La divulgazione non esiste

La divulgazione non esiste
Lettura boomer
Abitare un mondo discreto non lascia spazio per chi vive di assoluti. Non avete capito ciò che intendo? Fatevelo divulgare!

La divulgazione non esiste, è solo clickbait travestito

– Aristotele credo

Ultimamente la mia bolla algoritmica è invasa da post e reel che mi insegnano delle cose che non voglio imparare. Ero così soddisfatto dei video di gattini e i reel scrausi degli indiani che esplodono cose, ma Zuckerberg ha deciso che nella mia infosfera ci dev’essere anche spazio per l’apprendimento.

Che c’è di male nell’imparare qualcosa, direte voi.

Sciocchi.

Pensate di aver appreso qualche contenuto di filosofia dal Superuovo? Lafisicachecipiace ha droppato la formula che stavate cercando? Ingegneria.italia ha pubblicato un post che vi ha cambiato la vita? Non credo proprio.

Chiariamo: non c’è nulla di male nella divulgazione in sé, ma serve onestà intellettuale quando si sbarca in quella baracconata che sono i social.

Ci sono divulgatori e divulgatori, e gente come i curatori di Wikipedia mi ha salvato più volte il culo alle medie. Quindi bene così. Ma scambiare ogni contenuto vagamente informativo per divulgazione è sbagliato.

Ci sono i divulgatori buoni, primo tra tutti Alessandro Barbero.

Innanzitutto è un vetero-comunista, e questo fa sempre piacere: c’è un che di organico nel suo essere intellettuale, seppur con umiltà. Inoltre spiega in maniera chiara ciò che fa per mestiere. Si vede che lo appaga diffondere conoscenza di temi altrimenti trascurati, ma apprezzo soprattutto come sappia scegliere e insegnare nozioni di un quadro più grande.

Studiare la storia è bere un oceano e pisciarne una tazza

(cit. Fernand Braudel, credo)

Di Barbero apprezzo proprio che quando fa divulgazione sia perfettamente consapevole di produrre la tazza della tazza.

Fa una scia di molliche di pane che ti conduce nella trappola dello studio del Medioevo. Parla di Carlo Magno. Giovanna D’Arco perché sa che poi anche tu vorrai entrare in quel gioco più grande che è la storia.

Da lì il passo è breve:

Ci accolla una riflessione sulla contemporaneità come quando sfata le bufale medievali: la categoria di epoca oscura, lo ius primae noctis, etc. etc.

Tutto ciò presentato nel giro di lezioni da almeno quaranta minuti, che se non esauriscono un argomento sicuramente rompono quel quadro di pregiudizi che la gloriosa istruzione italiana ci ha insegnato.

E nel farlo riesce pure ad intrattenere, chapeau.

Ma Barbero non è un divulgatore, non da social.

Diverso è infatti quando le lezioni di Barbero sono tagliate e presentate in pillole per attirare l’engagement dei social. Lì la storia si riduce ad aneddotica. Nel pubblico non c’è più il desiderio di capire l’insieme a partire dalle parti, ma le singole parti divengono momenti emozionanti e pateticiparticolari direbbe qualcuno che hanno lo scopo di rimbalzare di profilo e profilo. La storia diventa una grande antologia da cui scegliere le parti più instagrammabili. 

Idem dicasi per la scienza.

Ricordo qualche anno fa di un programma su DMAX dove i video di YouTube erano commentati da fisici, chimici e ingegneri. Immagina sciropparsi cinque anni alla Caltech o ingegneria al MIT di Boston, per poi commentare l'ultimo deficiente che si è fatto saltare la casa e l'ha messo sul tubo.

Il mio sembrerebbe un inno al purismo nelle scienze dure e nelle scienze umane.

Non è così.

Capisco profondamente che cosa spinge a lanciarsi nella divulgazione. Penso che sia un’aspirazione politica repressa che si manifesta altrove.

