A distanza di quasi quattro anni dalla sua nascita, Inimicizie è molto più che un semplice blog: grazie all’attività sui vari social (che comprende anche un podcast e una newsletter) e ai suoi contenuti, Inimicizie è riuscito a consolidare una capacità di informazione geopolitica che gli ha permesso in breve tempo di assicurarsi un nutrito seguito.
Con Pietro abbiamo parlato di comunicazione, cultura e, ovviamente, geopolitica.
Pochi mesi fa ha suscitato scalpore il fatto che Dario Fabbri non sia laureato. Qual è la tua posizione riguardo il metodo universitario dello studio delle dottrine geopolitiche? Ti sei formato all’università o da autodidatta? Cosa ti ha spinto ad aprire il blog?
Quella su Dario Fabbri è stata una polemica stupida e irrispettosa, una certa persona su Twitter ha aizzato i cani contro Fabbri che non mi risulta abbia mai millantato lauree, a differenza di altri. Non penso ci voglia una laurea in Relazioni Internazionali per occuparsi di geopolitica: io ce l’ho (triennale, tra qualche mese anche magistrale) ma questo non mi fa sentire superiore rispetto a colleghi che non ce l’hanno.
L’interesse per le relazioni internazionali è arrivato prima dell’università, e mi ha portato a scegliere questo percorso di studi. Ho avuto la fortuna di seguire corsi in cui si sono studiati Schmitt, MacKinder, Spykman, Mahan e Hausofer, quindi non posso proprio lamentarmi da questo punto di vista: la geopolitica (nel vero senso della parola, non intesa come “politica estera”) l’ho scoperta così! Sicuramente però non basta – relazioni internazionali è un corso di laurea molto “olistico” che giustamente dà spazio anche ad altre discipline – e bisogna approfondire per conto proprio. Purtroppo – almeno in UE – l’accademia tranne che per pochi fortunati non è il luogo giusto per farlo, a livello di percorsi post-laurea. Le riviste accademiche producono contenuti di alta qualità e rigore metodologico per chi si interessa di Relazioni Internazionali – le consulto spesso per le mie ricerche – ma lo spazio per entrarci è strettissimo, e il percorso poco remunerativo e attraente.
In fondo la domanda è: chi paga?
Lo Stato italiano e l’Unione Europea nell’ambito delle RI finanziano progetti di ricerca sulla parità di genere, i diritti umani o il cambiamento climatico, per la maggior parte. Nel giro dei think tank il rischio di finire a dire quello che altri ti pagano per dire è alto. Per molti avere una rivista, un sito, un canale youtube o un substack è l’unico modo di fare di questa passione un lavoro, e di farlo rimanendo indipendenti. Quindi Fabbri non ha tutti i torti, buon per lui che ci è riuscito.
Per quanto riguarda il blog di Inimicizie: nel 2020 la guerra tra Azerbaijan e Armenia mi sembrò un chiaro esempio del fatto che il mondo in cui è cresciuta la mia generazione – quello dell’unipolarismo americano, dove le guerre erano solo azioni di polizia dell’unica superpotenza – fosse definitivamente finito. Mi è venuta voglia di condividere questa prospettiva – anche solo per dare a me stesso una motivazione in più per approfondirla – e così è nato Inimicizie.
Dalla scoppio della guerra in Ucraina si è visto un incremento di canali, pagine e influencer che parlano di geopolitica e affini. Secondo te qual è il modo migliore per comunicare in questa materia?
Non credo ci sia un modo “migliore”. Non tutto il pubblico ha le stesse preferenze: c’è chi non si interesserebbe minimamente alla materia se non fosse per i reel/tiktok e chi invece preferisce il dettaglio che si può ottenere con un libro o leggendo un numero di Eurasia, o chi si ascolta un podcast mentre va a lavoro. È bene che si sfruttino tutti i mezzi possibili.
Io personalmente mi trovo meglio a scrivere che a produrre contenuti più “mediatici”, anche se ultimamente con il podcast ho trovato una strada che mi piace.
Per essere aggiornati oggi i cosiddetti media tradizionali non bastano. Stiamo vivendo una vera e propria infodemia. Esiste un modo per districarsi in questa ragnatela? Tu come raccogli le informazioni? C’è qualche canale (youtube, telegram, X, etc.) che consigli?
Esiste, ma non è semplice. La soluzione è adottare il metodo dei servizi segreti, il cui principale lavoro è la raccolta e la rielaborazione delle informazioni.
L’affidabilità delle fonti non va giudicata come un valore binario, ma su una scala: la questione non è se una fonte sia affidabile o meno, ma quanto. E, soprattutto, quanto è affidabile rispetto a cosa sta dicendo: se il ministero della difesa russo dice che una nave della flotta del mar nero è affondata possiamo ragionevolmente prendere la notizia per buona. Se dice che il contingente russo in Ucraina ha distrutto un sistema Patriot, la cosa giusta da fare sarebbe controllare se altre fonti (ucraine o legate alla NATO) corroborano la notizia o se esiste una prova video.
In certi casi – ad esempio con i “retroscena” – verificare risulta impossibile, a un certo punto bisogna scegliere di credere o meno a una versione della storia, magari a quella che più risulta realistica secondo la nostra visione del mondo.
Per questo non esistono fonti “imparziali”, Inimcizie compreso.
Io ho vari aggregatori di fonti e, soprattutto quando si parla di guerre in corso, cerco di confrontare voci vicine a entrambi gli schieramenti. Nel corso del tempo ho conosciuto delle persone che secondo me si occupano della materia seriamente, su Telegram ci sono Lettera da Mosca (di Fulvio Scaglione), The Dome, Columbus Informazione, Geopoli. Come testate – sempre rimanendo in Italia – InsideOver e Aliseo che sono online, o la rivista cartacea Eurasia. Ci sono anche tre canali youtube – in inglese – che hanno un posto nel mio cuore perché li seguo da quando andavo al liceo: Caspian Report, Covert Cabal e Binkov Battlegrounds.
Hai parlato di razionalizzazione imperiale riguardo l’America. È possibile nel contesto attuale una razionalizzazione sulla Terra se essa è solo funzionale ad un maggior riorientamento nella dimensione del Mare (del Pacifico nel caso), anti-razionalizzatore per eccellenza? Più in generale è possibile razionalizzarsi in un mondo già razionalizzato? Cosa potrebbe implicare nel caso Usa?
Sul mare gli uomini non ci vivono, ci si spostano solamente. Va visto – come insegnano Schmitt e Mahan – come un mezzo di comunicazione sia commerciale che militare che però congiunge sempre dei punti sulla terra. Questo è il succo del problema americano degli ultimi 10 anni circa: quante linee di comunicazione si possono mantenere mentre gli avversari diventano più forti? Quanto bene le si può difendere? Quali vale la pena tagliare? Come ci si mette nella posizione di interdire quelle avversarie?
La risposta è arrivata con il pivot to Asia durante la seconda amministrazione Obama, implementato dalle amministrazioni Trump e Biden: mantenere enormi eserciti nell’Asia occidentale sotto costante attrito, per ottenere poco o niente, è diventato non più sostenibile. Il totale ritiro da Iraq e Siria è stato sabotato da elementi interni e ora gli USA rischiano di pagarne le conseguenze, con la guerra di Gaza che non possono/vogliono fermare che rischia di coinvolgerli in prima persona, con effetti disastrosi per la potenza americana. Ma salvo questo incidente, con la guerra in Ucraina si è aumentata la dipendenza dell’UE dagli USA e si sono iniziati a tagliare – anche fisicamente, vedi l’attentato al Nord Stream – i legami degli europei con Russia e Cina.
