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Ranpo, Joe Vanny e Anonimo mi hanno abbandonato.
Non hanno voluto partecipare all’impresa perché era troppo rischiosa. Introdurmi nella casupola di Piazzale Libia 12, a Milano, dove Giampiero Neri aveva vissuto l’ultima parte della sua vita.
È notte. Il portone è troppo possente per essere vinto. Forzo la finestra che dà su via Contardo Ferrini.
Era la finestra da cui filtravano i raggi di sole che illuminavano il salotto di Neri, che tingevano di luce chiara gli occhi da bambino del maestro.
La finestra cede. Entro. Riconosco facilmente il luogo e mi oriento.
Mi aiuta una luce chiara di luna, come un leggero faro che mi indica il porto, la destinazione. Sto cercando di riprendermi quel volume di Flannery O’ Connor che regalammo al maestro.
In quei giorni non poteva uscire, così mi offrii io di andare a comprargli il libro e portarglielo a casa. Persi il treno ma ne valse la pena.
Ne era felice.
Lesse alcuni racconti della O’ Connor. Brullo diceva che lei era brutale. Giampiero voleva smentirlo: per lui nella vita c’era sempre qualcosa di bello.
Non trovo quel dannato libro da nessuna parte.
Ribalto tutti i libri rimasti sulla scrivania. Scuoto i cuscini. Inverto il verso dei quadri. Il ritratto del maestro fissa il muro, adesso. Gli scarponi disegnati non toccano terra. Appesi come le scarpe della leva calcistica di De Gregori. Giampiero aveva appeso le scarpe al chiodo – scarpe da montagna, da camminatore – perché dov’è andato si accettano solo i piedi nudi, malgrado la lunga marcia.
Non trovo quel dannato libro da nessuna parte. Ci sono i suoi libri, la sua plaquette con in copertina una sua foto in cui aveva uno sguardo severo. Il libro non c’è.
22 Si riflette sulla sconfitta, non sulla vittoria. Si cercano i perché della sconfitta e si finisce per ritenerla inevitabile. Sulla vittoria invece si festeggia. (Via provinciale, parte prima)
Girano le chiavi. Entra qualcuno, si vede una luce di pianerottolo. Ma è notte? Chi sarà? Acchiappo qualcosa al volo.
La luna indica un volumetto esile e solido, compatto. Lo acciuffo, mi accovaccio. Al momento proprizio un balzo di tigre – e sono fuori. Il libricino è con me. Non è quello che cercavo, ma ho preso qualcosa.
Aveva un debito con me. Io gli avevo regalato il mio libro, e lui mi aveva donato la sua antologia personale edita Garzanti, con una dedica affettuosa (il luogo della dedica non era Milano, ma Piazza Libia, il suo microcosmo); lui mi regalò la sua plaquette, io le cartoline con i mosaici e gli affreschi del Duomo di Cremona; infine, gli portai la raccolta dei racconti della O’ Connor, “Punto Omega” –
Aveva spezzato la catena dei doni materiali, e la cosa non era accettabile.
Anche i doni materiali di Giampiero erano impartizione di umiltà, onestà, verità. Dimostrazioni di amicizia più sincere di quante ne avessi mai ricevute. Mi commosse quando, una volta, non potendo andarlo a trovare, Giampiero chiese di me a Ranpo.
Mi disse: “Ti cerca”. Dovevamo bruciare tutto. Andare a fare il mondo bello. Io sono un ciarlatano, però. Lui, invece, era il poeta autentico – in bilico tra il profeta e l’uomo di campagna.
Semplice, limpido. Aveva lavorato tutta la vita e ogni giorno di quel triste lavoro in banca era occasione di un’indagine del reale.
“Se non ci si fida dei poveri, di chi ci si può fidare?” gli avevano detto, una volta, per convincerlo a concedere un prestito.
Ho conosciuto poche persone così umane. Noi non siamo umani, per questo fu (è) il nostro maestro, perché è ciò che vorremmo essere. Dismettere le fiamme degli occhi e tornare allo sguardo di un anziano neonato, con gli occhi pieni di vita.
Apro il libricino a caso, ma è così sottile che la pagina su cui capito è anche l’ultima poesia della raccolta. Apre e chiude la parte terza del libro, suggella il discorso poetico nella sua elementare semplicità – e, come sempre, apre un abisso.
La serata di poesia era ormai alla fine, avevo già guardato l’orologio. Come ogni volta, provavo un senso di inutilità e insieme di inadeguatezza. «Sono uno sconfitto» avevo detto rivolto al pubblico, dopo la lettura, ma non avrei saputo dire perché. Avevo proseguito con una riflessione sulla sconfitta. Adesso era il momento dei saluti e delle strette di mano. Avrei chiesto a un amico com’era andata la serata, sapendo già la risposta. Si era invece presentato un poeta, mio implacabile detrattore. «Grazie», mi aveva detto. Io avevo ripetuto la mia perplessità su quegli incontri, ma lui ne lodava invece l’utilità. (Via provinciale, parte terza)
La via provinciale è il nostro indirizzo di casa. La via provinciale è il nostro schema d’attacco, la nostra collocazione umana. Provinciali perché non possiamo essere nient’altro che amare le persone gentili, vere.
Ero ancora sotto la finestra. Buttai uno sguardo in casa, arrampicandomi. La porta era chiusa, la casa buia, il riflesso della luna illuminava la sua seggiola.
*
1 Che la seconda parte della vita sia occupata a contraddire la prima è di comune esperienza, per quanto spiacevole. Si salva poco di quello che avevamo pensato, forse niente. Cosa rimane allora del tempo passato? Si dice di un maestro zen che, prossimo a morire, aveva invitato i discepoli nel suo giardino e rivolto a loro, sentendo gli uccelli cinguettare sui rami, aveva detto: «È tutto questo e nient’altro». (Via provinciale, parte prima)