Pensate a Platone, che voleva sviluppare una metafisica e una psicologia connessa alla teoria politica, per realizzare finalmente il miglior governo dei migliori. Non ce l’ha fatta:

tac!

Si inventa i miti e comincia a fermare la gente in piazza come il maestro Socrate. Aristotele, stoicamente, accetta di non poter cambiare il mondo e fa il precettore ad Alessandro Magno, dedicandosi a cose sempre più inaccessibili per il pubblico.

Prendiamola da una prospettiva genetica: come nasce l’homo divulgator?

Anni e anni spesi sui libri per entrare a far parte di un’élite intellettuale, quando poi usciti da una laurea sudatissima scopri che il tuo impatto decisionale sul futuro del paese vale quanto quello di un analfabeta, che crede che Elly Schlein sia di sinistra o Marco Rizzo non sia fascio. È frustrante. Ma il mondo funziona esattamente così.

Stacce.

A mio avviso il divulgatore non vuole starci, ed è comprensibile. Si appella alla ragionevolezza che presuppone – spera! – sia presente in ogni individuo e spiega. Inizia a spiegare e non si ferma più: ha accumulato conoscenza per anni e anni, gliene servono almeno altrettanti per restituire tutto quanto ha incamerato, senza contare le interpretazioni, i collegamenti, i nuovi percorsi che solo lui riesce ad intravedere.

Finalmente l’umanità sblocca l’oggetto infosfera e ogni uomo viene proiettato nelle bolle infodemiche degli altri. Ma ha a disposizione solo due secondi per catturare l’attenzione del social user, ormai ridotta alla concentrazione di un bambino dal gioco delle slot di reel e video demenziali. L’unica mossa possibile è banalizzare, ridurre, e infine presentare sottolineando soltanto gli aspetti insoliti, particolari e paradossali. Pura aneddotica.

Correda il tutto con immagini di repertorio, l’immancabile musichetta di tendenza per aumentare l’engagement e se ci scappa pure una ricostruzione in 3d.

Quando ero piccolo e guardavo la tv mi piacevano SuperQuark, Ulisse, Atlantide, Gaia, persino Voyager.

Se non altro lì c’erano dei professionisti che potevano impostare un discorso sensato da capo a fine, con tanto di convenevoli e siparietti. Adesso scorro verso l’alto un video di gente che cade malissimo e un tizio con gli occhiali mi urla lo sapevi che?...

Io scorro di nuovo perché NO, NON LO SAPEVO, E NON SARAI TU A FARMI SENTIRE IN COLPA INIZIALMENTE PER SFRUTTARE QUESTO MIO SENTIMENTO PER CREARTI ENGAGEMENT.

Se riesce effettivamente a bloccare il mio scorrimento automatico, cosa che non è scontata perché odio iniziare ad imparare sentendomi in colpa per la mia ignoranza.

Ma non è tutto: la divulgazione restituisce la libertà che in accademia è assolutamente negata. Non si tratta solo di parlare con il pubblico, ma anche di riprendersi quella libertà teorica ormai resa artritica e costretta dai giochini dell’università.

In un contesto di specialisti ed esperti del settore il rischio di dire qualcosa che sembri una banalizzazione è enorme. E la conoscenza cessa di essere un gioco creativo e divertente, per rinchiudersi in un meccanismo perverso di celodurismo dove chiunque deve rinfacciare all’altro di aver banalizzato ciò che invece lui riesce a dire con così fedele complessità.

Tutto ciò tralasciando le frustrazioni personali che provengono dai giochi di potere, dove le speranze di meritocrazia si piegano inevitabilmente alle anzianità dei docenti dinosauri, che giustamente si godono il merito di essere sopravvissuti alle epurazioni dell’età.

Sui social, gente come il decano del dipartimento vale meno dell’ultimo ricercatore appena arrivato, perché non sa parlare, non è affascinante, alla moda, trendy, comprensibile:

Relatable.