Da questo scenario emerge un quadro molto più “razionale”: un impero americano che ha come arterie vitali le due linee interne oceaniche dell’Atlantico e del Pacifico, con frontiere terrestri molto meno porose rispetto a prima. In tutto il resto dell’Eurasia si può dare fuoco alle polveri per sabotare le linee di comunicazione – terrestri e marittime – che non sono americane e alimentano la potenza altrui.
Ci saranno delle ripercussioni interne, sicuramente, ci sono già:
le tensioni negli Stati Uniti ricordano in un certo senso quelle sperimentate durante la “distensione” della guerra fredda, che fu un altro grande periodo di razionalizzazione e quindi incertezza. Adesso manca la frontiera da conquistare che è sempre stata parte dell’ethos americano, fioriscono le letture decliniste – sia in campo militare che artistico, si pensi a Leave the World Behind e Civil War – come negli anni Nixon-Ford-Carter. Lo fanno su un humus politico che è sicuramente meno sano rispetto al secolo scorso, grazie a decenni di immigrazione di massa, finanziarizzazione e filosofie critiche: a questo punto nulla è da escludere.
Bisogna però ricordarsi che dopo – e grazie a – l‘ultima razionalizzazione gli Stati Uniti sono ripartiti all’attacco, e con Raegan hanno vinto la guerra fredda. La grande questione quindi è se sapranno rilanciarsi come negli anni ’80 superando le crisi interne, e se dall’altra parte troveranno una porta marcia da sfondare come quella dell’URSS di Gorbacioff, o invece affronteranno rivali più preparati.
Come il conflitto in Medio Oriente e quello in Ucraina hanno influenzato la ricerca dei paesi europei sulle tecnologie militari e la cyber security? Il fatto che la prima azienda europea del settore della difesa sia italiana può essere un vantaggio per il nostro Paese, anche dal punto di vista Americano?
Qualcosa fortunatamente si è mosso e sono stati lanciati progetti che fanno ben sperare: il carro di nuova generazione franco-tedesco in cui parteciperemo con Spagna e Svezia, il caccia di sesta generazione con Giappone e Regno Unito. Siamo dipendenti dai sistemi d’arma americani – a livello europeo, non solo italiano – e questo riduce drasticamente la nostra libertà di manovra in politica estera.
Da questo punto di vista ci vuole una vera e propria rivoluzione: bisogna smetterla con le boutique europee che vendono qualche caccia, qualche carro armato e qualche cannone navale agli arabi o con ridicoli sovrapprezzi ai propri eserciti. Bisogna costruire una vera industria bellica europea, integrata e in grado di coprire l’intero spettro dei sistemi d’arma più avanzati a un costo ragionevole e nell’ottica di un ampio riarmo. Questo significa anche ripensare le norme anti trust e permettere ad aziende come MBDA e Fincantieri (recentemente ostacolata proprio in tal senso) di diventare “campioni europei”.
Non credo che il sistema degli appalti congiunti della Von der Leyen – che con gli appalti ha una storia piuttosto promiscua – ci aiuterà molto in questa direzione. Più probabile che serva a premiare chi si comporta bene e bastonare chi si comporta male a livello di stati nazionali. E che la lista dei buoni e dei cattivi sia di volta in volta stilata da Washington.
Nella prospettiva di un mondo multipolare, c’è più spazio per gli stati regionali indipendenti o, meglio, le cosiddette “micro-nazioni” (pensando alle tesi di Parag Khanna)? È fantapolitica immaginare, ad esempio, la Catalogna indipendente?
Nel mondo multipolare gli attori piccoli e medi hanno molto più margine di manovra, perché ci sono più rivalità e più linee di faglia da sfruttare; e le grandi potenze non sono in grado di imporsi con la forza di USA e URSS nel secolo scorso. Questo è un vantaggio per loro ma un grande fattore di rischio: un Azerbaijan può far scoppiare la terza guerra mondiale come la Serbia nel mondo multipolare che precedette la prima. Sarebbe stato molto più difficile nel mondo della guerra fredda che era rigido all’interno dei due blocchi e seguiva regole ben precise al di fuori di essi.
