Non è ammissibile discutere di carcere ostativo e 41bis.
Se hai sbagliato devi essere punito, non importa cosa tu abbia fatto ma se qualcuno ha sofferto per le tue malfatte vai punito il più intensamente ed estensivamente possibile.

Chi rimane stupito da questo clima così ostile all’eversione, che pure è anche cosa eroica e invidiabile – chi non ha mai sognato di depredare il piatto delle caramelle della nonna come un vero bandito o di affrontare i vortici dell’acqua risucchiata dallo scarico della vasca come un crudele pirata armato di paperella
– dovrebbe però guardarsi attorno.
C’è un filo rosso che parte dal divieto di un’amaca, passa per la notizia a reti unificate di un soldato ferito in guerra (o più elegantemente in missione di pace), si inerpica per i fumi del ghetto aeroportuale nel quale sono confinati i fumatori, sormonta le fastidiose transenne delle feste di paese sorvegliate da dipendenti comunali armati di panza e pistola (alias vigili urbani), si avviluppa sui macigni emozionali di ragazzine borghesi nate in seno alla società dell’abbondanza, si annoda al 41 bis per un ginocchio fratturato e una bomba esplosa senza che venisse torto un capello ad un singola persona.
In automobile in giardino in casa sul balcone
, non sono necessarie virgole (i grammarnazi si muovono ancora nell’ombra), il sorriso di chi sfreccia verso il boom economico senza impensierirsi sulle proprietà cancerogene del vino.
È l’allegra pubblicità anni ‘70 dell’amaca Chicco, un manifesto colorato ritraente l’allegra e gloriosa famiglia tradizionale, l’uomo rigorosamente alla guida e la madre con lo sguardo premuroso rivolto al pargolo che dondola sull’amaca appesa sopra i sedili posteriori.
Impossibile non sognare, l’amaca è lì pronta a trasformare l’energia potenziale in cinetica alla prima frenata mal modulata, tendersi, mostrare l’elasticità del magnifico tessuto made in italy e fiondare il marmocchio lungo la nuova e lucente Autostrada del Sole.
Un’immagine idilliaca che decenni di aggressiva propaganda securitaria hanno reso insopportabilmente esecrabile. Eppure proprio il rigetto della sprezzante sfida al caso di vedere trasformare il proprio pargolo in proiettile, l’amaca in toppa e l’auto nell’iconico ramo ad Y è l’origine di un processo che ha trasformato l’inquietudine della morte nel ribrezzo della vita. È l’elogio della sopravvivenza l’origine del decadimento della nostra civiltà. Divenuta così impaurita, così vile, così dedicata ad eliminare gli ultimi racimoli di slanci vitali sopravvissuti alla fine del secolo breve.
La società del XXI secolo ha già sentenziato sul proprio destino: vietare l’amaca, obbligare il seggiolino.
Al contrario, occorre resistere per amore della pedagogica disciplina.
Spettacolo inimmaginabile quando il colore in TV non esisteva ed eleganti invettive venivano alternate a fumose aspirate di invitati disciplinati. Disciplina che nasce dallo spegnere una cicca, premendo con forza, accartocciandola per schernire la vecchia con la falce in spalla, quasi a dire che non si teme affatto la sua mietitura. Non una semplice coincidenza quella per cui le alte discussioni, la contrapposizione delle diverse idee di mondo, la difesa degli interessi di classe, fossero alternate da un gesto così sprezzante per la vita individuale, in definitiva così pedagogico. La cicca accartocciata mostrava al vasto pubblico un’imprescindibile gerarchia, unica certezza in un mondo segnato dai mutevoli eventi, la supremazia del collettivo sull’individuale, il rispetto ossequioso dovuto alle idee e ai principi, quindi alla vita, e il giocoso e superficiale approccio alla salute, quindi alla sopravvivenza.
Un processo lungo e inesorabile ha invertito questa gerarchia.
È questo capovolgimento a costituire la vera frattura tra il XX e il XXI secolo.
La sfera individuale, intima, prevale e plasma il collettivo e la sua rappresentazione, il visibile.
