superiore a bianco-rosso e fermo-frizzante dev’essere bandita dall’osteria.
A questo punto, l’osteria così strutturata, può andare incontro a due possibili scenari:
- Fallire miseramente
- Fatturare come mai prima
D’altronde se “l’imprenditore” è artefice del proprio destino, gli osti – che sono imprenditori, né più né meno del bauscia con la fabbrichetta – dovrebbero accettare la sfida e smetterla con questo cartello che condanna gli assetati avventori a bere vino mediocre e pagarlo troppo.
A questo punto lo avrete capito:
aprire un’osteria è il mio sogno nel cassetto.
Certo, mi mancano i soci perché ho degli amici busoni e qualche reticenza (chi cazzo lo spiega ai miei che ho fatto 5 anni di università per finire ad aprire un’osteria?), ma i presupposti – e il business plan che vi ho appena presentato – mi sembrano buoni.
Ho già in mente anche il nome:
“Osteria alla bisata”
Ma, come in ogni sogno bagnato, all’improvviso mi sveglio e un dubbio mi assale:
Oggi, in Italia, come chiamiamo un posto dove mangiare e bere decentemente spendendo poco?
Kebab.
“KEBAB ALLA BISATA – prossima apertura”