A mio padre
Si intuisce che, in un’opera, dell’onniscienza ne gode un’entità che porta chi la vive, leggendola, in un luogo inesplorato, inesplorabile anzi. Siderale e inavvicinabile come il cosmo, ad esempio, che ci prende in giro piangendo su di noi la sua luce e, quando si potrà viaggiare e conoscere, ci si ripeterà di non poterlo ancora fare solo per non interromperne la spaventosa e infinita profondità. Così può solo comportarsi il cielo e tutto quello che vi è in esso. Ci si lasci il concetto astruso e superficiale in sospeso, ancora per poco, prima di affrontarlo serve che Giorgio ritiri il micione bianco. Wilson! I fatti vengono prima, anche prima dei periscopici racconti che leggerete poco più avanti. Come nuovo ospite della sua dimora, Giorgio non si era affatto posto il problema del micio, ma dovette parlarne con la moglie la quale, prese le distanze dalla volontà di immischiarsi in un tale impegno, una volta domandato al marito perché la stessa incontenibile voglia di novità non lo avesse dirottato su una nuova collega o macchina costosa, vide il bicchiere mezzo pieno e, pilatesca, accettò il nuovo arrivato che avrebbe conosciuto solo al ritorno. Lui se la giostrò comunque molto bene, raccontando con dialettica, frase per frase, il triste avvenimento, condito di inguaribili dolori e abissali dispiaceri per la costrizione, maledetta!, che portò il gatto a vivere per strada e ritrovarsi nel suo giardino, minuziosamente elogiato quale a rifugio terreno da una pestilenziale apocalissi senza fuga.
Giorgio non se n’era dimenticato, del Karma. Questo era di per sé strano, perché come già s’accennava prima, la sua memoria non lavorava se non per ripetitive abitudini e routinarie attenzioni verso un’egocentrica e tranquilla esistenza, ai limiti dell’egoismo. Ma allora cosa stava facendo meritare d’attenzione questi ultimi avvenimenti? Fiuto che quest’ultimo, per una deformazione professionale, usava implicito agli albori di una vicenda evidente?
Occhi scrutatori dell’inevitabile scoop di provincia, quelli di Giorgio, marchettatore di salotti perbene. I medesimi occhi dalle pesanti palpebre davanti all’inconcepibile, che stranamente più la mentalità è ristretta e più ampio è lo specchio delle inconcepibili devozioni che l’uomo fa, come il sacrificio di un uomo ai suoi animali, che non sentirà mai dire grazie. Giorgio dimenticava quasi tutto, ma non perché niente sembrasse interessante, più perché non provare interesse somigliava a un’attitudine. Qualcuno gli aveva spiegato di un invisibile comune denominatore che genera un equilibrio, come il Karma, restituendo ciò che di bene e di male si compie. Certamente, non erano state parole facili e forse spiegate col necessario tempo, ma ingombranti e comprese, quello sì. Tutto il male aveva un senso giustificato, e da cosa? Da un male precedentemente commesso. L’aver schiacciato la formica con la scarpa da bambino poteva poi far levigare le ginocchia allo stesso bambino cadendo dalla bici, o esser preso a spintoni da un gruppo di coetanei più inclini alla cattiveria. L’inarrestabile susseguirsi di una serie di mali, incontrollabile, incalcolabile soprattutto, determinato da cosa? E chi spinge la prima tessera del domino? Poteva essere così sottile il senso di questa teoria da averlo scoperto, per contrasto, un individuo così lontano dall’aspetto che lo scopritore della pace assoluta potrebbe avere per chiunque? Che colpe ha un neonato che muore prima di accorgersi della sua stessa vita?
Questa era una parte minore delle domande che continuavano a far riflettere Giorgio sulla questione, benché egli non trovasse risposta. Di lì a poco sarebbe stato a casa, avrebbe messo se stesso sul divano, mangiato e preso qualche carezza. Un gatto come lui era in grado di ambientarsi anche in poco tempo dopo l’aver avuto, probabilmente, una vita pericolosa e ricca di stenti così difficile da fargli confondere un calcio con una carezza. In effetti Wilson dormiva, poche ore più avanti, nella stanza del suo padrone che, sorpreso perché il micio avesse seguito il suo stesso orario, riposava nel letto. Fra le pieghe delle lenzuola Giorgio, steso in quel matrimoniale, non dormiva. Una fievole luce lunare, furtiva, entrava nella stanza, illuminando quello che poteva e dandogli una maggiore quiete perché potesse essere meglio osservata. La persiana, semiaperta, rimaneva tale, lasciata dall’uomo sonnecchiante, senza voglia di alzarsi e chiuderla. Il caldo di quel maggio strappava la promessa che in quella notte niente avrebbe avuto freddo. Nel tepore che le lenzuola avevano creato ogni oggetto appariva più immobile che mai: Wilson in fondo al letto rifletteva quella ghiacciata illuminazione fino a sospenderlo; dormiva più intensamente e di quella sottile bizzarra atmosfera notturna, e Giorgio non ne era più spettatore, perché dormiva da qualche minuto. Ciò nondimeno lo aveva reso partecipe di quel silenzioso avverarsi di delicate espressioni. Il gioco della tranquillità, quando di notte la società è più calma che in altri momenti del giorno, dà l’effettiva presenza di una magica scenografia, anche dove si pensa mai possa arrivare; eppure Giorgio era già capovolto nella rarità di questo fenomeno, come magnifico attore.
