Una classe deprecabile, che non produce, ma grava soltanto sulle spalle dei suoi concittadini. Sul marcio della speculazione potremmo produrre articoli per un anno intero, sul sacrosanto diritto all’abitare pure, ma non è questo il caso.
Partiamo da un presupposto, che sarà evidente a chiunque abbia avuto un minimo di dimestichezza col mondo universitario. I fuorisede sono i normaloni per eccellenza. Ma nemmeno dei normaloni stile maggioranza silenziosa che almeno non li senti; no, proprio quei normaloni onnipresenti, che non puoi fare un passo nelle zone universitarie senza sentirli ascoltare l’ultima canzone dei Pinguini Tattici Nucleari (li hanno scoperti dopo la partecipazione a Sanremo), fare battute alla casa Surace sul pacco da giù e citare le opinioni di GioPizzi come fonte autorevole.
E fin qui mi direte
Ah ma quindi tutta sta cosa contro i fuorisede solo per fare un po’ di discriminazione territoriale?
Ma certo che no; o meglio, non solum sed etiam. Il disrispetto per i meridionali gioca senz’altro una parte fondamentale, ma in ballo c’è anche un tema politico, riguardante il futuro del nostro paese e della nostra stupida generazione di weak men che stanno per entrare negli hard times:
Una generazione, che per quanto si voglia illudere, non può essere bambina per sempre.
Il vero problema è che in Italia ci sono troppi universitari in assoluto. Troppi. Cerchiamo di correre appresso a questo meccanismo di inflazione dei titoli, delle certificazioni, delle competenze, barcamenandoci tra lauree che non bastano più, magistrali, master, stage, e a trent’anni siamo ancora in corso di formazione.
Per i migliori tra questi, tanto meglio per loro.
Ma tutti gli altri?
Tutto questo percorso accademico perché? Per guadagnare a trentacinque anni comunque meno di un operaio, con la dissonanza cognitiva di chi si sente ancora giovane in quanto da poco non più studente, ma che si deve sbrigare per figliare (cosa che alla fine non succederà, e se succederà sarà per una volta massimo, e chi ci pagherà le pensioni, eccetera eccetera)
Questo ritardo cronico (mentale e di percorso professionale) dei nostri giovani è aggravato in moltissimi fuorisede. Lo spirito con cui lo studente fuorisede medio affronta infatti la sua migrazione è simile a quello dello studente in Erasmus. Nel primo caso da Bari a Roma, nel secondo da Roma a Barcellona ma la mentalità provinciale mascherata da dinamismo è la medesima. Ci si sente il più sveglio, il più aperto mentalmente
del proprio gruppo sociale d’origine, il coraggioso pronto ad intraprendere l’avventura lontano da casa. Un’avventura tuttavia che sarà vista come una lunga vacanza, tra serate universitarie a base di spritzini democratici e salati conti da pagare spediti ai genitori.
È ovvio che lo sia. Perché mai ci si dovrebbe sobbarcare costi e nostalgia di casa per andare a studiare fuorisede lettere orientali alla Sapienza? A Catanzaro non era uguale? Certamente lo era, sono sicuro che anche al sud è pieno di professori più che validi.
E tra l’altro, anche il fatto che vivere da soli (da soli poi per modo di dire, la carta di credito di papà tiene una buona compagnia) a vent’anni sia una grande esperienza è segno dei mala tempora che currunt. I nostri padri a diciott’anni hanno fatto il militare; i nostri nonni, in campagna, imparavano a lavorare la terra e ad ammazzare i conigli sin dalla più tenera età.
All’età in cui noi oggi viviamo ancora nella bambagia come scolaretti in gita scolastica, loro iniziavano a lavorare e mettevano su famiglia. Non c’erano esperienze posticce da dover fare, era una normale tappa di vita. L’ossessione della nostra generazione per il vivere da soli e lontano da casa è quella di chi a diciott’anni non ha ancora imparato a vivere da solo; e ancora di più è il piccolo momento di gloria di chi, a vivere da solo per davvero, senza genitori alle spalle, rischia di non andarci mai, tra prezzi sempre più alti, stipendi sempre più bassi e lavori sempre più precari.
C’è poi anche un tema territoriale e demografico: il sud si sta spopolando. La questione meridionale non è mai finita. Al sud non c’è lavoro, è senza dubbio anche per questo che i giovani vanno a studiare fuori.
Pensiamo alle facoltà serie, che finora non sono state ancora toccate da questa analisi. Le facoltà STEM sono ormai collegate a decuplo filo ai grandi gruppi imprenditoriali del nostro paese. E questi non hanno certo base al sud. Gli studenti abbandonano le loro città, magari dotate anche di facoltà scientifiche valide, perché sanno che queste non potranno offrirgli contatti lavorativi validi. Con la deindustrializzazione si sta abbandonando il meridione ad un immenso villaggio vacanze. O si lavora nel turismo o nella ristorazione o si va al nord (c’è anche l’opzione criminalità organizzata che è sempre valida)
Ai meridionali non resta che andare in campeggio a Roma, a raccontarsi storielle da semicolti sul merito e il voto per i fuorisede intorno al fuoco per scaldarsi nelle gelide notti della città universitaria.
Ma a me non impietosiscono. Le mie tasse non andranno in contributi affitto per appartamenti ammuffiti a Piazza Bologna, né in progetti di housing studentesco (qualsiasi cosa voglia dire, l’ho solo sentito nei programmi elettorali delle associazioni universitarie); mi piacerebbe se finissero in investimenti per una politica di occupazione che renda il sud parte di questo paese, in cui le ciacione leccesi con le loro grandi ed innovative menti possano rimanere patrimonio di Lecce.
In altre parole: