Buonasera Federico Blumer, è un piacere poterti parlare. Forse però non tutti ti conoscono…
Sono Federico Blumer, ho 36 anni, vivo a Venezia dal 2005 (con una pausa di 5 anni nel mezzo), sono laureato in Beni Culturali (indirizzo archeologico). Ho lavorato al teatro La Fenice in città e per Sky, a Milano, nella produzione di una trasmissione televisiva di musica classica.
Fare il dipendente mi ha stufato e ho quindi deciso nel 2016 di aprire un canale, per conto mio, all’inizio orientato sulle mostre nella città meneghina. Ho visto presto però che i miei contenuti iniziavano a risultare pesanti, densi, e che l’argomento Venezia era quello che tirava di più.
Allora mi sono interessato proprio della Serenissima.
Dal 2018, in 5 anni, ho fatto un racconto che cercasse di valorizzare il più possibile la città, che è un unicum insediativo e culturale in tutto il mondo. Da sempre il focus è stato la divulgazione storica, ma fin da subito ho avuto a cuore anche tematiche più sociali. L’intenzione era di spiegare, sottotraccia rispetto alle curiosità storiche di cui parlavo, l’esempio di un modello particolare di vita comune. Negli ultimi anni cozzo però, sempre più violentemente, con la realtà del presente: la Repubblica di San Marco, coi suoi fasti, è morta più di duecento anni fa e il presente è decisamente deludente…
Venezia è un panda: tutti lo vogliono vedere, vogliono toccarlo, salvarlo, ma se il panda morde poi va denunciato… ed è quello che mi è accaduto qualche settimana fa.
Abbiamo visto infatti che hai ricevuto una denuncia dalla Digos… Hai combinato proprio un bel casino… I NOSTRI VIVISSIMI COMPLIMENTI. Raccontaci un po’ che diavolo hai fatto per meritarla! È un interesse politico personale a muovere le tue azioni?
È stato tutto abbastanza semplice. Vedevo questi attivisti di Ultima Generazione che pur di rompere un muro di silenzio osavano mettere le mani sul patrimonio culturale. Ho superato il fastidio iniziale che mi creavano solo dopo averli visti colpire anche in Italia: hanno fatto sorgere in me una domanda…
Perché hanno scelto la Barcaccia, a Roma, e non Venezia per una loro azione dimostrativa?”
Mi sono detto:
Possibile che questa città non valga niente, nemmeno per un atto di questo tipo, per creare discussione sul presente?
Ho registrato un video in piazza San Marco, rivolgendomi ai ragazzi di Ultima Generazione: Venite a imbrattare la Basilica di San Marco e il palazzo Ducale, così siamo obbligati a discutere dei problemi della città, perché nessuno ne parla!
Questa cosa mi ha procurato una denuncia per istigazione a delinquere (perché imbrattare monumenti storici è delinquere, da un punto di vista penale)
Non potevo immaginarlo… Nella mia testa era solo una provocazione per poter squarciare un velo di silenzio. Purtroppo mi si è ritorto tutto contro.
Mi è sembrata quasi una avvertenza arrivata dalle istituzioni: Federico, in città hai una voce molto grossa, capisci come vuoi usarla.
In questo senso, sì, c’è un interesse politico: dall’inizio il racconto che faccio di questa città è sempre stato politico. Nella mia visione di città c’è sempre una visione di comunità, capace di vivere insieme.
È sorta in me l’esigenza di capire come parlare del presente. Fino a quando si parla genericamente di storia e di curiosità non ci si schiera, ma appena dal presente si entra nella storia e si cerca di dare interpretazioni è inevitabile… Siccome io non mi ritrovo in nessuna delle componenti politiche che rappresentano la città o che la governano, mi piacerebbe fare qualcosa di diverso:
dire un giorno una cosa di destra e un giorno una cosa di sinistra. È il ragionamento sulla città il vero punto, non la parte di politica spiccia, che le nuove generazioni sentono sempre di più una cosa fuori tempo: mi sembrano più concentrate sugli argomenti che sulle ideologie che li muovono.
Certo, dare voce a una città muta mi è costata caro: difendersi legalmente è una cosa da ricchi. Una difesa legale minima costa 3500 euro. Un pugno in bocca. Fedez può permettersi di fare quel che vuole perché è pieno di denaro. Io no.
Però la gente per strada mi ferma e mi racconta il proprio punto di vista sulla città. Si sta muovendo qualcosa. Mi dicono: noi siamo con te, è assurdo quello che stanno facendo.
Anche al di là della semplice candidatura è evidente si ponga un problema di rappresentazione politica. Siamo dei cittadini passivi, incompiuti, dei consumatori: su questo si deve porre l’accento.
Non siamo abituati ad esercitare attivamente un ruolo, anche ponendo domande critiche alla gestione che la politica fa. Si dà per scontato che quest’ultima sia tutta negativa, che occuparsene voglia dire inevitabilmente sporcarsi le mani e ci disinteressiamo della Cosa Pubblica.
Venezia in tal senso è esemplare. Qua tutti si lamentano per strada, ma appena qualcuno alza la voce:
Eh, allora candidati!