Si ritrovava davanti a un giardino, ed era notte buia. Un solo lampione lo aiutava a vedere i confini delle case, per poi già confondere quelli di una chiesa e osservare come fosse tutto oscuro oltre. Il cancelletto davanti a sé era aperto. Giorgio provava ad aprirlo, non per paura, nessun percettibile timore aveva passato la mente dell’uomo, ma all’interno vi era una sconosciuta oasi grazie alla quale si poteva addentrare, sentendosi il guardiano. La porta in ferro, aprendosi, fece sgattaiolare al suo interno l’uomo, accortosi subito di una diversità ancora da individuare, quanto presente davanti ai suoi occhi, si manteneva attento per l’aria che la notte dava col suo silenzio. Poi subito intravide sopra sé che la differenza con l’ambiente che precedeva l’interno era data dal cielo. Malgrado fuori non si riconoscesse nemmeno per il buio profondo che inghiottiva la luce del lampione a pochi metri da Giorgio, dentro faceva distinguere quasi i fili d’erba. Un illuminato ed elettrico firmamento poggiava sul tetto del giardino e a renderlo così pacifico e accogliente vi erano le migliaia di stelle che prendevano la vista, dopo aver tentato di contarne due o tre. A ogni passo che l’uomo faceva, il cielo cambiava la sua colorazione da quella elettrica a quella più naturale del buio fra le stelle. Un’intermittenza che prese un definitivo blu all’avvicinarsi all’angolo sinistro del perimetro. Questo faceva sentire Giorgio solo, come un intruso freddo che voleva presto scrollarsi l’aria di anonimo. Svoltato il muro, percorse velocemente metà del tracciato come dovesse tenersi in equilibrio, senza problemi di visibilità per le stelle e la loro luce, pur mancando la luna piena.
Fermo, cominciò a riconoscere alcuni gatti che godevano dell’atmosfera, in quel fiabesco giardino così distinto da un’equilibrata chiarezza. Un milione di stelle per uno avevano a disposizione; dopo averli guardati appartenere alla sinfonica pace, ubriaco dell’atmosfera, prese a osservare anch’egli il cielo, facendosi attraversare dalle sensazioni dell’estate di chi prova amore fin da bambino per tale stagione.
D’improvviso, nello schermo di cielo su cui gli occhi puntavano, apparve, spumosa e rosa, una circonferenza che sembrava espandersi felice, malgrado dipendesse da una chimica reazione. Una nova si era avverata davanti all’espressione ghiacciata di Giorgio, il quale nella fermezza di tutto ciò che lo circondava si arrendeva davanti a ogni particolare che la stella esplosa dava a vedere, ma non ebbe il tempo di una breve analisi che accadde lo stesso evento a fianco dell’altra: a un palmo di mano dalla prima, si ripeteva una luce tremenda che impensieriva l’osservatore su cosa stesse avvenendo. Le due forme sferiche avevano passato negli attimi del loro verificarsi una serie di brillanti colori che le avevano fatte somigliare a gioielli, sconosciuti anche alla più ricca sovrana di ogni epoca. Le pietre si erano dissolte ritornando a un disegno costante seppur dalla astratta sfumatura. L’uomo era attraversato da un bisogno di sapere che diede ordine al suo sogno di portarlo vicino per vedere il più recondito desiderio di conoscenza, quello che non si può dire, quello che non si può immaginare. Una conoscenza desiderosa essa stessa di essere scoperta. Giorgio si sentiva come il primo uomo che avesse camminato, che avesse acceso il fuoco o scritto.