Ci tengo però a precisare che parliamo sempre di stati: le tesi – come quelle di Parag Khanna – che vedono le multinazionali, le grandi città o altri attori economici come i nuovi soggetti del sistema internazionale per me sono poco interessanti. Quante divisioni ha Elon Musk? Nessuna, infatti lancia satelliti spia per il governo americano e mette Starlink a disposizione della guerra in Ucraina. Se si rifiutasse di farlo, potrebbe salutare il suo “micro stato” tanto quanto Jack Ma in Cina.
Il potere deriva dal monopolio della forza, questo non è cambiato da quando stavamo nelle caverne.
Quindi gli attori che ci interessano – seguendo la tradizione del realismo politico – sono quelli che possono disporre della forza ed usarla per imporre la propria volontà. Possono anche essere non-statali, come la Wagner, Hezbollah o i cartelli messicani, ma lo stato rimane più interessante perché è nato e prosperato proprio in quanto forma di organizzazione politica che meglio permette di organizzare la violenza. Ce lo ha dimostrato Prigozhin, che con il suo ammutinamento ha cercato di prendere il controllo dello stato russo; la stessa cosa che fanno in maniera diretta e indiretta tutti gli attori non-statali.
Dunque Puidgemont potrà andare ben poco lontano, dovendo giocare secondo le regole di uno stato che non permette la secessione e non disponendo della forza militare per farsi potere costituente; o quantomeno imporre costi estenuanti allo stato spagnolo. Più interessante la situazione nel Regno Unito – che almeno teoricamente permette la secessione – e in Irlanda potrebbe doversi confrontare con la minaccia della violenza organizzata, se ostacolerà l’unificazione che (se dovessero proseguire gli attuali trend demografici) diventerà la preferenza maggioritaria anche nell’ulster, a breve.
Negli ultimi vent’anni abbiamo visto internet diventare il principale luogo di scontro politico. Quanto è necessario elaborare una strategia comunicativa online per vincere le guerre del futuro? Sono i meme ad essere influenzati dalla geopolitica o anche il contrario?
Sicuramente è necessario elaborare strategie comunicative in guerra, ma questo non è niente di nuovo.
Su questo punto devo dissentire dalla stragrande maggioranza dei miei colleghi:
penso che la questione delle “guerre informative” sia estremamente ingigantita, spesso e volentieri da attori che hanno un interesse personale nel farlo.
Le guerre di propaganda quasi sempre si vincono a casa propria e si perdono in casa altrui, e si è visto benissimo con la guerra in Ucraina. Le guerre si vincono sul campo di battaglia, soprattutto una volta che si è iniziato a sparare e gli spazi informativi sono stati messi sotto un controllo ancora più rigoroso. E soprattutto oggi, quando anche i governi dei paesi meno sviluppati conoscono lo strumento dei social.
La guerra informativa può essere utilizzata come strumento di sovversione o di guerra irregolare – come fecero gli americani con le rivoluzioni colorate nell’ex-URSS o le primavere arabe, sfruttando comunque vuoti di potere e condizioni favorevoli – ma arriva solo fino a un certo punto, oltre al quale servono armi, operazioni dei servizi segreti, fiumi di denaro e influenza geopolitica, anche se non si vuole scomodare l’esercito regolare.
Gli Stati Uniti – che dispongono del più potente apparato in tal senso e regolarmente ci provano – non sono neanche in grado di pilotare elezioni in Turchia, Ungheria o Slovacchia, tantomeno scalfire lo spazio informativo russo e cinese. Ancora più ridicolo affermare il contrario: dovremmo credere che la Russia, che con la sua temibile guerra informativa non è riuscita ad impedire il golpe del maidan in un paese di lingua russa, che si informava tramite media russi e utilizzava social network russi sia in grado di pilotare le elezioni americane (!!!) o europee riempiendo un capannone di agenti dei servizi armati di pc e account twitter con 20 follower a testa?