Non può esistere una mediana tra essere un cittadino muto ed essere il sindaco della città? Forse, appunto, questa mediana è essere cittadini attivi. E allora, come essere cittadino attivo (magari senza farmi impallinare legalmente) e allo stesso tempo senza dare l’impressione che io mi stia candidando (perché non è quello che sto facendo)? Adesso vorrei cominciare a riempire determinati momenti e spazi della città, chiamando a raccolta le persone, con incontri fisici in città. Solo avendoli davanti posso capire chi è davvero con me. Perché mettere i like su Facebook, Instagram, Tik Tok è un gesto che puoi fare seduto dal cesso, invece decidere di uscire, esporsi e farsi vedere è un’altra cosa.
Rimanendo sulla questione politica: hai lanciato una provocazione abbastanza forte il 25 aprile, dicendo che era superato. Cosa intendevi con questo?
Ho una fortuna a Venezia e ho una fortuna in Italia: non sono Veneziano, ma sono di Varese; mio padre, che è stato sempre l’elemento più di pensiero della famiglia, è svizzero. Quindi ho un punto di vista un po’ più esterno, forse più obiettivo, non solo su Venezia, ma sul Paese. In famiglia abbiamo sempre avuto una distanza da tutti i miti nazionali, da tutta la storia nazionale: non abbiamo avuto storie di Resistenza o di Fascismo. Mio nonno sosteneva che Bella Ciao ci fosse una frase su uccidere i padroni. E lui era, tecnicamente, un padrone.
I racconti di famiglia sono sempre stati abbastanza critici nei confronti della Resistenza.
Mi rendo conto, quindi, esista un distacco all’origine. Ciò presupposto, ritengo ci si azzuffi su una cosa che, di fatto, è un mito di fondazione dello Stato, ma che viene usata come una lente per leggere il mondo, con delle categorie che sono superate nella forma in cui vengono impiegate.
Se si continua a pensare con la categoria partigiani e fascisti non si va mai oltre il fatto che il problema ora non sia partigiani o fascisti, ma: cos’è per noi la libertà, ora? Ci si scatena sull’argomento, ma, due giorni dopo, le stesse persone che si schierano per la libertà
sotto un video in cui affermo provocatoriamente imbrattate la Basilica
mi dicono Sei un coglione, tornatene a casa...
Una domanda un po’ più personale. Il Blast si è occupato spesso del rapporto tra provincia e città. Dato che, come hai detto, vieni dalla provincia, qual è il tuo rapporto con Varese, con la tua città natale, visto che parli solo di Venezia. Ce l’hai un po’ nel cuore o l’hai dimenticata completamente?
Premetto che neanche mia madre sia di Varese, ma che entrambi i miei si siano solo trasferiti lì e che quindi non abbiamo un radicamento come una famiglia che è lì da generazioni. Ho abitato però appena fuori città, in un paesino che è costruito su chiesa, oratorio, campo da calcio, da basket, cooperativa, circolo alimentare, bocciofila… Quella dimensione di paese, che è la radice più vera della provincia, l’ho trovata a Venezia.
Una vita più umana, di contatto fisico per strada, con persone che ricorrono nel tuo incontro quotidiano. Il fatto che ci sia qualcuno che frequenta sempre gli stessi spazi crea una vicinanza umana che sento anche a Venezia.
Sotto casa ho un Bar di cinesi: con un vecchio un po’ matto (che sta al piano di sopra) e due pescatori a tempo libero (con cui sono andato a seppie) che hanno 60 anni. Ci si trova lì sotto tutti e quattro, a bere dal cinese (italianizzato Giorgio) e a chiacchierare come in una cooperativa di villaggio.
Forse si può dire che Venezia supera la dinamica città-campagna: qui si ha la fortuna di avere questa dimensione paesana, ma allo stesso tempo di vederci passare il mondo. La grande occasione di Venezia è proprio di portare il modello sociale e civile del Borgo italiano su una scala di incontro internazionale.
La mia relazione con Varese è, in un certo senso, fondativa: mi ha dato gli schemi mentali necessari per farmi un’idea di come si viva la vita. Ho passato a Londra quattro mesi: mi drenava la vita come città.
Muoversi in mezzo a milioni di sconosciuti in metropolitana, come dei topi dentro una galleria… non fa per me.
Qui a Venezia, ad esempio, quando si litiga con una persona sei costretto a rivederla tutti i giorni la mattina per andare al lavoro. Alla ventesima volta, o dopo due mesi, comincia a salutarti. È inevitabile. Le distanze (anche sociali) si abbattono. L’altro giorno dopo che ho preso questa denuncia, un assessore ha fatto una dichiarazione a un telegiornale dicendo che io ero un personaggio da incarcerare e prendere calci in culo
.
Sono passato recentemente da piazzale Roma e l’ho beccato. Ho acceso il cellulare, telecamera in rec, sono andato da lui e ho detto: Assessore, Buongiorno. Allora cosa mi voleva dire?
Ma questo modello veneziano, di cui hai evidenziato così fortemente le peculiarità, come può essere lo specchio dell’intero Paese?
Venezia per certi aspetti può essere rappresentativa dell’intera Penisola e per altri non lo è sicuramente… però si possono capire una serie di meccaniche nazionali che a Venezia impattano sotto gli occhi di tutti, anche perché la città è molto piccola. Non è come Milano e Roma, nelle quali gli spazi e l’abitativo sono talmente vasti da far perdere traccia dell’agire pubblico. È piuttosto un piccolo laboratorio: si vede plasticamente il distacco tra il centro e la periferia, dello spopolamento del centro storico stesso, del lavoro precario. Qui infatti, pur esistendo decine di ristoranti e attività turistiche, le imprese del settore non riescono ad attirare personale: sono molti i ragazzi che preferiscono andare a vivere al di fuori della città proprio per le esigue paghe. Una serie di motivazioni legate al lavoro nero e allo sfruttamento della manodopera abbassano infatti moltissimo gli stipendi, rendendo cara la vita e difficile stare vicino al proprio luogo di lavoro anche per i giovani veneziani. È un problema che riguarda l’intero Paese.
La città metropolitana di Venezia, inoltre, al suo interno ha una varietà di territori e infrastrutture economiche ampissima. Porto, aeroporto, autostrade, stazioni ferroviarie… L’aeroporto di Venezia è il secondo o il terzo per volume di voli nel Paese. Il porto di Venezia adesso è un po’ decaduto, però è stata la forza della città: l’Adriatico è il modo per arrivare in nave più in centro possibile nel Nord Europa da Sud.
Da un punto di vista geopolitico Venezia è in una posizione incredibile (come l’Italia). In più è una città storica, invidiata al mondo, ma ha anche una periferia sulla Terraferma, Mestre, il cui brutalismo anni 60/70 cozza con una violenza tale con l’isola da condensare in sé molti problemi della nazione in materia di urbanistica e architettura. E con essi le conseguenti divisioni culturali e sociali. È rarissimo che tu venga a Venezia se sei di Mestre…
Tornando al turismo: viene percepito da molti come un’opportunità di ricchezza. In realtà assomiglia più a una droga, che ti corrode dentro. La generazione della ricchezza in centri turistici come Venezia non è diffusa sul territorio che la produce, ma è raccolta in collettori, dei privati, che estraggono la ricchezza dalle disponibilità della popolazione, come, in scala minore, succede nel resto del Paese.
L’ho capito anche dai commenti: in molti mi scrivono anche a Bari/Lecce/Sardegna… è così
. Un mio sogno sarebbe quello di fare di Venezia un laboratorio nazionale per riflettere su queste problematiche.
Noi di Blast abbiamo parlato di turismificio, anche nel recente evento organizzato per il Natale di Roma. Sentiamo tutti parlare del fatto che l’Italia debba vivere solo di turismo… che dire a questi?
Non so se hai visto uno degli ultimi film della Marvel dedicati a Thor, Thor Ragnarok. Contiene un siparietto interessante: il sole del pianeta del supereroe esplode e gli abitanti non hanno più una casa. Si insediano sulla Terra, con la loro cultura, ma privati dei loro meccanismi economici. Arrivano su una costa e che fanno per vivere? Turismo. Il film continua con inquadrature di navi da crociera, spettacoli di racconto della storia di Asgard, il martello di Thor sotto una teca. Come gli Uffizi… Il messaggio è chiaro: si fa turismo quando non si ha un’economia alternativa. Questa è la verità del turismo: di fatto genera povertà, non ricchezza.
L’errore che spesso si fa, e che io stesso ho commesso tante volte, è di scagliarsi contro il turista. Ma il turista si infila solo in un vuoto di generazione di ricchezza… Lo vedo qua a Venezia: quando chiude un negozio diventa subito un locale destinato ai turisti. Viene facile, poi, dire: Ah sai, qui c’era una panetteria, un peccato abbia chiuso
… se il panettiere c’ha 80 anni e non passa a qualcuno il mestiere, non si trovano persone disposte a aggiornarlo nel tempo e a continuare o non ne vengono accolte altre in città, allora è normale che il sistema del lavoro imploda.
Venezia parla di tutta l’Italia: il problema del ricambio generazionale è nazionale.
Qui è solo più accentuato: l’isola di Venezia oggi fa circa 50mila abitanti, nel 90 circa erano più di 70mila. Negli ultimi anni sono andate via più di 20.000 persone, tantissime della fascia dei 20-40 anni… Il futuro.
Questa tendenza va invertita e bisogna partire dal basso, dove le grandi logiche trovano effettivamente applicazione: il cambiamento si raggiunge più facilmente partendo dal proprio territorio, invece di suonare solo alla porta del ministero, astraendo così le questione dalle realtà locali. Ultima generazione fa proprio questo: sta sul generale e va a colpire direttamente la testa del decisorio.
Entrare in dinamiche di discussione sul territorio stesso è un’altra strada, forse più efficace. Lavorare direttamente, fisicamente con le persone può generare poi in futuro delle espressioni politiche nuove, rappresentative, ad esempio, di quelli che oggi non votano e può portare un cambiamento reale.
Il futuro parte dalla nostra comunità.