In futuro avrebbe sorriso imbarazzato ogni qual volta sentisse pronunciare il nome di Ulisse. Una risata gli avrebbe squarciato la gola davanti alla balena bianca. Prepotente, il viaggio lo avvicinò alla miriade di luci, oltrepassando le irregolari nebulose che tanto gradiva, si sentì avvicinare provando la fresca aria sul volto e in pochi secondi aveva viaggiato l’universo, non sentendo più nulla se non le vertigini del suo volo. Malgrado sconvolto, intravide una forte sorgente di luce sotto sé, si girò perché ormai drogato dalla stessa e per individuare il suo stellare riferimento, padre in quella sconosciuta paura. Le due bianche luci erano riconoscibili ma distanti tra loro, soltanto una era più visibile, lontana abbastanza perché Giorgio non provasse nemmeno a raggiungerla nuotando. Fu allora che comprese di respirare, non avere freddo e galleggiare. Tornata in mente la luce, si voltò per osservarla scoprendo di essere sopra a una stella, dalla forza invisibile e aspetto gelido. Puntandogli contro un’onda di calma, Un bianco fulgido rifletteva l’inaspettato tepore che solo quell’angolo di cosmo era capace di dargli. Cominciando a provare un brivido per il freddo e non per la paura ruotò in avanti e la vide meglio.
L’ardore della stella, tranquillo e costante, somigliava al suono del camino che scaldava Giorgio nell’inverno, in casa della nonna, quando il pomeriggio le faceva visita, con fuori la spettrale campagna; al corpo celeste apparteneva la grandezza che il sogno dapprima si presentò a Giorgio con lo spicchio di una superficie, colorata dall’azzurro vibrante del mare, e poi lo colpì, mostrandosi nella sua interezza. Come si presenterebbe il mare se nel cuore possedesse la sola milionesima parte della luce di una stella? Percepita la bontà dell’oggetto, Giorgio allungò la mano e ne sentì il calore della cioccolata, nella tazza che gli allungava la nonna in quella casa. Nel profondo del cosmo, dietro lo spazio siderale, davanti la forma celeste, la memoria seppe solo richiamare il ricordo dell’infanzia. La morbida stella era fissata dagli occhi di Giorgio coincidenti nella forma sferica che l’astro dava l’impressione di avere negli estesi orizzonti, costruiti dalla sua ripetitiva matematica. Compresa l’esistenza di questo posto, Giorgio cominciò a riflettere, perplesso da cosa non lo spaventasse. Più spostava di qualche millimetro il viso contro l’irregolare sole, più ne era attratto. Si avvicinava provando pace, forse aveva compreso più in quegli attimi lui che ogni singolo essere umano mai nato. Lontane regioni della celeste presenza, scoppiando, non intimorivano Giorgio, rassicurato invece dalla tranquilla area sotto di sé che quasi gli suggeriva di incontrarla con velate e morbide increspature, dai miti quanto brevi disegni, per le correnti assunte dalla mutevole faccia che l’oggetto cosmico riferiva all’uomo.
Domandandosi sulla bellezza di tali visioni, aggrappandosi per un attimo all’impermeabile, si pronunciò in avanti col corpo e si sporse verso la stella e cercò di raggiungerla. Più le si faceva vicino, maggiore era la rilassata emozione che l’enormità scambiava con l’uomo ad ogni avvicinamento e più il sognatore vedeva e comprendeva gli uomini e i loro accadimenti, che di fronte alla silenziosa creazione apparivano come ridicole vicende appartenute ad effimeri e tracotanti mortali, a cui non spettasse alcun ricordo. Arrivato alla superficie, mosse le mani come su un’acqua magica e limpida, senza sfiorarla per paura di interromperne il riverente atteggiamento; con ormai la luce negli occhi e conoscendo ogni storia della sua specie, ma non il suo avvenire, decise di pronunciare le labbra verso la calma marea di quella sorgente luminosa, la baciò chiudendo gli occhi e li riaprì trovandosi dov’era partito. Davanti a lui, un cupo orizzonte, poi le stelle tornarono ad apparire.
