Di visioni ne hai avute abbastanza. Ti allontani a pisciarti sui piedi, a tenerti abbracciato ad uno sconosciuto che vuole pisciare con te dietro un mucchio di scatoloni.
La tua piattaforma è un transatlantico a mollo nella storia, che affonda mentre un’orchestra di poveri suona i bonghi nella stiva.
I mendicanti in piazza Santo Stefano ti fanno le scaramanzie, perché tu sei come loro.
Aspetti il tuo compleanno seduto in cerchio con gli altri indios, arrapato, facendoti versare il gin lemon direttamente nelle mani a coppa, aspettando la mezzanotte per urlare libero come se avessi tredici anni.
Vi alzate e ballate allo sfinimento, per ricacciare gli spiriti bianchi nel loro baratro e far tornare la pioggia.
Sporto appena oltre i tuoi margini verso gli sconosciuti a cui ti accompagni, resti piccolo, ridotto, nascosto nelle minuzie che nessuno coglie.
Hai mollato una pisciatina nella tasca di uno e ora sopravvivi in una dilatazione tutta tua, tra i limiti che ti sei posto per articolare desideri sempre più sofisticati senza sapere che fartene, anche se non lo sai ammettere.
Sei avvolto in una coperta allucinogena.
Sei quasi impaurito, ormai stai meglio solo, ma non lo sai ammettere.
In questo sei virtuoso e ossessivo, atteggiato. Stringi le mani agli altri per salutare, te ne vai perché non sai più cosa dire.
Rispetti l’alterità, ma solo per opportunismo. Sei cortese e indifferente. Temi di essere scoperto. Sei sporco di bianco. Sei segreto.
La ragazza che ti aspetta al termine della strada è la tua frontiera, il tuo amore egomaniaco.
lei aveva una nuova parrucca, rosa e nera, tu uno scalpo di testa.
Tu per lei sei un dio del sesso.
Lei per te è un uccello magico.
Volate insieme per le strade della città della notte rossa.
Vi raccontate la vita vicendevolmente, siete due pistoleri con le ossa cave.
Alimentate la vostra leggenda d’amore.
Siete estetici.
Il suo nome è Bianca, e vive nel mito.
Ti dice:
Il mondo deve ancora finire, o è già finito?, è indifferente: non è mai troppo tardi per imparare a sbattersene.
Le dici: L’importante è che tu sia tornata.
Non mi fermerò, il mio destino è quello di ripartire.
Giusto il tempo per dirsi addio.
Volevo che fossi tu a lasciarmi andare.
Infatti, ho altri scopi che non l’amore.
Credi ancora nelle profezie luminose dei videocitofoni, che ti cercano quando sei tu a cercarle, che ti vedono senza che tu veda? Pensi ancora che il tuo amico sia da qualche parte là fuori ad aspettarti in vestaglia?
Tu non sei il mare o il vento. Sei una frazione di città, come questa, un dormitorio per anime tutte uguali.
Avete comprato delle gemme sintetiche e vi siete imboccati a vicenda. Sono salite subito facendovi fare lo slalom tra le particelle. Siete fluidi, trasparenti, siete acqua che ride.
Siete tracce di luce che si rincorrono e si intrecciano sfolgorando verso la fuga.
Arrivate tardi al locale, la festa è già finita.
Gli occhi delle persone sono tombe nella pioggia.
Strisciano le loro code sul dancefloor appiccicoso.
Vi siete ubriacati appoggiati ai muri, dentro i portoni, vi siete baciati dietro i cassonetti.
Non sapete più che ore sono. È passata una vita intera, o solo un’ora, è indifferente, impossibile stabilirlo.
Altre fattucchiere piangono lacrime di luce sotto antichi lampioni centro-europei. Per i viali passano gruppi di incappucciati zoppicanti e ridanciani, mangiando pizza tropical, bevendo birre in bottiglia che sanno di miele.
TEOTWAWKI
ha lo sguardo di uno straniero appostato alla sua bottega a fumare. Nelle pozzanghere, la sua presenza non provoca riflesso. Vi osserva dalla nullità di un corpo occasionale, suscitato come un ologramma dai muri, portali extradimensionali verso uno spazio inflitto nel tempo.
