Se sei italiano, pallonaro (le due cose spesso coincidono) e opposto a questo mondo, devi tifare Lazio. Attenzione, non Bologna o St. Pauli, ci mancherebbe, quelli li lasciamo alle brigate arcobaleno. E nemmeno Livorno, anche se già va meglio, perché la sintesi è sempre necessaria. Eppure non loro, ma la Lazio. Perché? Semplice.
La Lazio è baluardo contro la modernità. La Lazio, parlando in termini biblici, è un katéchon, una forza o un’entità che “trattiene” il mondo con le sue ultime forze prima dell’avvento dell’Anticristo. Secondo alcuni lo è stato l’Impero Romano, secondo altri i Giudei contro Caligola, secondo altri ancora oggi lo è la Santa Madre Russia contro il relativismo occidentale. Senza scomodare queste grandi entità storiche ed uscendo dall’ambito religioso, io dico che la Lazio è il katéchon del calcio.
Ma rubo le parole ad un grande laziale che può spiegare il concetto meglio di me:
“Noi non siamo melting pot, siamo identità. Noi non siamo relativismo, siamo assoluto”.
Il laziale per definizione non deve piacere alla massa e ai telegiornali, così come il Presidente della Russia non deve piacere agli occidentali. Altrimenti c’è qualcosa di strano, c’è un usurpatore che non sta rispettando l’identità profonda della carica che gli è stata affidata. E questo lo sa anche la società S.S. Lazio che, al di là dei comunicati con cui si dichiara contro ogni forma di razzismo, in realtà strizza l’occhio alle frange più estreme della sua tifoseria.
Lo dimostrano le maniere rigide e romane di Lotito, la sua pomposità, Lotito che è guarda caso poco gradito dalla comunità dei tifosi italiani, ma che ha il pregio, quantomeno, di non nascondersi e di dimostrare apertamente a tutti cosa è il sistema calcio. Penso, ad esempio, a quando fu intercettato dicendo che Carpi e Frosinone in A non si potevano vedere. Il patron biancoceleste non fece nulla per ritrattare o smentire. Non dimentichiamo poi mister Sarri, e l’accoppiata Sarri – Lazio è un buon esempio della sintesi di cui ho accennato prima.
Lo dimostrano anche gli slogan sulla pagina instagram ufficiale. Lo dimostra l’aver introdotto l’usanza di cantare “My way” di Frank Sinatra prima delle partite in casa, con il lazialissimo Briga che scandisce le parole di un coro storico della Curva Nord arrangiato sul ritmo della celebre canzone, un coro decisamente non corretto (“lo sai, dicono che, l’amor per te, mi fa teppista…”). Lo dimostra postare, per la presentazione di Bologna Lazio, un’immagine di Lazzari che alza ambiguamente il braccio destro (Lazzari cosa fai con quel braccio?).
Che poi, nella tifoseria laziale, non ci sono frange estreme. Essa è un monolite. In tutti i settori, non solo in curva, lo stile e la mentalità sono le stesse. Sono tutti ultras, in un certo senso. Tutti coi loro blue jeans e giacchetta nera. Non esistono club di laziali moderati o almeno io non ne conosco. La Tribuna Tevere è solo una seconda giovinezza, “sole, whisky e sei in pole position”, come recita un loro recentissimo striscione.
Pure Di Battista quando va allo stadio posta delle foto in Distinti Nord con a fianco uno che potrebbe benissimo stare negli Irriducibili e che ha pure la loro sciarpa. Irriducibili, ex gruppo ultras laziale, che sono stati un vero e proprio spauracchio dell’opinione pubblica con i loro scontri, striscioni e adesivi antisemiti (ricorderete quello di Anna Frank): è a causa loro che il tuo amico dice che la Lazio gli sta sul culo perché sono tutti fascisti.
Ma andiamo un po’ più indietro nel tempo: pensiamo alla Lazio dello scudetto del 1974. Una squadra di folli che giravano armati.
“…la Lazio che con Chinaglia e la sua banda di pazzi scatenati dimostrò che si poteva vincere anche facendosi beffe della logica e della razionalità”
Logica e razionalità che sono alla base di questa modernità occidentale. Comunque, torniamo a noi: cosa faceva la Lazio del 1974? Innanzitutto, in spogliatoio si detestavano, anche se poi, la domenica, erano una macchina da guerra con un solo motore. E poi giravano armati: uno di loro sparò alla lampadina della cabina sul treno che portava in trasferta, per spegnerla senza alzarsi dal letto. Si esercitavano improvvisando un poligono di tiro dopo gli allenamenti. Qualche nome? Giorgio Chinaglia (“è il grido di battaglia!”), che sarebbe poi stato sostenitore di un tentativo di scalata ostile da parte degli Irriducibili per acquisire la società S.S. Lazio. Ma anche Luciano Re Cecconi, Giuseppe Wilson.
La storia della Lazio è anche sublimata dal sangue, da Vincenzo Paparelli a Gabriele Sandri a Re Cecconi. Tutti morti in circostanze tragiche, Paparelli colpito in testa da un razzo di segnalazione partito dalla Sud romanista prima di un derby nel 1979, Sandri ucciso da un colpo di pistola sparato da un’agente di polizia sull’A1, nel 2007, e da quel momento martire del movimento ultras. Re Cecconi caduto per colpi di arma da fuoco in circostanze oscure: finse una rapina da un gioielliere, suo conoscente, ma gli spararono per davvero. Senza dimenticare il compianto Tommaso Maestrelli, allenatore della Lazio scudettata, scomparso per un tumore solo due anni dopo il trionfo. Anche Chinaglia non c’è più, se n’è andato nel 2012 a 65 anni, in seguito a un infarto. Dunque, questa è anche una storia di sofferenza, come tutte le migliori storie.
Lo spirito del tempo è fortissimo e prima o poi spazzerà via anche tutto questo. Ma finchè il popolo laziale ci sarà, ci sarà la Lazio, e si può dire che ci sarà qualcosa di vecchio, tradizionale, retrogrado. E indignerà qualcuno. E si farà sentire, intonando dalla Nord: