Sono d’accordo con lei.
4718 euro netti al mese non sono uno stipendio d’oro. Anzi, non sono neppure uno stipendio buono. E non mi interessa se lei percepisce anche una diaria di circa 3500 euro al mese, 3690 euro al mese di rimborso spese per l’esercizio del mandato, 3300 euro trimestrali per i trasporti e 1200 euro all’anno per le spese telefoniche. Non m’interessa se Lei, onorevole Fassino, sventolando in aula la sua busta paga, si è fatto quella che un buon piemontese come Lei definirebbe figura da cicolaté.
Una figura da cioccolataio.
Sono d’accordo con Lei perché so che Lei è un profeta, il Nostradamus del secolo XXI. Lei ha fatto di Grillo un politico, di Chiara Appendino il sindaco di Torino, del referendum costituzionale del 2016 una tragedia, della polveriera ucraina una guerra atomica.
Se Lei ha fatto quel discorso è perché qualcuno sta per toglierLe lo stipendio. Qualcuno trama nell’ombra. E io sono disposto a combattere ogni giorno sulle barricate del Bello, per difendere questi sacrosanti privilegi.
Esiste un ordinamento naturale, che prevede che chi è bravo nell’arte della parola alla fine prevalga sempre su tutti gli altri. Che la mente abbia bisogno di braccia è una balla colossale, una balla che risale alla prima secessione della plebe, nel 494 a. C., quando Menenio Agrippa raccontò il famoso apologo delle membra e dello stomaco. Quello secondo cui l’ordinamento sociale romano è come un corpo umano, i plebei sono le braccia e i patrizi lo stomaco. In questo ordinamento, gli organi sopravvivono solo se collaborano (mi rendo conto adesso che è un perfetto esempio di teoria dei giochi)
Infatti, se lo stomaco non riceve cibo, anche le braccia moriranno.
Ma i patrizi, la mente, sono un tipo particolare di stomaco. Uno stomaco versatile, uno stomaco che sa essere braccio. Il mondo appartiene a chi sa essere braccio e mente al contempo. Penso a uomini spietati, come Pavolini, come Farinacci. Uomini d’intelletto, ma anche d’azione. Menenio Agrippa non aveva capito un cazzo.
L’aristocratico è versatile, può essere braccio, ma solo ove occorra. In condizioni di normalità, meglio ricorrere alla schiavitù. Lo diceva già Aristotele, ci sono uomini naturalmente portati alla schiavitù. Menenio Agrippa perse un’occasione per liberarsi per sempre del lagnoso popolino romano.
Il mondo appartiene a chi è capace di ammaliare, di intortare, di mantenere sottomessa la collettività. C'è una figura nella società che col suo polemismo e con le sue critiche è un costante stimolo al miglioramento. Gli antichi individuarono questa figura in Aristarco di Samotracia, sesto bibliotecario di Alessandria, il quale era «estremamente rigoroso, e secondo alcuni maligno e pedante [...], spese la sua esistenza a cercare le pecche nei lavori degli altri, senza nulla concedere nemmeno a Omero, Pindaro, Esiodo». Da tale fama deriva l'espressione "fare l'Aristarco", che significa «cercare i minimi difetti di qualcosa o di qualcuno in modo fiscale, pedante o maligno; invalidare un progetto, un'iniziativa e simili sulla base di una sua trascurabile manchevolezza. Anche accanirsi contro qualcuno fino a confonderlo»
(Dizionario del Corriere.it, modi di dire).
Ebbene, il mondo è e sarà sempre governato dagli Aristarco e dai Piero Fassino.
Anche laddove si mantenga una parvenza di democrazia, e questa è una buona notizia. La democrazia non è altro che furbocrazia, il governo di machiavellici golpe e lione. Il compito dell’intellettuale in senso lato, del politico, del profeta è quello di vivere, possibilmente mantenuto con pensione di Stato. Lo aveva capito Carmelo Bene, e prima di lui il vegliardo in sacre visioni assorto che per anni occupò lo scranno di senatore del Regno sparando sentenze su quella roba allora inesistente che era la lingua italiana.
Onorevole Fassino, il domani appartiene a noi. A noi, non a coloro che propongono salari minimi. L'ordinamento naturale è quello in cui i saggi governano e gli altri lavorano e crepano di fame. E possibilmente devono stare allegri, ché il loro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, come cantava quel genio di Jannacci.
