Dialetto: Lingua d'Italia

Dialetto: Lingua d'Italia
Lettura boomer
Il dialetto viene spesso dimenticato, ormai si dice sia morto. In questo articolo vi esortiamo a parlarlo e resuscitarlo!

Arrivare a Milano e morire un poco.

Lo sappiamo tutti, o almeno tutti noi che a Milano siamo vincolati per studio o lavoro. Nella grande metropoli ti ci lanci, la abbracci, la attraversi. Il trapasso fa male. Le lingue taglienti che la abitano non sono fatte per modulare il suono in parole accoglienti. La metropoli è un ente dato, prendere o lasciare. Una piatta, sciapa, lingua commerciale, imbastardita del peggior gergo inglese e giovanile, schiocca nelle orecchie di ogni fuorisede o provinciale che vi approda, contribuendo allo spaesamento e al frastuono cittadino.

Chi vi dice che Firenze è la patria della lingua non è mai stato a Milano.

Qui si parla l’italiano del futuro, di internet, dei dané (o meglio, del fatturato). Un idioma senza più identità, una lingua puttana che si vende al miglior compratore e che ha rinunciato al Bello per l’utile, oramai sterilizzata dal retroterra culturale annichilito della quale dovrebbe essere la voce.

Milano, avanguardia e vetrina d’Italia, corre verso la sua fine.

I milanesi sono morti e il Milanese li segue nella tomba. La Nazione seguirà, come ha sempre fatto. Penetrata dall’Anglosfera, anche oralmente.

Restare a Milano è morire un poco.

Se l’impatto fa male: la permanenza logora, consuma.

Nella mia provincia lombarda, casa, assistevo al lento decadere del Paese, aggrappato all’illusoria speranza che fosse un cascare eterno, immutabile e inesauribile.

Ci saranno sempre quattro vecchietti seduti a un tavolino di plastica in un qualsiasi angolo della pianura, sotto la calura estiva, a tirar madonne in dialetto per scusarsene la domenica a messa; sempre le sciure a contrattare in un codice indecifrabile con l’ambulante il prezzo d’un maglione al mercato. 

A Milano ho visto il Progresso spacciato nei negozi del centro bruciare le periferie. Vedo il processo al suo compimento. Per lo Sviluppo i miei nonni si sono venduti all’italiano, ora i miei fratelli si svendono all’inglese per le briciole che lascia un sistema che non controlliamo.

Lingua inclusiva e genderless, facile, semplice. Ce l’hanno tutti in bocca. Prima viaggiava sul mare, su navi mercantili o cannoniere, oggi ci raggiunge attraverso l’etere, via satellite o a bordo di un bombardiere NATO. Senza non si va da nessuna parte. Ma qui ho tutto: una famiglia, una ragazza che mi ama, gli amici di una vita e un campanile da onorare.

Un patriarca che si presenta all’uscio di casa brandendo una scure; un genitore che insegna ai propri figli la lingua dei nonni, la più inattuale e meno spendibile fra tutte e per questo la più sacra. È ugualmente legittima difesa.

La classe dirigente ha stigmatizzato per un secolo e mezzo il parlare del popolo con una miopia che neanche sotto la dominazione austriaca era così evidente.

Lo Stato italiano nel suo processo di formazione ha assunto su di sé il compito di imporre e standardizzare un linguaggio comune, che fosse in grado di forgiare una salda identità nazionale.

Sessant’anni di scuola regia e fascismo, tuttavia, come ricorda anche Pasolini nella sua riflessione, non han potuto quel che ha fatto il consumismo nell’età del boom. È bastata la televisione, la massiccia emigrazione dal Sud del Paese verso il Nord e la pubblicità per educare le masse.

Non alla Nazione, come era nei piani di Savoia e camicie nere, ma al mercato (e al super-mercato)

Inutile lamentarsi allora dell’espansionismo anglofono. Ubi maior, minor cessat. Una lingua commercialmente e tecnicamente meno utile cede il passo senza troppo combattere a quella più funzionale per semplice legge di natura. D’altronde siamo usciti dalla Storia e ci siamo consegnati all’economicismo. Finché la lingua sarà usata e percepita come solo mezzo di scambio e non veicolo di identità le sue sorti son segnate.

Spegnete Benigni che ci spiega che la nostra è la lingua più bella del mondo.

Retorica da quattro soldi e nata vecchia. Serve ricostruire dalle fondamenta, dalle radici. E questa volta senza saltare passaggi obbligati come quelli delle piccole comunità, perché è questo l’ambito in cui ognuno di noi agisce ogni giorno. Si rimetta al centro il piccolo, il villaggio e la provincia. Se ne tutelino le specificità. Sono un baluardo eroico contro l’incedere dell’omologazione culturale.

Una lingua per definizione deve essere esclusiva, capita solo da chi la conosce, un codice di comunicazione che è in grado di veicolare la forma mentis et animi di un popolo. Ha carattere e sapore propri, un fazzoletto grande o meno dove abita e usanze di cui è portatrice. Parlarla significa garantire alla sua specifica comunità di riferimento qualche anno in più di vita.

Dialetto
Mappa dei dialetti in Italia

Qui sta il punto.

Collettività umane che lottano per la loro sopravvivenza più o meno coscientemente, perché anche i modi e i saperi più tradizionali e antichi possano respirare ancora per un po’. La loro morte equivale alla cancellazione di un peculiare modo di intendere il mondo e di catalogarlo, di descriverlo e di spiegarne i movimenti.

Al veder finire una comunità bisognerebbe provare più dolore di quando si vede morire l’ultima femmina fertile in natura di una semisconosciuta specie di rinoceronte africano. Se, infatti, questi continueranno almeno biologicamente a vivere in una qualche riserva o in uno zoo, con la speranza di essere reintrodotti in natura, gli umani logicamente non possono essere oggetto della stessa operazione, con l’inevitabile conseguenza di garantire l’estinzione di certe forme di aggregazione.

La comunità è necessaria all’uomo e i bisogni che questa soddisfa non saranno mai soddisfatti dalla società del tardocapitalismo.

Pertanto ben venga che questa sia difesa, recintata e talvolta separata dalle altre. La comunità, a differenza della community, ha un luogo e un tempo ben determinati. In queste dimensioni, le più umane, si consuma la sua battaglia per la vita. E se in Italia la comunità parla dialetto, questo va difeso e vissuto, più che tutelato in senso stretto. Le garanzie dall’alto servono, ma è nel quotidiano che il dialetto vive, assieme alla sua gente.

Questa, che potrebbe sembrare una guerra contro i mulini, in realtà è una crociata, non solo simbolica. La questione dialettale e locale è la punta di un iceberg notevole e molto spesso ignorato, soprattutto nel nostro Paese, che deve costitutivamente negare le sue anomalie, che potrebbe esplodere col soffiare dei giusti venti (come già è successo in altre parti d’Europa, come Irlanda e Catalogna) e sulla quale pertanto è bene interrogarsi.

Il dialetto o, meglio, la nostra lingua storica, è la lingua della nostra anima.

Ce lo spiegò Ferretti, che con il ligure-emiliano dell’Appennino parlava con la nonna. È la lingua di chi ha costruito le nostre case, le nostre città, di chi ha affrescato le nostre chiese e ci ha reso grandi.

Risuona da un passato lontano negli stornelli popolari e nelle osterie, ci protegge dalle incertezze di un mondo che suona straniero. Un ponte tra generazioni e una finestra sul tempo.

La vera lingua d’Italia.

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