Nulla deve danneggiare la sensibilità individuale, tutto va riscritto sulla base dell’ultimo pianto, l’empatia diventa l’unica lente possibile per analizzare qualsiasi evento. Non esiste un limite, ogni giorno nuove lacrime sgorgano da nuove soggettività, generate nella notte e pronte a sparire all’alba, pretenziose di imporre nuove sensibilità interpretative. La riscrittura si estende ad ogni cosa, assume tratti grotteschi, fagocita ogni movimento irrequieto. Per non ferire i sentimenti occorre restare immobili, se proprio necessario muoversi rigorosamente appoggiati al muro, ogni movimento scomposto non sarà perdonato dal tribunale della sensibilità individuale.
Come un morbo l’ipersensibilità contagia lasciando pochi sopravvissuti tra i Millennials e ancora meno nella Gen Z – i boomer ce li siamo già giocati con il pietoso epilogo del ’68-.
Così il quadretto di Che Guevara, che tanto ha fatto soffrire freddando gli avversari e sfidando in modo così scomposto il potere costituito, fino a qualche anno fa immancabile nella stanza di ogni novello aspirante ribelle, viene sostituito da un ben più sobrio Mattarella, dai toni pacificatori e pacifici.



Del resto è più instagrammabile un eh Giovanni neanche io vado dal parrucchiere
che un rapido proiettile, anche solo per una questione di fisica.
La sfida, il conflitto, l’avversione passionale per l’avversario richiedono slanci vitali.
L’ardore del desiderio di morire battagliando richiede violenza in definitiva, ma la violenza è portatrice di sofferenza.
E come può una società che piange un militare ferito in guerra (ops missione di pace) come piangerebbe un pargolo sfrecciare come proiettile sull’Autostrada del Sole provare attrazione per le grandi idee che generano conflitto, quindi violenza, dunque sofferenza. Come può una generazione di giovani mattarelliani incapace di accettare la funzione sociale della carne da cannone tollerare che un uomo, in nome del dominio collettivo sull’individuale (è irrilevante cosa esso comporti), attenti alla sopravvivenza di un soggetto colpevole di aderire acriticamente alle regole del potere costituito e di godere dei privilegi che tale potere dona ai pochi eletti dalle buone maniere.
La natura del potere non più percepita come perfida espressione di interessi di parte, non più espressione sociale delle contingenze, ma istituzione naturale, necessaria, immutabile, affievolisce il desiderio di contrasto. Il decesso dei corpi intermedi disabitua a sognare l’avventura dello stravolgimento dello stato di cose presenti. L’imporsi dell’individualismo neoliberale spegne i desideri, eccetto uno: diventare membro della neo-aristocrazia dei quadri aziendali. Ruolo che non indica più privilegio, ma equa ricompensa degli sforzi individuali.
Si diradano le differenze di culture tra le classi e, divenute futili, le grandi narrazioni vengono rimpiazzate dal nuovo galateo dell’ipersensibilità.
Individui narcisisti, quando non impegnati nella preparazione della giornata della legalità, come neo-aristocratici clementi e premurosi girovagano in cerca di anime da salvare, a cui spiegare che non serve scomporsi, l’impegno verrà ricompensato.
Sbaglia chi ricerca la colpa di Cospito nel sangue, nel ginocchio fratturato, nel fastidioso fragore delle bombe artigianali. La colpa di Cospito non può che essere espiata dal 41bis.
Da terrorista in nome della vita ha attentato alla sopravvivenza.
Non per il dolore fisico, ma per l’insopportabile dolore psicologico, per avere usato la rivoltella per disintegrare il tratto distintivo del XXI secolo, per avere tentato di affermare la superiorità delle idee sulla sopravvivenza individuale, Cospito merita di marcire nelle patrie galere.
Non si può perdonare chi ostinatamente e ostentatamente afferma che la vita trova completezza solo nel collettivo, nelle idee, negli slanci vitali, nella paura insieme al desiderio di morire battagliando, e che gli individui isolati non sono compiutamente esseri umani, ma simboli e i simboli sono accartocciabili come cicche.
Cospito ha messo in discussione le buone maniere, ha agito come se le amache-fionde non fossero mai state abolite e non si fosse inaugurato il secolo del seggiolino.