In questo momento, Le scrivo da Sivas, dalla Turchia profonda, dalla Turchia ultraerdoğanizzata. Sono capitato qui il 17 luglio perché il mio professore di ittitologia mi ha proposto di partecipare a uno scavo archeologico. Ero entusiasta. Questo scrivevo nel mio diario:
«Va bene, mi emoziono molto di più di fronte a una tavoletta che di fronte a un frammento di ceramica, ma questo non significa che io non comprenda quanto la scienza archeologica sia preziosa nel rivelare usi e costumi di un popolo. Non esiste storia senza archeologia, come non esiste archeologia senza storia. Non intendo essere lo stereotipo del filologo che si chiude nella sua torre eburnea e non vuole sporcarsi le mani con la volgare pratica dello scavo. Non l'hanno fatto i miei professori di ittita, accadico e sumerico, non lo farò io. Io voglio toccare la terra, sentire la terra, vivere il clima rigido e gli altipiani impervi in cui nacque la gloriosa civiltà di Hatti. Io voglio sapere. Voglio sapere dove costruivano le loro città, come le costruivano, come erano organizzate, quando le costruirono e quando caddero in rovina. Voglio vedere le rovine di Hattusa, coi suoi maestosi leoni copiati dai volgari cani micenei. Io voglio vedere».
E certo di cose ne ho viste nella città che fu scelta da Tuthaliya II come capitale per sfuggire alle invasioni dei Kaška, nella scuola di Tuthaliya IV e Nikkal-madi.
Ma la mia luna di miele con l’archeologia è finita dopo sei giorni.
Che qualcosa andasse male era già stato annunciato dal licenziamento di Serdal, alias cowboy man, un operaio cafone che amava fare battute e importunare le persone. Un rozzo contadinaccio, ma non per questo una cattiva persona. Ebbene, Serdal è stato licenziato il quinto giorno per aver detto che cercava qualcosa di prezioso e nessuno gli avrebbe impedito di trovarlo.
Manco fosse Indiana Jones, manco fosse il selvaggio West. Serdal è stato cacciato da un tribunale popolare – rigorosamente in turco – che ha deciso la sua immoralità. Sono l’unico ad avere una foto con quell’uomo, a cui per qualche strana ragione stavo simpatico.
Il giorno dopo ho capito chi comanda veramente qui.
İsmail Bey. Il signor İsmail. Il commissario sovietico. L’uomo di Ankara. 𒇽𒆳𒌷𒀭𒅗𒊏. L’uomo di Erdoğan. L’uomo del bigolòn, per citare Crozza-Dario Fo.
Era accaduto che per giorni avevo setacciato terra con un ragazzo di nome Ahmet. Bassino, capelli neri corti, un taglio un po’ tamarro. Ha una scontrosa grazia, abbina dei pantaloni sportivi neri con una maglietta grigia e una camicia bianca a pallini sopra. Sciarpa bianca, cappello di paglia, stivali gialli. Una specie di Enzo Miccio che incontra Michele Misseri.
Dal giorno in cui l’ho conosciuto non si è mai cambiato. Ebbene, facciamo amicizia. Lui mette una canzone turca, io una italiana. La direttrice ci ha autorizzati. Gli ho fatto ascoltare Battisti, Vecchioni, Dalla, Mina, Battiato, Vasco, la PFM… L’ho visto ballare e canticchiare Cucurucucù Paloma. Il mio sogno erotico.
Voglio che sappia che sono venuto qui, in questo villaggio sperduto della Turchia profonda, a fermare la latinizzazione della lingua turca.
Col mio kardaş, mio fratello, la comunicazione è fatta tutta di sguardi. Non capisce un’acca d’inglese (dice di aver seguito solo quattro lezioni), nonostante sia uno studente universitario di ingegneria.
Ebbene, tutto questo non piace al nostro İsmail-Aristarco, subito ribattezzato da me e dall’altro italiano del gruppo il Grande Puffo.
Un nuovo tribunale ha deciso che gli operai facevano troppe pause per bere e per fumare, che la musica non è gradita, che non si può lasciare terra sullo scavo senza setacciarla, che io non sono qui per imparare il turco.
Per quello potrei andare ad Ankara o a Istanbul, dicono. In turco, ovviamente. Ma io non ho mai detto di essere qui per imparare il turco. Semmai, avrei voluto imparare il turco per essere qui. Volevo poter comunicare, capire almeno qualcosa di ciò che gli altri dicevano. Volevo e non ci sono riuscito. A volte fallisco anch’io. Se devo comunicare con un operaio che non conosce l’inglese devo sapere come si dice cazzuola, come si dice setaccio, come si dice pala, come si dice pausa, come si dice bere un bicchier d’acqua. E invece no. Per l’uomo di Ankara, non è possibile parlare e lavorare contemporaneamente.
