Oggi, attraverso un complesso viaggio diacronico e diatopico, ci occuperemo di avanguardie, cioè dell’arte più autentica, quella che sorge spontaneamente dall’osservazione della realtà. In bocca a un balbuziente che d’un tratto arcane parole declama:
«Chi si ferma è perduto, mille anni ogni minuto».
Davanti alla corte d’assise, quando si è imputati di sedici omicidi. Dalle mani del pazzo Laccabue, venuto dalla Svizzera, o da quelle di un anonimo imbianchino di Vienna.
Il nostro viaggio ha inizio ad Aix-en-Provence, presso una famiglia benestante. Paolo Cesena (per gli amici Cézanne [no, non era parente di Marcello Cesena, ndr]) nasce nel 1839, figlio di un banchiere che gli può pagare gli studi senza preoccupazioni. Costretto dal padre, Cézanne si iscrive alla facoltà di legge, ma ciò che lo guida è la pittura e, imperterrito, anziché studiare, dipinge. Escluso dagli impressionisti per via del suo provincialismo e dei suoi modi burberi, Cézanne torna a casa, dove il padre gli trova un’occupazione nella sua banca. Cézanne continua a dipingere e nel 1862 si reca di nuovo a Parigi, dove l’anno seguente visita con Emilio Zola, suo grande amico, il Salone dei Rifiutati. Il suo mito è Eugenio Delacroix, ammirato per la forza del colore e per l’intensità del disegno e del resto caro a tutti gli artisti della seconda metà del lungo secolo. Tuttavia, il Salone continua a rifiutare i suoi lavori, mentre la stampa li giudica ridicoli.
Cézanne avverte la necessità di creare attraverso giochi prospettici e rapporti volumetrici tra gli oggetti una poetica che proponga una costruzione per molteplici punti di vista. Tra il 1890 e il 1896 egli dà una sensazionale prova di descrizione di un interno con personaggi all’interno di una griglia prospettica arbitraria prima attraverso I giocatori di carte, realizzato in ben cinque versioni diverse, e poi soprattutto attraverso il celeberrimo Il santo bevitore.
Se già nella prima opera Cézanne aveva ridotto progressivamente il numero dei personaggi e dei particolari, è qui che egli giunge al massimo grado di semplificazione. L’opera, caratterizzata da un forte senso di claustrofobia provocato dalla distanza ridotta tra la finestra sullo sfondo e l’azione che sta avvenendo in primo piano in uomo nell’atto di alzare il gomito per bere un bicchiere di vino da un tavolo che a malapena riesce a contenere il gomito stesso e la bottiglia. La sua espressione è fredda, distante ed eternamente congelata. Il senso di perdita di proporzione è trasmesso soprattutto dal braccio sinistro, che si estende oltre il limite imposto dalla cornice.
Nel nuovo secolo, la ricerca di Cézanne compie un ulteriore salto di qualità, spostandosi verso l’astrazione, come ben evidenziato dalla Natura morta con gamberi. Essa sembra l’esito di una distribuzione casuale, ma in realtà è il risultato di un lungo studio in cui i diversi punti di osservazione deformano la prospettiva geometrica tradizionale. I gamberi si addensano al centro e sembrano obbedire a leggi fisiche proprie. L’equilibrio è precario, al punto che i gamberi sembrano essere destinati ad andare a sbattere l’uno contro l’altro.
L’opera è una rapsodia di macchie variamente dosate, che s’inseguono, si affrontano, si sfidano, si mescolano. Un mosaico che èuna sinestesia che permette di discernere il mare.
Il mare nostro.
Nel 1907, alla morte di Cézanne, si apre una monumentale retrospettiva presso il Salone d’Autunno, nella quale confluiscono tutti i più talentuosi artisti del nuovo secolo, che diventeranno suoi eredi. È qui che nasce la parola avanguardia. È qui che la Natura morta con gamberi viene venduta al prezzo di 95.000 lire a un diciannovenne italiano.
Si chiama Giuseppe Maria Alberto Giorgio De Chirico.
Ma lasciamolo lì Giorgio De Chirico e spostiamoci a Le Cateau, dove nel 1869 è nato Enrico Matisse. Inizialmente, lo stile di Matisse è influenzato dall’Impressionismo, da Cézanne, da van Gogh e da Gauguin e in un secondo tempo dall’esperienza divisionista di Seurat e Signac. In Lusso, calma e voluttà, del 1904, Matisse si serve di una tavolozza dai toni chiari e della tecnica puntinista.
L’opera, esposta al Salone degli Indipendenti l’anno successivo, viene acquistata da Signac, che, per più di quarant’anni, la custodisce gelosamente nella sala da pranzo della sua casa di Saint-Tropez.
