La realtà è assertiva e prigioniera e tu sei così imperfetto e deludente, mentre nell’estinzione della vita domestica gli angeli con le mani sono cari e solleciti nel cancellare le ultime tracce e fare spazio alla prossima creazione.
I rimasti vivono nelle case squarciate, nelle rovine del califfato che ha rinunciato al suo potere. L’esodo continua, è incerto e contraddittorio, e per questo la città vive ancora.
Il mare, oltre l’ultima linea di palazzi, continua a spingersi a riva, e a ritornare nella sua pancia.
Qualcuno si imbarca, qualcuno sbarca. Incrociandosi, i gruppi di profughi non si badano, sembrano non vedersi. Sembrano abbandonare le proprie case per ripararsi, il più lontano possibile, in quelle altrui; riabitarle, ma provvisoriamente.
Soltanto, niente resta, nessuno resta. La città si è liquefatta, aperta, smembrata nelle sue funzioni, ne è rimasta solo una direzione confusa, un attorcigliarsi di correnti e traiettorie che connettono i luoghi, che ormai sono tutti sparsi e altrove.
Sei uscito in cerca di catnip
, un’erba esilarante con notevoli proprietà introspettive, ma hai trovato solo la generale desolazione
del lunedì sera.
Il
sole tram
ontava tra i palazzi liberty e i viali di vetro.
Sei convinto di questo, e allora resti: C’è qualcosa di rimasto da salvare.
Qualcuno per cui vale la pena di restare.
Non sai dove sia, se non si sia già impiccato in un monolocale una notte che si sentiva solo, una volta saputo.
Comunque sia, anche il suo è un sonno, e la tua, come quella di chi è rimasto, è un’attesa, una veglia sul fuoco delle cose che contano.
Tra le auto una sorta di dio creava cose con la voce.
Il suo canto rimbombava come quello delle preghiere sotto le arcate delle vie, ma lui non era un vero dio, non uno di quelli di cui si sia mai scritto, di cui si sia mai parlato. Aveva tasche piene di ritagli che mostrava ai passanti, ma neanche in lui viveva nessun dio. Cantava tra le auto al semaforo per raccogliere dell’elemosina, la bocca e le mani a coppetta sporche di nero
. Un cane triste lo accompagnava.
Eri solo, lo hai lasciato solo.
In via Oberdan un ragazzo del centro piuttosto pulito ti è passato accanto, un ragazzo che sapeva di muschio. Non era un dio, perché non emetteva luce e andava di fretta. Ha dato un calcio a un bidone, ha scavalcato una ringhiera ed è sparito dietro una siepe. Lo hai rivisto in un parco, qualche ora dopo, sdraiato sotto un albero. Rideva
. Ti ha detto: lasciami stare.
Avresti voluto sederti con lui. Fumare con lui fino a tardi.
Hai visto un grebo
al parcheggio della funivia passare sotto i platani con la bocca piena di plastica. Te l’hanno indicato chiamandolo dio, ma girava solo e senza entusiasmo, scacciato dal vento. Non riusciva a parlare e non aveva catnip
da scambiare. Ti ha indicato la ferrovia, poi le corriere che passavano in lunga teoria da e verso la stazione. Mentre seguivi il suo dito se ne è andato lentamente sotto i portici, lasciando tracce di sabbia.
Ognuno di loro aveva mani proprie, e con quelle, abbracciate, sembrava poter abbracciare il mondo, isolarlo.
Tu sei uno di loro, alla fine, anche se hai un rapporto diverso con le tue mani.
Non ti sembra, non lo sai, ma loro, i rimasti, ti considerano un fratello.
Sei vago, sei timido, provi imbarazzo a stare di fronte agli altri nei panni di te stesso senza un motivo. Per questo preferisci stare girato, passare in fretta.
Vivi le strade della città come se fosse una concessione, una libertà meritata ma revocabile.
Il nome di TEOTWAWKI
scritto in pittura compare come un presagio su ogni muro ma tu non te ne curi.
Cerchi di non farti notare.
Dovresti dormire.
Celle di vita sonnambula.
Il corpo, allucinazione sovietica: la materia.
Tu non sei materia. Sei cella intrecciata.
Continua