È un peccato aver scoperto Antonio Pennacchi solo qualche mese dopo la sua morte. Sicuramente è stata una mia mancanza, per carità, alla fine era anche abbastanza famoso, aveva un Premio Strega alle spalle e anche svariate ospitate televisive, ma tant’è.
Il fasciocomunista è un’autobiografia, ma anche un romanzo storico e di formazione. Di formazione perché vede come protagonista quel tipico personaggio in stile giovane Holden, un adolescente maschio impertinente, rompiscatole, litigioso, che si caccia sempre nei guai perché tiene troppo alle sue idee, i suoi valori, i suoi amori, e che anche quando riesce a starsene tranquillo finisce per essere messo in mezzo. Questi personaggi funzionano sempre per giovani che sono in quella fase di agitazione ed inquietudine della propria vita, così come per chi ne è uscito ma la ricorda con nostalgia.
La particolarità del racconto sta però nella sua ambientazione: la Latina degli anni 60, città in cui è nato e cresciuto il Pennacchi. Gli anni 60 sono un periodo emblematico della storia italiana, forse quello più rappresentativo della nostra prima repubblica: privo dei drammi degli anni ‘70, della miseria da dopoguerra dei ’50 e dello sbrilluccichio sporco degli anni ’80, anticamera del berlusconismo. Sono dunque stati raccontati in infiniti libri, film e scialbi sceneggiati di Rai 1, ma quasi sempre negli ambienti delle grandi città in quegli anni meta di immigrazione interna dal sud, nelle fabbriche di Torino e dell’hinterland milanese, o nei ministeri di Roma, luoghi che più di tanti altri hanno partecipato alla vera unità d’Italia; ma raramente è stata raccontata la provincia di quegli anni. In particolare Latina poi, che tra gioiello della politica urbanistica ed agricola del ventennio, e meta di pellegrinaggio nella romanticamente breve epopea dell’it-pop grazie al suo profeta Calcutta, ha trascorso svariati decenni da ipertrofico borgo contadino senza storia troppo vicino alla capitale per riuscire a sviluppare dei buoni servizi culturali e d’intrattenimento, ma non abbastanza per godere di riflesso del benessere della maestosa dirimpettaia. Davvero la provincia profonda.
Pennacchi ci dimostra però come anche lì non fosse difficile entrare in contatto con le principali culture del tempo: quella cattolica, che lo porterà addirittura ad entrare in seminario in tenera età, un’esperienza che spesso ricorrerà nel corso del racconto, specialmente nei momenti più decisivi; il recente passato fascista per nulla dimenticato nella comunità venetopontina in cui cresce; ed ovviamente i movimenti della sinistra antagonista che stavano iniziando a sorgere come funghi.
Il protagonista Accio Benassi, così come Pennacchi, li attraversa tutti con ardore e reale impegno, ma sempre con la mentalità critica dell’inquieto, che lo porta dapprima ad essere cacciato dalla sede dell’MSI di Latina per aver violato l’ambiguo dogma dell’atlantismo con una manifestazione non autorizzata contro le truppe americane a Gaeta, e infine a ritirarsi dall’impegno col gruppo maoista dell’Unione dei Comunisti Italiani (Marxisti-Leninisti) che lo aveva fatto girare per tutta Italia e tuttavia imbrigliato nella gabbia della militanza organizzata che considerava qualsiasi attività vi si muovesse al di fuori “controrivoluzionaria”.
Certe volte si è troppo rivoluzionari di carattere per sottostare all’ordine della rivoluzione politica, ai tradizionali schieramenti, alle innegabili verità, eppure quella assurda stagione che è stata il ’68 ha rischiato di cambiare le cose. Quando avviene la battaglia di Valle Giulia Accio è a Latina e, come spesso accade nel corso del racconto, arriverà troppo tardi per parteciparvi (già da sinistra). Forse non sarebbe finita così presto se i giovani di entrambi gli schieramenti non fossero stati così legati, almeno idealmente, a dei partiti immersi nel sistema di blocchi contrapposti dell’epoca.
A Valle Giulia si creò un fronte generazionale di quelli che pochi anni dopo sarebbero stati chiamati “opposti estremismi”. Se fosse durato, forse oggi non ricorderemo il ’68 solo come l’anno della “liberazione sessuale” o cagate simili, ma anche come uno sconvolgimento politico più significativo. Invece da una parte si preferì accogliere Almirante quando intervenne e si tornò ad essere per quelli dall’altro lato della barricata non più alleati ma “fasci di merda”. La voglia di rottura profonda che aleggiava nell’aria non si placò e i fratelli minori dei ragazzi di Valle Giulia, insieme a qualche irriducibile, si fece gli anni di piombo, eroici, alimentati dal rancore oltre che dalla volontà di utopia, in definitiva vani.
Era un errore che a quei tempi si poteva comprendere. Le divisioni della guerra civile erano ancora fresche nei racconti dei genitori; c’erano ancora URSS e USA che, per quanto si potessero criticare, erano ancora dei buchi neri che attiravano qualsiasi cosa in un deleterio manicheismo. Erano ancora vivissime le ideologie, per cui sinistra voleva dire correre incontro al sol dell’avvenire, destra la volontà di tornare indietro ad un recente passato.
Ma da quali lacci ideologici può essere legato uno zostile? Se oggi è il liberalismo tecnocratico che narra sé stesso come principio guida verso le magnifiche sorti e progressive come possono i comunisti avere il monopolio sul futuro? E come può allo stesso modo un movimento di estrema destra volersi fare alfiere della restaurazione di un qualcosa di cui ormai nemmeno i propri parenti più anziani possono avere memoria? Il primo marzo del ’68 alla facoltà di architettura della Sapienza ci fu il primo sentore che di fronte ad uno status quo liberale così potente e transnazionale le lotte da combattere sono le stesse. Ma i tempi non erano maturi per unirle.
Un movimento comunista oggi non può evitare di porre l’accento e fare affidamento sulle identità locali e nazionali, lì dove il nemico si è appropriato a suo solo vantaggio il messaggio internazionalista evolvendolo in transnazionalista, mentre i gruppi neofascisti hanno dovuto riscoprirsi molto più antiautoritari di fronte ad uno stato liberale che ha mostrato il suo volto più gerarchico e violento.
Se non vogliamo rimanere dei semplici stramboidi che fanno rievocazione storica ma che al momento di votare o manifestare rimangono travolti dalla precipitosa corsa verso il centro dei partiti maggiori la parola d’ordine è: UNIRE LE LOTTE. Se ci siamo avvicinati oggi a ciò che un tempo si chiamava neofascismo o comunismo, in un periodo in cui non va affatto di moda, significa che siamo ribelli, arditi, caotici per natura come Accio Benassi e quei pochi matti che all’epoca militarono su entrambe le sponde. Questa disposizione d’animo ci rende estremamente simili, ben più di quanto non ci rendano diversi i colori delle nostre bandiere. Piratiamo dunque la teoria del ferro di cavallo da quegli squallidi think tank liberali e usiamola a nostro vantaggio.
Per una lotta:
ANTIAUTORITARIA
ANTICAPITALISTA
NAZIONALISTA