Questi anni, dalle steppe ucraine al deserto del Sinai fino agli estremi confini d’Oriente, noi crediamo si possano riassumere con una frase: legittimità dello status quo. Che assume un tratto alquanto grottesco se si ammette che la legittimità si rafforza, almeno nella teoria, nella misura in cui aumenta il suo contrario, il palesarsi di un’alternativa che appare più, a noi occidentali, come un sovvertimento dell’ordine esistente.
Al di là di ogni definizione giuridica lo status quo, che è e rimane appannaggio dell’Occidente, si mostra però, nella sua impalpabilità e immanenza, come qualcosa di impossibile da difendere, quand’anche si individui un nemico esistenziale, per il semplice motivo che esso è già, è incarnato universalmente e nella stessa nostra sostanza umana. E dunque se esso è dato già per tutto l’orizzonte umano a prescindere, è chiaro come in ultima istanza non possa essere vitale, non possa rinnovarsi ma solo irrigidirsi, non possa essere abbattuto ma solo implodere. In definitiva lo status quo, che si appaga nella sua traiettoria globale, è più vicino ad essere considerato la morte che la vita, almeno per quei popoli che non hanno la grazia di essere investiti da alcun destino manifesto.
Per evitare fraintendimenti, e con un occhio attento all’Europa, lo status quo si può identificare con un altra frase che è più un programma: autodeterminazione dei popoli, dove ovviamente l’autodeterminazione è intesa in ottica democratica. Nonostante, e forse anche grazie (rimandiamo al sempre attuale Huntington e al suo “Scontro di Civiltà“), a decenni di globalizzazione economica, noi ci muoviamo nel mondo con coordinate ancora nazionali di cui, nonostante i proclami e le tentazioni, non riusciamo a fare a meno. Non riusciamo poiché l’autodeterminazione (democratica) dei popoli innalzata a principio universale è lo zenit della nostra globalizzazione, la nostra identità universale a cui tutte le altre si devono conformare (e perciò questo discorso vale anche, anzi sopratutto, per tutti i progressismi-terzomondisti vari).
Ad ogni popolo, ogni Nazione consegue uno Stato, o così dovrebbe essere. E’ la sostanza viva e intera del popolo inteso come potere sovrano di ultima istanza che precede e che costituisce lo Stato, e di conseguenza ogni Stato incarna, o dovrebbe incarnare, una precisa cifra etnico-culturale che possa esprimersi così, anche, in una pienezza politica. I due termini sono perfettamente aderenti e interscambiabili, e oggi anzi è deprecabile che non lo siano (ma ciò rientra in una più ampia avversione al concetto di Impero, a cui in genere si attribuisce senza distinzioni il termine imperialismo, che tra le altre cose è il contrario di ciò che lo status quo vorrebbe incarnare).
Ciò che si sovrappone, e si lega, è così il Politico ad un fattore umano che si crede dato in Natura, dunque immutabile e in una certa misura sacro, o portatore di una qualche moralità intrinseca. I due termini si legano e si limitano in quanto i caratteri naturali appartengono già ad ogni popolo autodeterminato. Perciò lo Stato non è espressione di una potenza politica, quindi ordinatrice anche al di là di sé stesso, ma dell’eticità che viene dalla Natura che è dunque data, incarnata e contenuta nei confini statali. In un certo senso è il negativo del nazionalismo esasperato del nazismo.
In quest’o senso’ottica si può spiegare la connessione stretta che sussiste tra status quo internazionale e il carattere nazionale degli Stati, come ha ben notato Massimiliano Vino riguardo alla relazione tra le destre conservatrici europee con il sistema internazionale, per cui sia in Ucraina sia in Palestina (che è in un qualche modo l'anomalia all'interno dell'internazionale conservatrice)
la posizione politica risponde sempre ad una comune istanza “conservativa”.
Suddetta istanza non è però naturale, o meglio non corrisponde a criteri naturali oggettivi, anche solo per il fatto che lo status quo nasce da qualche parte e da qualche idea, e dunque con specifiche funzioni e interessi. Ciò è ancora più palese se si guarda proprio alla questione israeliano-palestinese, dove è di fatto la logica binomiale Stato-Nazione che provoca gli spostamenti forzati di popolazione, ricalcando in questo senso le guerre nazionali del secolo scorso.
Guerre che solitamente avevano come epilogo scambi di popolazione (come tra Grecia e Turchia nel 1922) o vere e proprie deportazioni (nel caso delle popolazioni tedesche dell’Est Europa alla fine della Secondo Guerra Mondiale).
Da ciò si comprende come “la Nazione” sia un termine prettamente politico, dunque polemico, non naturale, se non fosse che esso è posteriore alla creazione dello Stato modernamente inteso (di fatto nasce nella Francia rivoluzionaria, dall’abate Sieyes nel suo famoso pamphlet “Che cos’è il Terzo Stato?”). L’identità nazionale e la sua costruzione è posteriore allo Stato, e ad esso è ovviamente funzionale sia a livello interno (anche solo per una questione di mobilitazione e partecipazione popolare alla guerra rivoluzionaria) sia a quello esterno, ovvero contro gli Stati monarchici e assolutisti, contro i principi dinastici e gli Imperi (successivamente il romanticismo, e il nazionalismo, tedesco nascerà proprio contro il nazionalismo francese, oltreche napoleonico). In ultima istanza contro lo status quo del tempo, che all’epoca era quello ancora in vigore dalla pace di Utrecht del 1713.
Per lo stesso motivo che ogni ordine politico ha un’origine (che nella storia dell’umanità non può che corrispondere ad una decisione violenta), per lo stesso motivo che esso nasce, figlio del proprio tempo, appare quanto mai anacronistica (e nichilista) la disperata cristallizzazione del sistema internazionale attuale. Nella nostra continua esaltazione e assoluzionez dell’Occidente siamo in realtà puramente reazionari, destinati alla difesa perenne di un concetto, come quello di Nazione (che è interscambiabile, sempre e solo in Occidente, con quello democratico) che, nonostante abbia ancora una certa utilità politica, ha perso da almeno 70 anni ogni potenza ideale e concreta, almeno in Occidente.
Ha perso ogni capacità di fare ordine, e dunque di pensare alla pace e alla guerra. E ciò anche per la semplice constatazione che la Nazione, essendo una sostanza umana, dunque vitale, non può mai essere costretta a lungo (senza conseguenze gravi perlomeno) in confini siano essi “naturali” o stabiliti a tavolino. E dall’altra parte lo stesso discorso vale per il Politico, dunque per lo Stato. Il loro reciproco contenimento va a favore, almeno nello scenario europeo, solo di un contenimento più ampio, appunto internazionale.
Una politica che voglia essere adealista (ma anche accelereazionaria), non può infine che favorire il crollo del binomio statale-nazionale a favore del secondo. Ovvero aprire lo status quo interno alla crisi, usare il termine Nazione per quello che in verità è: un’arma politica. E dunque usarlo a latitudini molto più basse di quelle statali per creare, proprio all’interno dello Stato, una nuova dialettica che infine lo superi. Significa portare fino in fondo la fine dello Stato, assecondando i movimenti del diritto internazionale e della globalizzazione ma senza lasciarsi trascinare da essi, per poi infine imbrigliarli un istante prima della Fine.
Cos’è l’Italia? L’interesse nazionale? La Repubblica? La Costituzione? Materia per chi si è arreso a difendere qualcosa che non può più essere difeso, perchè figlio di un altro tempo e di un altra storia.
Morte di chi è nato sotto altre stelle, e in un altro mondo.
Vita per chi attende solo il bagliore della propria Apocalisse.