Un’altra volta, se l’è presa con la direttrice dello scavo dicendo che aveva perso totalmente il controllo semplicemente perché c’era stata una lite riguardo alla lavatrice. Volevo lavare i miei vestiti, ma non c’era l’acqua. Quando l’acqua è tornata, mi sono precipitato dalla lavatrice, ma una ragazza era arrivata prima di me e aveva messo un programma di due ore. Dal momento che avevo in programma di andare a Sivas, le ho chiesto se potesse mettere il programma più corto. Quando sono tornato, aveva di nuovo messo un programma di due ore. Mi sono incazzato, le ho chiesto se mi potesse lavare i vestiti una volta finito.
Erano in una borsa, non li doveva neanche toccare. L’alternativa per me era presentarmi sul sito nudo (cosa da provare, peraltro, visto che le regole bandiscono pantaloncini corti e canottiere)
Lei ha accettato, ma al ritorno l’antropologa fisica mi ha puntato il dito contro. Al che sono esploso. Per giorni mi ero sentito dire che ero lento, che ero diverso, che facevo le cose alla maniera italiana. Trovando l’idea vagamente razzista, le ho detto che sarà pure la maniera italiana di fare le cose, ma in Italia siamo soliti farci favori senza rinfacciarceli e senza che altre venti persone ficchino il naso. Sembrava la scena di Quo vado? in cui Checco s’incazza al supermercato.
Insomma, questo İsmail semina zizzania, ma è come il dalemiano del Terzo Segreto di Satira: sarà sempre ricordato positivamente, perché lui è quello che tiene alto il morale della truppa, quello che porta i gelati e i cicles – uso appositamente un piemontesismo di cui vado fiero -, quello che al mattino ti chiede come stai. Il suo lavoro consiste nel fare il can da trifole, il cane da tartufi. Beve il suo tè nella sua tazza con citazione in turco di Mark Twain, passeggia tra le aree di scavo, ogni tanto trova un tartufo paleolitico. E il vecchio zozzone ci provava pure col mio ex compagno di stanza. Roba più da galera che da Morte a Venezia.
A tre giorni dal mio declassamento, la ragazza più carina e più gentile di tutte se n’è andata in lacrime sbattendo la porta. Da quel momento, sono stato soggetto alla tirannide di un altro soggetto aristarchico, Nurbahar. Voglia di lavorare nessuna, ma desiderio di comandare alle stelle. Veniva in cucina alle cinque del mattino per dirmi di che dimensione dovessero essere pomodori e cetrioli, manco fosse l’Unione europea. Sullo scavo, mi diceva che la livella non era ben fissata, che poteva cadere da un momento all’altro.
Sempre la stessa frase: IT IS NOT FIXED, IT COULD FALL. E magari cadesse davvero una buona volta… Poi se faccio leggere l’elevazione del terreno a un operaio non va bene, perché devo sempre controllare. Perché gli operai, in quanto operai, sono ignoranti. Errore di tutti i dittatorucoli inesperti quello di sottovalutare l’intelligenza del popolo.
Mi chiedo se i miei eroi facessero tutto questo. Se Marija Gimbutas andasse tutte le mattine a controllare che la livella fosse fissata, se Colin Renfrew tenga sotto stretta sorveglianza i suoi operai.
Mi dicono che se fossimo nel Paleolitico il mio operaio caccerebbe, il mio collega vegetariano raccoglierebbe e io setaccerei. Mi chiedo se nel Paleolitico ci fossero i weekly shifts e una proto-Nurbahar a rompere i coglioni. Nulla di simile. Cibo per tutti, e la sera tutti attorno al focolare a filosofare. Un chopper in testa a chi rompe la quiete. Lo ha scritto James C. Scott, la rivoluzione agricola fu una catastrofe.
Insomma, se per l’altro italiano l’archeologia è un modo per soddisfare, o meglio placare, quel richiamo nomadico che secondo Bruce Chatwin è intrinseco a ogni uomo, per me è una grande rottura di coglioni. O forse il mio richiamo nomadico è talmente forte che dopo soli sei giorni volevo già fare come Baglioni. Tornare a casa, alla mia fottutissima casa, nella mia fottutissima solitudine. Non chiedo altro che una misera vita lontano dal mondo.
Voglio viaggiare, certo, ma forse più come un aristocratico del Settecento che come un Indiana Jones del XXI secolo, sfruttato e sottopagato. Che poi il mio collega è pure ben pagato – non qui in Turchia, dove prende appena 400€ a settimana – ma è pur sempre un manovale. Acculturato sì, ma pur sempre un manovale. Un operaio della cultura. Uno che si sporca le mani. Io non mi sporco le mani. Perché sono già nero.
Ebbene, onorevole Fassino, da grande voglio fare l’İsmail Bey, il Nurbaharro o il Piero Fassino. La prego di insegnarmi come si fa a diventarlo, Lei è il solo che mi possa aiutare.
Con profonda stima e nostalgia per le lande sabaude,
Nicomaco Cozio