Nel frattempo, però, la pittura di Matisse cambia radicalmente, abbandonando i retaggi postimpressionisti per superare le critiche mosse all’opera (si dice che la griglia compositiva impedisce una libera espressione del colore)
Nello stesso anno partecipa al Salone d’Autunno con Marquet, Derain e Di Vlaminck, esponendo nove opere.Sono i pittori che diveranno famosi accettandol’epiteto dispregiativo Fauves.
Ma lasciamoli lì. Non è di loro che ci dobbiamo occupare, ma di un’opera del 1907 che preannuncia i futuri sviluppi della pittura di Matisse: Natura morta con pomi dorati.
Con quest’opera, Matisse torna parzialmente al suo maestro Cézanne, recuperandone la tecnica della natura morta. Apparentemente di grande freschezza e spontaneità, essa in realtà è frutto di uno studio attento e calibrato. Le forme geometriche rimandano immediatamente al primo Cézanne, quello di Zuccheriera, bricco e piatto di frutta (1890-1892) e Cesta con mele, bottiglia, biscotti e frutta (1890-1894). A differenza di Cézanne, però, Matisse sceglie di allontanare una mela rispetto alle altre. Inoltre, la forma della mela risulta quasi incomprensibile, inverosimile sia nelle forme, delineate da un tratto fluido ed essenziale, sia nei colori accesi che non obbediscono alla realtà, popolando lo sfondo di oscure nubi, pallidi soli e azzurre serenità al tempo stesso. Anzi, non si capisce dove finisca il prato, caratterizzato da antinaturalistiche sfumature violacee, rosse, rosa e azzurrognole, e dove inizi il cielo, dove sia ambientata la scena e in quale ora della giornata. In effetti, la costruzione prospettica e la conseguente illusione di profondità sono del tutto assenti nell’opera.
Ma lasciamolo lì Matisse.
È con Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964) che la natura morta acquisisce una nuova identità.
Nel 1918 Morandi aderisce alla Metafisica, movimento formatosi ufficialmente l’anno precedente a Ferrara a opera dei due fratelli De Chirico e di Carlo Carrà, ma frutto di una sperimentazione decennale da parte di Giorgio De Chirico. Tale movimento si caratterizza per la volontà di andare oltre le cose fisiche, rappresentando oggetti comuni al di fuori del loro contesto abituale o calando situazioni in luoghi inanimati che sembrano in attesa di un evento che non riesce a manifestarsi. Esso reintroduce nelle tele una pittura tradizionale, uno spazio ordinato secondo i principi di una prospettiva rigida e schematica, all’interno del quale si collocano figure dalla solida volumetria, individuate da contorni netti e campite da colori tersi e omogenei. L’atto rivoluzionario consiste nel provocare una sensazione di profondo turbamento, un senso di presagio fortemente destabilizzante, anche se il suo intento principale è quello di rifarsi alla tradizione italiana del Trecento e del Quattrocento. Morandi viaggia pochissimo, ma si mantiene in contatto con le maggiori correnti artistiche e letterarie del tempo. I paesaggi, le bagnanti e soprattutto le nature morte del primo Novecento sono ispirati a Cézanne, scoperto da Morandi in un volume sugli impressionisti del 1908 curato dal critico Vittorio Pica.
Morandi organizza i suoi dipinti secondo precise relazioni spaziali, cromatiche e tonali, non dissimilmente da quanto sta accadendo in Francia con il Cubismo. Inoltre, decisiva fu l’osservazione delle grandi opere del Trecento e del Quattrocento, da Giotto a Piero della Francesca, durante un viaggio a Firenze nel 1910. Un percorso del tutto personale che si interrompe dopo soli due anni: Morandi stesso alla fine della propria carriera minimizza il valore degli esperimenti metafisici, considerati dai critici raggelati da un ragionamento matematico, anche se non del tutto privi di lirismo. Questa seconda fase, avviata in seguito a un più generale ‘ritorno all’ordine’ tipico degli anni Venti, trova un esempio nell’opera Natura morta ravvivata da un tramonto, nella quale ogni oggetto ritrova la sua giusta collocazione e i colori sono insolitamente accesi.
Per affrontare la Metafisica, invece, occorre tornare a Giorgio De Chirico. Nato nel 1888 a Volos, in Tessaglia, da genitori italiani, nel 1899 De Chirico si trasferisce con la famiglia ad Atene, dove inizia a studiare disegno. Alla morte del padre, nel 1906 si trasferisce con la madre e con il fratello Andrea (meglio noto come Alberto Savinio) a Monaco, vero e proprio crogiuolo delle correnti artistiche più innovative dell’arte e della cultura europea, e vi soggiorna fino al 1909. Qui frequenta l’Accademia di Belle Arti e si esercita nello studio dell’antichità classica, mentre il fratello si dedica alla musica. Egli si ispira ai simbolisti Arnaldo Böcklin e soprattutto Massimo Klinger, che riuniva «spesso in una stessa composizione scene di vita contemporanea e visioni antiche, ottenendo così una realtà di sogno altamente impressionante».