Ripresosi dal fatto appena avvenuto, si mise ad osservare il giardino e i tranquilli felini, accarezzati dalla luce fievole del cielo, perché la calma lo pervadesse al fine di stabilire quanta realtà fosse da poco tornata padrona di quanto gli succedeva. Ancora, nel disorientamento spirituale più intenso, Giorgio crollò come la sua anima e genuflesso al suo nuovo dio stellare, si rialzò per continuare la ricerca di chi conosceva dentro la struttura. Riguardando le due nove, in loro due occhi si erano formati, come non fosse possibile che tale bellezza impiegasse la sua potenza anche per creare. Rinvigorito dal piacevole sentimento che gli astri donavano all’uomo, cominciò a camminare e i giganteschi occhi lo seguivano, curiosi delle imminenti gesta. Vedendo che i gatti non si impaurivano al suo passo indeciso, si portò definitivamente davanti a dei gradoni aventi aspetto solenne: da un portone spalancato, un fuoco rosso mostrava al profanatore l’atmosfera di una notte egizia, ai piedi di una piramide. Dentro, alle pareti, vi erano torce negli anelli di ferro infilati ai muri, tutte accese. Sentendo un vento alle spalle, quasi a incoraggiarlo, ebbe modo di vedere dei gradini perché le fiamme offese dall’aria, piegandosi, mostravano una scala. L’occulta volontà della natura, attorno a Giorgio, tramite luci e venti, avanzava la pretesa di indicare all’uomo quale strada percorrere. Il suono tranquillo dei fuochi estendeva alla sua mente l’idea di essere in un antico tempio, le cui mura del corridoio spingevano un fantasma in cerca del sacro fino a perdervisi.
Giorgio volse alla prima rampa: lì, una piccola micia con occhi rifrangenti scappò intimorita al primo piano, rapita da un buio che l’uomo scorse per seguirla con lo sguardo; a ogni gradino, il passo si faceva pesante quanto il respiro di Giorgio, come se la protezione cosmica che fuori aveva baciato non potesse seguirlo, fino lì. Allungando il collo, già vedeva una finestra da cui la mitica luce mandava un pallido accenno di presenza, ma l’oscurità aveva controllo dell’intero piano sprovvisto, com’era, di torce. Il suono delle fiamme era più debole, per questo Giorgio sentì il cigolio della sedia in prossimità della finestra amica, la stessa che sfiorava la testa della figura seduta: dal contorno che sembrava di un uomo. Si fece avanti, di due o tre metri, sicura, nell’ombra. “Hey!” esclamò spaventato Giorgio, continuando ad osservarla. La figura, più vicina, seppur nera, stridette la lingua sul palato come per chiamare un animale; distratto da un breve ringhio, Giorgio si girò per comprenderne la provenienza. In fondo alla rampa che occupava, vide quello che sembrava un ragazzo a gattoni che saliva, gradino per gradino, aumentando quel verso, appartenente a un felino. Impietrito, a pochi gradini tra i due, Giorgio notò che il volto dell’essere tardava a comparire. Ma mentre alzava la testa, capì di non vederne alcun tratto. La bestia sembrava guardarlo ma solo una pelle senza interruzioni lo fissava demoniaca. Il richiamo con la bocca, della figura dietro, si ripeté e sembrava più vicino. L’uomo si voltò spaventato, poi di nuovo, per paura dello strano deforme sulla scala, che a quel punto era sparito. “Cosa fai?” pronunciò terrorizzato Giorgio e vedendo ancora la testa dell’uomo in piedi a metà corridoio, sentì il verso del ringhio più arrabbiato, davanti a sé, sembrava una donna violentata dal diavolo, che scacciava ogni cosa potesse guarirla, finché dal buio apparve una lince. Gli occhi e i denti miravano l’uomo. Il ringhio, ormai un urlo, lo mise in fuga e percorrendo in poco le scale e il corridoio, era fuori.
Schiacciando l’erba con le punte delle scarpe bagnate dalla rugiada, corse veloce e riuscì a lasciarsi alle spalle il tempio. Appoggiò entrambe le mani alle ginocchia, piegato per riprendere fiato e coraggio, si voltò verso il giardino non trovando più la differenza di prima, lo stesso cielo esteso al di fuori del mondo appena visitato. Poi, si accorse che ai lati le code degli occhi vedevano muoversi figure che entro poco avrebbe udito. Crescendo in un fragore insostenibile, con ritmico tempo, un esercito di uomini identici fra loro, dai grigi volti e nessuna espressione, lo chiudeva passo dopo passo; alcuni, muniti di lance, colpivano il suolo all’incitamento di un unico generale. Le nove piangevano di paura e scomparivano dissolvendosi silenziose, mentre rivolgevano gli ultimi sguardi. Travolto dallo spavento e paralizzato dal terrore, indietreggiò due volte, poi riguardò il tempio, alzando gli occhi fino al tetto: qui, un profeta godeva ridente della scena ai suoi piedi, poi alzò le mani aperte all’altezza della faccia caricandole dalle gambe. L’esercito smise il suo passo, diede di scatto le spalle a Giorgio che, incrociando gli occhi splendenti del ragazzo, rimase immobile, prima che un’aria lo svegliasse.
Aprendo gli occhi, preoccupato, si domandò sul sogno, e non volle alzarsi per un bicchiere d’acqua, nemmeno non vedendo più Wilson, lì a tenergli compagnia.