Vi siete buttati nel locale per nascondervi. Avete ordinato da bere e avete ballato, per confondervi.
Lei ti ha parlato del suo viaggio a Tangeri, del mahjoun, di sole nero e falce di luna incontrati in una fortezza sulle montagne, di girotondi dei gatti nei parcheggi, di salotti in cui bucarsi in bianco e nero e scopare come nei films.
Ti parla di fiori nel cielo del mattino, osservati da una terrazza circondata da minareti, del suo letto di salvezza che galleggiava nella stanza, delle sue ali fradice di pioggia irlandese.
Siete usciti di corsa nella tempesta nera, nella città sparita, inseguiti dall’ombra di un volatile azteco; il suo fragore di ali la perseguita da quando è nata. Vi toglie il respiro. Un vento equatoriale si alza scompigliandole i capelli e i vestiti.
Vi siete aggrappati a quello che restava dell’altro per resistere alla bufera.
Siete due mani che si intrecciano creandosi, e girano e girano senza potersi più fermare.
Avete rubato una bobina di rame nel deposito della ferrovia, l’avete rivenduta per un pugno di monete d’argento a un tipo con le mani giganti e la testa ammaccata che gestisce una bancarella di polveri dietro il gasometro. Avete acquistato della catnip e l’avete fumata sul ponte. Lei ha appoggiato la testa sulla tua spalla.
Si è addormentata nelle tue mani, era troppo piccola per restare.
È stato solo un sogno, elaborato nel dormiveglia di una notte fredda.
L’hai avuta e persa. Una sola volta.
L’hai amata e distrutta.
Sei il tempo che passa.
Riduci lo spazio che ti circonda.
Raccogli i resti di chi hai lasciato andare.
Concimi la memoria, per viverne la quiete insana e non mostrarti.
Tu non c’entri col destino come credi, non ne hai a che fare. Tu eri il mare, ti sei ritirato. Tu non sei più il mare, sei scighera, nebbia sottile.
Hai incontrato l’erborista tra le sterpaglie. Ti ha venduto un biscotto all’hashish e tu l’hai divorato pensando a lei.
Strizzi gli occhi e passi. Tu non c’entri.
Una donna vestita di plastica ti porge una mano sottile che tu stringi. Ti sguscia via come un pesce morto. Sei tutto sudato.
Prima che venga sera, il mondo sarà una distesa di pesci morti.
Ti guardi intorno. Non hai uno straccio di piano. La borraccia è quasi vuota. Le tue scarpe hanno preso fuoco. L’erborista era un cane selvatico, randagio, ti ha sbavato sulle mani.
Gli autobus ti passano a fianco, fermandosi, ripartendo verso il fondo giallino che sorvola la città in fondo al viale.
Ti strappi il costume e lo sotterri insieme alle scarpe.
Cammini ancora i marciapiedi terrestri, come se fossero ponti stranieri spezzati sullo Stige, sul Fersina, sul Ticino.
Un collegamento, un’associazione che provoca luce ti si deposita nella mente. Te ne accorgi appena. Ti cade in terra. Ti pieghi per raccoglierla, luccica nel sole. Non è niente, solo una metamorfosi di cose astratte rimasta in sospeso.
Ma a questo punto la questione non ha più molta importanza.
Il cielo si apre per inghiottirti. Hai le tasche piene di fiocchi di carta, i tuoi occhi sono due rocce calde e tu sei rigido. Sei un sasso.
L'Esselunga ti si schianta davanti. In confronto tu sei poca roba, veramente. Entri dalle porte scorrevoli che ti invitano a farlo. I colori servizievoli ed evidenziati hanno una voce; la temperatura controllata, la luce magazziniera e commerciale hanno un loro ritmo, una loro sincronia invariabile. Ti scomponi tra le corsie come un suono acuto diviso nelle sue diverse frequenze. Aleggi tra gli scaffali provando sollievo. Il mondo al di fuori può anche finire, tu puoi finalmente persistere. Il mondo fuori può restare fuori, e tu come sospeso tra due magneti puoi restare costante, perpetuo: nella permanenza puoi essere passivo ed infinito, senza darti un merito, né fartene una colpa.