Dal punto di vista concettuale, egli si ispira ad Arturo Schopenhauer e a Federico Nietzsche. In particolare, il primo ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) esortava a superare il velo delle apparenze e ad attingere al significato metafisico dell’esistenza attraverso una forma di straniamento dalla realtà. Del secondo, invece, lo affascinavano l’impossibilità di ricercare un principio oggettivo in grado di spiegare l’esistente, la conseguente constatazione di interpretare la verità come un enigma e il nostalgico richiamo all’antica Grecia, non ancora intaccata dalle costruzioni culturali create dall’uomo per interpretare la realtà.
De Chirico sceglie di inseguire l’enigma, di sondare il mistero che si cela dietro ai fenomeni. Cardine di tale operazione è la memoria, che non è più semplice rievocazione del passato, ma argine che il genio contrappone alla frammentazione della realtà. Egli ricerca un’immortalità fuori dal tempo superando la transitorietà delle apparenze per intuirne il reale significato, che può essere rappresentato solo dall’immediatezza del genio. Una forma di misticismo poetico aliena da ogni radicalismo teorico.
Nel 1912 De Chirico compie un fondamentale viaggio a Torino, che ammira per le eleganti piazze dai grandi portici, per le monumentali statue equestri e per le atmosfere sospese e rarefatte. Scrive De Chirico:
«È stata Torino a ispirarmi tutta la serie di quadri che ho dipinto dal 1912 al 1915. Confesso, in verità, che essi devono molto anche a Federico Nietzsche, di cui ero allora un appassionato lettore. […] A Torino tutto è apparizione. Si sbocca in una piazza e ci si trova di fronte a un uomo di pietra che ci guarda come solo le statue sanno guardare.»
Tra giugno e luglio 1915 lui e il fratello si arruolano come volontari e vengono assegnati al ventisettesimo reggimento, di stanza a Ferrara. Date le cattive condizioni di salute, i due fratelli ricevono un incarico ausiliare come scritturali e prendono alloggio con la madre. Ricorderà De Chirico:
«Alla visita medica militare, il medico responsabile mi diede sei mesi di vita. Finita la guerra, lo chiamai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui»
A Ferrara stringe amicizia col futurista Carlo Carrà, col quale viene ricoverato nello stesso neurocomio a causa di una neurastenia. I due dipingono insieme, si conoscono meglio e si influenzano reciprocamente.
Nel 1917 Carrà organizza a Milano la prima esposizione metafisica suscitando le invidie dell’amico e nel 1919 pubblica il libro Pittura metafisica. Nell’inverno 1918, con la fine del sodalizio ferrarese, l’esperienza metafisica può dirsi conclusa. Trasferitosi a Roma, De Chirico diventa assiduo frequentatore dei musei romani, copia celebri dipinti del passato e intensifica l’attività di scrittura teorica collaborando con le riviste La Ronda e soprattutto Valori Plastici, che si fa portavoce del già citato ‘ritorno all’ordine’. Ciascun membro del gruppo inizia a lavorare autonomamente, con una generale tendenza a un tradizionalismo sempre più spiccato. In particolare, De Chirico si scaglia violentemente contro le avanguardie francesi:
«Ma sono del mestiere questi? Tornino al mestiere! Non sarà facile, ci vorrà tempo e fatica. Mancano le scuole e i maestri, o piuttosto ci sono ma inquinate dalle baldorie coloristiche che da mezzo secolo infieriscono sull’Europa».
Egli ripiega su sé stesso coi famosi autoritratti, e poi torna alla Grecia, al mare. Al suo mare. Alla spiaggia.
Alla sua spiaggia.
In particolare, in Spiaggia solitaria abbiamo un ritorno a un delicato realismo, una rappresentazione cum figuris dello Spirito attraverso colori orgogliosamente sobri.
Allo stesso tempo, però, si mantiene una componente metafisica, evidenziata dall’ingresso nel deserto del senza tempo, dove si osservano soltanto la libertà dei gabbiani, lo spazio e basta.
Nessuna sovrastruttura ideologica, nessuna superfetazione, nessun aspetto ulteriore nella grandezza della rappresentazione.
Si ringraziano gli autori del volume Art. Dall’Ottocento a oggi O. Calabrese, V. Giudici e A. Diprè, dai quali abbiamo tratto ampiamente ispirazione per questa breve rassegna.