Fiorella M'Annoia

Fiorella M'Annoia
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Fiorella Mannoia cambia il testo della sua canzone più famosa, Quello che le donne non dicono. Che cosa ci dice questa notizia apparentemente insignificante sulla società contemporanea? 

Fiorella Mannoia. Fiorella m’annoia. M’annoia Fiorella Mannoia. M’annoia, Fiorella, m’annoia. Soprattutto quando decide di fare queste cose da femminismo della quarta ondata, quella inutile. È accaduto che questa paladina dei diritti delle donne ha cambiato il finale di Quello che le donne non dicono. Da «ti diremo ancora un altro sì» a «ti diremo ancora un altro no», per dare un segnale dei tempi che cambiano.

In peggio. 

Sia chiaro che ho una grande stima di Fiorella Mannoia e massimo rispetto nei confronti dei familiari di Giulia Cecchettin. Pertanto, spero di esprimermi nella maniera più oggettiva possibile, senza lasciarmi trascinare dall’emozione del momento. Se scrivo questo articolo, è proprio perché vorrei che le vicende come questa, che è una storia normale, assolutamente normale, purtroppo normale, restassero semplici storie, e non venissero strumentalizzate per fare propaganda politica, arrivando finanche a modificare una pietra miliare della canzone italiana, scritta da quello sporco maschilista di Enrico Ruggeri.

In secondo luogo, io penso che le parole siano importanti. Ribaltare completamente il senso di una canzone, trasformando un sì in un no, è un perfetto specchio dei tempi. Tempi in cui, come scrive Bauman in Amore liquido, sembra che siamo più interessati a capire come uscire da un rapporto che non ci soddisfa piuttosto che come costruire una relazione. Come gli abitanti di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, in cui ogni mattina la popolazione «indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello di apparecchio». Ma ogni mattina «i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio», tanto che vien da chiedersi se la vera passione dei leoniani non sia piuttosto «l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità»

Non m’importa se queste cose si fanno per una buona ragione, o per una giusta causa. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Inoltre, non sono affatto convinto che questo omicidio – terribile – sia frutto del patriarcato, il grande calderone in cui per il neofemminismo sono condensati tutti i mali del mondo. Non si fraintendano le mie parole: il patriarcato esiste. Esiste ed è un prodotto storico come tutti gli altri, e in quanto tale dev’essere analizzato oggettivamente, nei suoi aspetti positivi (pochi) e negativi (tanti). Di più: è un prodotto naturale. Infatti, ragioni biologiche hanno fatto sì che la società si organizzasse in un certo modo, per esempio che l’uomo cacciasse e che la donna raccogliesse, che l’uomo svolgesse determinati lavori e la donna altri. Alla differenza biologica si è poi accompagnata una discriminazione sul piano sociale, e questo è innegabile. Nel mondo moderno, i lavori pesanti sono svolti dalle macchine e i presupposti biologici di questa discriminazione non hanno più senso, ammesso che un senso l’abbiano mai avuto. Il patriarcato non ha più senso d’esistere. Questo, ovviamente, non significa che esso sia scomparso ovunque. Anzi, è ancora ben presente, soprattutto nelle regioni più conservatrici.

Annoia

In una società patriarcale, quella del delitto d’onore, un uomo uccide per difendere il proprio onore, appunto. La propria reputazione, la propria rispettabilità borghese, quella che qui in Piemonte si chiamerebbe figura, quella dei Monsù Travèt. In una società patriarcale, l’omicidio è un atto pubblico, punito in quanto reato contro la morale, non contro la persona. 

Ora, senza lasciarci prendere dalle parole di una ventiquattrenne che, con la mancanza di strumenti culturali tipica della sua età ripete slogan che ha orecchiato su Instagram (e qui cito la sempre lucidisssima Guia Soncini), proviamo a valutare oggettivamente se è questo il caso

L’ha fatto molto bene Marcello Veneziani, ed è giunto alla conclusione che questo triste episodio di cronaca nera non è effetto di una cultura patriarcale – che pure è esistita ed esiste – bensì dell’individualismo sfrenato dei nostri tempi, quello che Bauman ha perfettamente descritto, quello del desiderio illimitato e del capriccio elevato a malessere psicologico. In questo, Ratzinger è stato un sociologo molto più brillante rispetto alle femministe che ripetono slogan e teorie del complotto, in particolare quando denunciò con grande lucidità il relativismo, male del nostro tempo, «una dittatura […] che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (18 aprile 2005). Un individualismo che si manifesta nell’alessitimia, l’incapacità di descrivere i propri sentimenti, e in quella quantità infinita di «come stai?» giornalieri che mi è capitato in prima persona di ricevere, fino a che la cosa non è diventata un po’ inquietante. Il malessere psicologico di Filippo Turetta è figlio della cultura del ghosting, del breadcrumbing, del love bombing, di quell’incapacità di porre fine a una relazione tossica in maniera matura che è tipica dei nostri tempi. Filippo Turetta è figlio di una società narcisista e infantile, che vive nell’ambiguità ed è incapace di risposte definitive. 

