Latino Lingua Inutile

Latino Lingua Inutile
Lettura boomer
Latino, lingua del cazzo inutile, serve a qualcosa studiarla? Noi pensiamo di no, almeno non per obbligo.

Così ha esordito la docente di latino 1 quando una mattina si era svegliata con la voglia di divertirci (o di divertirsi). Quando era anche lei studentessa, alla domanda sincera di uno studente il suo professore aveva risposto così:

“A cosa serve il latino? A niente!”

A niente. Per uno studente universitario che è alle prese con il secondo esame di latino, per chi si appresta a chiudere il lungo capitolo del liceo classico e vede avvicinarsi la seconda prova, per chi si è trovato un bel debito in pagella, lindo e pinto che, mostrando il canino fuori posto del prof., sussurra minacciosamente “ti aspetto a settembre”, a tutte queste categorie la risposta potrebbe, lo riconosco, suscitare giusto un pizzico di frustrazione. Eppure, a pensarci bene è un messaggio che può donare al contrario estrema serenità.

Ma prima di rispondere alla domanda è interessante anche il perché viene posta: beh perché come tutti sanno il latino è una lingua morta. Lingue di fuoco, uomini neri che ti hanno risparmiato quando da bambino hai lasciato il minestrone nel piatto, ma oggi no, la minaccia della fine del mondo…

Non si dica che il latino è una lingua morta, per carità!

Sinceramente le risposte di professori e professoresse di latino a questa semplice domanda mi sono sempre sembrate un’arrampicata sugli specchi fenomenale: se dovessimo considerare vive tutte le lingue che hanno fornito il substrato, la grammatica, il lessico o quel che sia all’italiano, allora dovremmo considerare vivo anche il sanscrito. Non c’è nulla di male nello studiare una lingua morta, è sempre una lingua e come tutte le lingue può far ragionare in maniera diversa se uno ci entra dentro; ma non è questo che punta a fare la scuola e dunque una scelleratezza tale non può essere pronunciata da un esimio professore di cattedra.

Torniamo ora alla risposta spiazzante: il latino non serve a niente. In una società in cui tutto deve avere un’utilità, costituire un mezzo per rientrare nella grande cerchia di chi ha avuto successo (alla quale però sembra davvero difficile accedere se non hai i soldi – spesso unico vero mezzo), non servire assolutamente a niente è un atto rivoluzionario; e non in un’ottica parnassiana di “l’art pour l’art” (o forse sarebbe più adatto dire ars gratia artis), bensì di un semplice e puro divertissement . Forse proprio puro ed essenziale no. Succede a volte anche al più “somaro” (secondo i canoni dell’istituzione scolastica, s’intende) di provare la sensazione forte di aver davvero capito per una volta nella vita qualcosa; la sensazione è altrettanto rara per un “secchione”, e forse anzi ancor di più, incanalato com’è nella logica che deve assorbire tutto e semplicemente ricordarlo fino al giorno dell’interrogazione per prendere il 9 che tanto lo appaga.

Quando si prova una sensazione simile ci si rende conto, presto o tardi, che essa è indelebile e che non svanirà tanto facilmente quanto fanno le nozioni. Saremo sempre in grado di dire “Petronio mi stava tanto simpatico” oppure “Cicerone aveva una grande testa ma sapeva essere tedioso quando si impuntava” o ancora “che palle Girolamo oh!”.

Poi magari non ci ricordiamo se Petronio abbia scritto il Pro Archia o il Satyricon, ma cosa importa? Queste sono cose che si possono sempre rispolverare.

Mentre ci ricorderemo senz’altro quel collegamento interdisciplinare che miracolosamente (è proprio il caso di dire miracolosamente dato che la scuola e l’università non ci educano a questo tipo di ragionamenti salvo pretenderli poi all’esame di stato), che miracolosamente è passato tra le sinapsi, ci ricorderemo senz’altro se al tempo in cui leggevamo Virgilio ascoltavamo anche Rancore che il vate ha scritto “voi fate il miele, oh api, ma sono altri che ne godono”, con un evidente attacco all’alienazione, almeno per noi. Del resto anche un grande, grandissimo della critica letteraria come Roland Barthes rimetteva al lettore la verità del testo, ben al di sopra di quella autoriale e mai univoca.

Sempre Barthes scriveva nel suo saggio dal titolo eloquente Le plaisir du texte:

“La scrittura è questo: la scienza dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra (e di questa scienza c’è un solo trattato: la scrittura stessa)…”;

e poi in un’intervista rilasciata a Filippini afferma:

“per quanto riguarda la libertà della letteratura, la letteratura non è più sostenuta da immagini positive nella società. E lo scrittore non è più un valore. Per esempio: i suoi libri non si vendono. […] Sartre è stato una cerniera: tra lo scrittore e ciò che è venuto dopo, il polemista. Il fatto stesso che si parli di me come di uno scrittore, significa che la società francese ha bisogno di scrittori, ma non li sa o non li può produrre e non li sa riconoscere”.

E se un uomo famelico di conoscenza e che oltretutto ha avuto successo come Barthes rivendica il semplice e puro piacere della lettura, chi sono io per smentirlo? In fondo anche i pomeriggi passati a giocare a scopa col nonno non mi sono serviti a molto se non a divertirmi e a capire che la fortuna che mi baciava da piccola ora deve avere le labbra impegnate a sorseggiare un margarita alle Cinque Terre (o che mio nonno lasciava spesso vincere la sua cara nipotina).

Tornando al latino: studium è passione, non sacrificio o sofferenza o addirittura umiliazione (quella piace tanto a Valditara) e se il latino venisse eliminato dal sistema scolastico forse sarebbe meglio, forse ci sarebbero più lettori di Petronio, di Virgilio, di Cicerone, forse persino del dizionario IL a 45euro al kilo, dei padri della Chiesa no, quelli mi auguro che non piacciano a nessuno (si scherza).

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