Non si pensi poi che fare divulgazione sia semplice:

Creare engagement comporta una serie di qualità che l’accademia non sa riconoscere né valorizzare, o che se vengono apprezzate devono sottostare ai tempi di gestazione geologici della burocrazia. Il nemico del rapporto tra università e mondo reale è la segreteria. Chi si immola per stare nell’università a fare ricerca finisce per costringersi ore ed ore ad una scrivania di una biblioteca, spesso per dare forma a cose che embrionalmente già sa.

La creatività, l’ingegno da bricoleur, le passioni e gli hobby hanno sempre meno tempo, per non parlare della vita sociale, che spesso si riduce alla cerchia di persone che condividono la tua materia.

L’individuo eclettico deve vivere sempre più compresso in uno spazio che non gli appartiene, amputandosi da solo per sopravvivere: senza ali non c’è la tentazione di volare.

La divulgazione permette di recuperare tutto questo: tra me e un mio collega, è palese che lui sia più bravo a fare ciò che facciamo, ma non sa in alcun modo renderlo comprensibile. Non sa comunicarlo a chi non sia già pronto a sentirlo.

E poi a parlare è una tale barba, gli interessano solo a lui quelle cose altrimenti così noiose. Per la divulgazione è esattamente il contrario: non sai una cosa finché non la sai spiegare in modo banale, per cui la scala di valore si inverte. Se l’ultimo arrivato ha capacità attoriali, performatività teatrale, qualche skill varia di editing e social media management si vola, sorpasserà di brutto il miglior studioso di quella roba.

Anzi, c’è pure la possibilità che un ordinario rimanga completamente inascoltato dal grande pubblico mentre un giovane smanettone crea un canale da milioni di contatti senza un briciolo di laurea.

La regolazione del percorso degli insegnanti attraverso titoli e conferenze e onoreficenze e gavetta e leccaculismo decennale e giri all’estero a seguire convegni idioti creati per fare massa nel curriculum è completamente annichilita nella giungla della rete.

Il circo dei social non fa che restituire all’uomo la sua benedetta ingenuità.

Ogni vecchio pedante che accusi un divulgatore di banalizzazione deve fare un passo indietro perché stava provando a rendere comprensibile una cosa altrimenti troppo complessa per un pubblico generalista.

Tutto ciò è meraviglioso, diciamolo, specialmente quando atterra sui piccoli schermi degli smartphone. Mi gasa chiudere il telefono consapevole di sapere una cosa in più: la mia pausa non è stata tutta riposo, ho imparato una cosa rendendo anche il tempo della pausa efficiente.

Da una parte il divulgatore ha bisogno di rendersi comprensibile perché ne ha bisogno, perché è appagante restituire in termini ingenui ciò che si è appreso seguendo la rigorosa – et pallosa – terminologia scientifica.

Dall’altra parte il divulgato sta sui social e perde tempo, ma se impara non si sente in colpa. Va tutto bene, siamo tutti felici in questo meccanismo di sopportazione dell’iper produttività consumista. 

Il consumismo ci impone di non fermarci mai, l’industriosità ci fa sentire in colpa quando non studiamo, per cui la divulgazione è il palliativo allo studio:

Non studio travestito da studio.

Ne risulta che non esiste divulgazione per amor del popolo, o per amor della conoscenza.

È tutto un gioco di egoismi particolari, che in sé non sono malvagi, ma non vanno scambiati per filantropia delle intellighenzie.

Un gioco dove i giocatori sono gli algoritmi, in cui a vincere è la mentalità dell’iperlavoratore, che ti fa sentire in colpa se non hai preso la tua pillolina di divulgazione. Una volta aprivo il mio telefono per cazzeggiare, oggi mi sento così tanto in colpa che al primo boomer che mi potrebbe dire la smetti di perdere tempo con quel coso? devo già preparare la contromossa: sto imparando, vecchio.

Chi sa fa; chi non sa insegna; chi non sa insegnare divulga.

– Alessandro Barbero
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