Una vera idiozia.
L’opinione pubblica è un fattore importante nelle guerre – sia nei regimi democratici che in quelli autoritari – ma se pilotarla talvolta risulta difficile persino per chi dispone delle leve dello Stato… per chi gioca in trasferta è un miraggio.
In un paese, e su un paese, la cultura agisce come soft power. Quanto secondo te questo è rilevante? Dove si vede di più quest’influenza oggi nel mondo occidentale a tuo avviso?
Sicuramente il soft power è un elemento rilevante della politica internazionale, ma – come nel caso delle guerre cognitive – mi sembra ci sia spesso confusione su quale sia il suo posto nella scala gerarchica dei fattori di potenza. La cultura agisce da collante per le alleanze o da ulteriore elemento di frizione nelle rivalità, ma alla fine dei conti svolge un ruolo secondario rispetto all’hard power, che non va esagerato, magari illudendosi che il Colosseo, la pasta al pomodoro e i film di Cinecittà possano metterci al riparo dalle tensioni internazionali perché “nessuno può avercela con noi”
.
Questo è pericoloso.
Consideriamo anche che spesso e volentieri le elite influenzano la cultura per soddisfare le esigenze geopolitiche/politiche, più spesso di quanto non avvenga il contrario. Un caso che mi piace è quello dell’Ungheria, che nel diciannovesimo secolo – nonostante fosse una monarchia cattolica nell’impero austro-ungarico – schiacciata tra il pan-germanesimo e il pan-slavismo, improvvisamente riscoprì le sue ancestrali origini nel bassopiano turanico, in Asia Centrale, quindi la sua fratellanza etnica con l’Impero Ottomano. Queste origini esistono, ma se non fosse stato per la particolare congiuntura del momento oggi Orban non siederebbe alle riunioni del Consiglio Turco, il parlamento ungherese non inviterebbe sciamani dalla repubblica di Tuva a performare, e non ci sarebbe nessun Kurultai (un festival centro-asiatico, tra rievocazioni storiche e musica punk-rock) ogni anno in Ungheria.
Cosa ne pensi della situazione culturale italiana? Secondo te nel posizionamento del nostro Paese quanto l’opinione pubblica influenza le scelte politiche, specialmente a livello di politica internazionale?
Qua si va ben oltre le mie competenze e i miei interessi, giudizi sulla situazione culturale italiana non me la sento di darne.
Per quanto riguarda le relazioni internazionali, abbiamo una società che non è minimamente pronta ad uscire dal sogno post-guerra fredda. Questo purtroppo è trasversale a tutti gli schieramenti, atlantisti o meno che siano. Nessuno parla della necessità di riarmarsi, nessuno parla di costruire delle forze armate adeguate – europee o nazionali – o di deterrenza nucleare, e quando ne parlano – che è ancora peggio – le azioni che seguono sono inesistenti o inadeguate.
È un problema della società in generale, dove va per la maggiore l’idea che costruire una fregata significhi non costruire un ospedale, o che armarsi significhi essere guerrafondai o voler partecipare ad una guerra. C’è un’ostilità all’idea delle forze armate in quanto tali che – se può anche essere giustificata con il ruolo quasi eversivo che esse hanno avuto nella vita politica interna durante la guerra fredda – non ci aiuta di certo a rimanere nella storia. Il nostro è un caso particolarmente grave di un problema che esiste in tutti i paesi dell’UE che erano a ovest della cortina di ferro, meno la Francia.
Ma si ritorna al discorso di prima: viene da pensare che a livello governativo – quindi, americano – vada bene così. Se ci fosse la volontà geopolitica di riarmare una certa parte di Europa o di rendere l’UE una superpotenza, il problema dell’opinione pubblica sarebbe secondario.
Evidentemente non c’è.