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ATTO ZERO
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Lui è qui
«dietro la finzione, c’è lo sgomento dell’unica metamorfosi di cui la parola non trionfa: la morte» Giuseppe Conte, La metafora barocca
L’incongruenza festosa tra il metodo e la necessità, il crescere progressivo del ritardo dell’etica al progresso della tecnica, le città affollate, i lavandini omologati come i caschi dei motociclisti. Una Milano confusa si riflette nei vetri oscurati di una cattedrale in movimento, di un auto blu. Passa inosservata nel caos collaterale alla tecnica appuntita che si staglia nel tramonto affumicato della metropoli. È la tecnica del mulino che macina sè stesso, del mulino da combattere.
Da qualche parte un Massimo Cacciari curvo sulla sua scrivania in mogano, illuminata da una lampada dal vetro verde, da biblioteca, nella penombra, solleva lo sguardo verso il lettore e spalanca gli occhi. Lo sguardo placido, sullo sfondo gli schiamazzi dei maranza alle Colonne.
“Lui è qui, lo sento”
E l’auto blu si muove, balugina come una stella riflessa in un torrente nel buio, si fa spazio nel brodo della modernità come il profeta che divide le acque, affronta semafori come un globulo rosso affronta le valvole del cuore ad ogni sua pulsazione. E Lui da dentro la sua cattedrale in movimento osserva la stazione di Cadorna e quell’orrendo ago da cucire conficcato nel cemento sfilare al suo sguardo in movimento traverso li finestrini, traverso li suoi occhiali.
«vuoi un titolo al quadr(moscia)o o alla sua imitazione? Un consiglio lo accetti? E’ da gr(moscia)ande illusione»
riflette, alla vista dell’orrenda scultura, nelle sue sopracciglia bianche, come bruciate dal fuoco sacro del sapere, lo sguardo appuntito nel suo star seduto in giacca e cravatta nel retro della sua cattedrale, tenendo in mano un libro, l’edizione BUR della Tempesta di Shakespeare. Vorrebbe leggerlo ancora e ancora, ma non può perché è…
«meglio non legger(moscia)e in macchina, se no mi viene da vomitar(moscia)e... per(moscia)ò che palle! por(moscia)ca puttana!»
All’esatto concludersi del sussurro d’inter-capedine in vertice a Torre Allianz…
Calenda e Renzi dagli antipodi di un lunghissimo tavolo d’acciaio in forma ellittica sollevano d’un tratto il loro sguardo dalle rispettive sudate carte e si fissano con sgomento
Il labiale dei due si muove all’unisono.
I lavandini di tutta Milano iniziano a tremare senza un motivo apparente, nei bangladini di ogni circonvallazione i barattoli di cetrioli vibrano sempre più sino ad esplodere fragorosi nello spavento degli avventori, dei proprietari, e pure dei passanti, dei piloti di tram, di manovratori di monocicli, di passeggini lanciati come treni sull’infinito, di mamme impazzite, di siorine di un certo livello che se la camminano. I bambini nelle culle si mettono ad urlare impazziti.
La cattedrale è in Corso Magenta, si ferma al civico 61.
Scende dall’automobile.
È Tremonti, splendido nel biancore della sua chioma, a ricoprire l’arcipelago, la costellazione del pensiero suo. Varcando la soglia del Palazzo, accompagnato nella sala dove terrà una conferenza. Ma questo non ci interessa. Lui non è lì per quello. La faccenda è tutt’altra. È roba seria e il Palazzo delle Comete è sorvegliato dai mille occhi della Dea, ma lo scambio va concluso. Sotto gli occhi di tutti.
Tremonti inizia a parlare dal palco, dando sfoggio del suo lessico di raffinatezza bizantina, catalana, fiamminga. Le senesche madame in prima fila sembrano un branco di ragazzine impazzite ad un concerto dei Beatles. Lo vogliono, sbavano, percuotono i mariti anziani con le loro borsette di piombo maledicendoli per non essere come Lui, che nel contempo incalza sempre più la chimera dai molteplici volti del pubblico con il frutto del suo sapere, che egli porge come un ramo che non ne sugge il sapore afrodisiaco. Nel vertice della tensione, nel suo discorso Tremonti tocca la corda dell’anima di una madama in pelliccia viola fluorescente pronunciando il verso shakespeariano proibito.
«what is past is pr(moscia)ologue»
Il verso riecheggia antico nel salone, ma dopo che nel cuore della povera madama che in preda al furore dionisiaco dell’adorazione stramazza al suolo esanime. Una gran folla vi si raduna attorno. Un gran via vai di signori in giacca e cravatta, ottantenni con il cappello degli alpini, donne disperate, chi a recuperare un bicchier d’acqua per la moribonda, chi a chiamare i soccorsi.
E’ il momento giusto per agire. Tremonti si allontana e tocca un punto nella parete che solo lui conosce. Si apre una porta a sbalzo nel marmo bianco dell’esedra che lo porta direttamente nel corridoio dove mentre cammina discreto viene affiancato da un uomo in divisa grigia.
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…—…—…—..3-M-0-n-t-1 – – h-4 – – p-4-r-l-4-t-0 – – c-0-n – – Z-4-F(*2)-3-R-4-N-0 …—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…— …—…—…—…—…—…—…—…—…—…—…
I due camminano vicini per poco, poi si separano, probabilmente si dicono qualcosa. L’Onorevole entra in un bagno e vi si chiude.
Dopo un minuto e trentatre secondi esce.
Si muove a passo svelto, porta qualcosa sotto braccio, è uno scatolone della Panasonic. Il suo sguardo discreto lascia trapelare una certa inquietudine, seppur mascherata dalla geometria perfetta della sua espressione, mentre scende di corsa le scale, quando ad un tratto…