E voi mi direte, come Marco Ferradini: «no, caro amico, non sono d’accordo, parli da uomo ferito». Sì, lo ammetto. Penso che al giorno d’oggi sia più facile collezionare accuse di molestie che costruire una relazione. È una sensazione, non ho le prove. 

C’è un video di Vice in cui nove donne discutono di femminismo. A un certo punto, una di loro dice che ha sentito un ragazzo lamentarsi del fatto di sentirsi intimidito, di avere paura persino a sfiorare una donna. Secondo questa ragazza, è giusto che sia così. Ebbene, io, io che detesto da sempre il contatto fisico, ho paura. Paura di una pacca sulla spalla, di un messaggio di troppo, di un invito a prendere un caffè. Ho paura perché so quanto possa ferire una falsa accusa di molestie. Conosco la calunnia. So che, come diceva Céline, fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’. E vedo un mondo in cui la donna è diventata un essere intangibile, sfuggente, come ai tempi del Dolce stil novo. Vedo, ma non ho le prove. 

Ma so certamente che quella del patriarcato è strutturata come una vera e propria teoria del complotto, la più pericolosa delle teorie del complotto. E vorrei tanto vedere le prove che dimostrino la validità della piramide dell’odio, quella secondo la quale i femminicidi sono sostenuti da una base culturale maschilista e patriarcale fondata sulle battute da spogliatoio. Voglio le prove che dove si fanno tante battute da spogliatoio avvengono più femminicidi. O che le foto di genitali non richieste sono più gravi dello stalking. Voglio le prove. Altrimenti questa roba ha l’attendibilità scientifica del teorema di Giovanardi, quello per cui si parte dalle canne e si arriva all’eroina. Quindi, fino a prova contraria, non si parte dalle battute da spogliatoio per arrivare al genocidio. 

Anzi, tutti i dati dimostrano che l’Italia è uno dei Paesi in cui avvengono meno femminicidi, mentre i Paesi nordici, dove pure ci sarebbe una maggiore parità di genere, presentano tutti un tasso di femminicidi più alti. 

L’uomo è violento. È violento per natura, ed è più violento della donna. Non c’è bisogno di alcuna teoria del complotto per spiegare questo dato. 

Elena Cecchettin invita a bruciare tutto. E la capisco. So cosa si prova. Ma dopo avere distrutto tutto occorre ricostruire, e non lo si fa certo portando l’educazione affettiva nelle scuole, come vorrebbero gli ideologi della scuola democratica. 

Voglio citare un vecchio articolo di Galli della Loggia:

«la funzione socialmente democratica della scuola — che consiste per l’appunto nell’istruzione obbligatoria e di qualità e nell’individuazione dei capaci e meritevoli attraverso l’insegnamento dei contenuti delle diverse discipline — questa funzione socialmente democratica della scuola è stata progressivamente soppiantata da una funzione ideologicamente democratica. Da molti anni, pertanto, la scuola sembra esistere esclusivamente per essere non solo l’ambito delle più svariate iniziative ispirate al politicamente corretto (insegnamento della Costituzione, nave della legalità e quant’altro fino alla recente proposta dell’onorevole Zan di far celebrare annualmente in ogni istituto una sorta di gay pride in formato scolastico) ma il terreno di applicazione di una serie continua di prescrizioni innovative — didattiche, pedagogiche, psicologiche, tecnologiche — che proprio per questo loro carattere, per il loro modernismo esibito, per il loro essere contro il vecchio, contro “ciò che si è fatto finora”, sono presentate come un frutto felice del progresso dei tempi, positive, buone, magari prescritte dall'Europa, e dunque per ciò stesso inevitabilmente democratiche». 

In conclusione: una ragazza è morta per i problemi mentali dell’ex fidanzato. Capisco il dolore della sorella, ma non facciamo propaganda. Di fronte al dolore, non c’è liberale che tenga. In un giorno, siamo diventati tutti manettari. Una tal Valeria Fonte scrive che tutti gli uomini pensano come un femminicida. Tutto sommato, sono pronto ad ammetterlo. Almeno mi risparmio questa rottura di coglioni dell’educazione all’affettività & affini.

Ah, e non devo neanche chiedere scusa.

È la natura, bellezza. 

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