Nostalgia. Il dolore del ritorno. Il sentimento più tipicamente italiano.
Abbiamo fondato un impero sulla Nostalgia. Nostalgia dell’Impero Romano, del comunitarismo medievale, del Carroccio, del Futurismo, di San Sepolcro, del Sol dell’Avvenire, del Sole delle Alpi… La nostalgia pervade la più alta manifestazione di italianità, ovvero la canzone leggera.
L’Amore, protagonista assoluto del Festival di Sanremo dal ’48 a oggi, non è mai euforico, entusiastico, vitalistico, totale. È un amore sofferto, mancato, disperatamente cercato, agognato, inseguito, rinnegato.
È un amore che trasuda malinconia da tutti i pori, è un amore leopardianamente nostalgico dei giorni lieti della gioventù. Né mancano momenti in cui la Nostalgia stessa è protagonista, e non solo comprimario.
Non me ne vogliano Checco Zalone, Al Bano e Romina, ma non è di Nostalgia canaglia
che voglio parlare. Non me ne vogliano i Cugini di Campagna, ma non è neppure di Lettera 22
che voglio parlare. E neppure del conservatorismo rurale del Celentano del Ragazzo della via Gluck
: era molto più avanti la risposta di Gaber, che previde il gretinismo dei nostri tempi.
Voglio parlare invece di Montagne verdi, la canzone nostalgica per eccellenza, con la quale l’esordiente Marcella – all’anagrafe Giuseppa Marcella – si presentò nel 1972 al XXII Festival della canzone italiana.
Il festival è presentato da Mike Bongiorno, Paolo Villaggio e Sylva Koscina e sarà vinto da Nicola Di Bari con I giorni dell’arcobaleno.
Tra i partecipanti, Nada con Il re di denari (seconda), Gianni Morandi al suo debutto con Vado a lavorare (quarto, canzone brutta), i Delirium con Jesahel (sesti), Lucio Dalla con Piazza grande (ottavo), Gigliola Cinquetti con Gira l’amore (caro bebè) (nona), i Ricchi e Poveri con Un diadema di ciliegie (undicesimi), Milva con Mediterraneo (dodicesima), Domenico Modugno con Un calcio alla città (tredicesimo).
Tra i non finalisti, Rita Pavone con Amici mai, Pino Donaggio con Ci sono giorni, Carla Bissi (la futura Alice) con Il mio cuore se ne va, Fausto Leali con L’uomo e il cane, Bobby Solo con Rimpianto.
Tra gli esclusi, Claudio Villa, Tony Renis, Mia Martini, Mino Reitano con Stasera non si ride e non si balla, Orietta Berti, i Camaleonti, Ron con Storia di due amici, Tony Dallara con Che finimondo sei, i Dik Dik, i Giganti, Peppino Di Capri, Franco Franchi con L’ultimo dei belli, Luciano Tajoli, Johnny Dorelli e i Jal… Ah, no.
Questo per immergervi nel clima di quegli anni.
L’edizione è costellata dalle polemiche a causa della riduzione del numero di cantanti, Nicola Di Bari è costretto a censurare in parte il testo della sua canzone che parla della prima volta di un’adolescente e Anna Identici, accompagnata alla chitarra da un allora sconosciuto Alberto Camerini, porta un brano impegnato che parla di un giovane operaio morto sul posto di lavoro (Era bello il mio ragazzo). Potremmo trascorrere intere giornate a riflettere su cosa spinse le giurie a relegare Piazza grande all’ottavo posto, ma non è questo il momento.
«Erano i giorni dell’arcobaleno, finito l’inverno tornava il sereno»
Nicola Di Bari ne era davvero convinto. In piena lotta politica, terminato il boom economico, mentre Morandi e Modugno cantano accelereazionariamente le folle agitate dal lavoro, la terra, la campagna e i calci alla città, mentre i Delirium si presentano con un manifesto hippie-cristico, Nicola Di Bari si fa cantore dell’irenismo utopico.
Il messaggio di Marcella Bella giunge ben più fosco e terribile ad annunciare la fine di un’era. Non a caso, il pubblico premiò col successo commerciale proprio la giovane Marcella e i mistici Delirium: il 45 giri vendette oltre mezzo milione di copie. Marcella, forte di un testo nichilista scritto dal fratello Gianni e da Giancarlo Bigazzi degli Squallor, diventa immediatamente una delle grandi voci del decennio, una di quelle a cui si attribuisce un soprannome, rigorosamente con la maiuscola. E a Marcella tocca il soprannome poco lusinghiero di Cespuglio, per via della folta chioma ribelle.
«Mi ricordo montagne verdi e le corse di una bambina
Con l’amico mio più sincero, un coniglio dal muso nero»
Marcella, catanese trapiantata a Milano, rimpiange i giorni della gioventù, ma sin dal primo verso fa capolino l’ospite inquietante, il nichilismo, che sarà indiscutibile protagonista del decennio successivo, i mitici ’80 della Milano da bere, del rampantismo dionisiaco e dello yuppismo acefalo. Sembrano ricordi spensierati, finché non ci si spinge un po’ oltre e ci si chiede: ma perché mai uno dovrebbe avere come miglior amico un coniglio dal muso nero? Forse perché è stato emarginato dalla società, escluso dal mondo degli uomini, e quindi trova una valvola di sfogo nel mondo animale.
Forse perché è misantropo, forse perché non si fida degli uomini.
Scrive Céline in Viaggio al termine della notte:
«Ero un bambino, allora, mi faceva paura la prigione. È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre».
L’addio ai monti di Marcella si annuncia subito ben più tragico di quello di Lucia.
«Poi un giorno mi prese il treno»:
il trionfo della Tecnica giunge improvviso e l’uomo subisce passivamente il suo avvento. Non prende la decisione di partire, ma semplicemente è portato verso nuove mete.
«L’erba, il prato e quello che era mio
Scomparivano piano piano»:
Gli averi non sono ancora beni materiali, prodotti del consumismo, bensì ciò che è di tutti e di nessuno in quanto Natura. Marcella è quel che ha, ma non ha che un prato verde, eppure è molto più ricca di tanti altri che possiedono solo il vil denaro. Perderà anche questo, perché – Celentano docet – la civiltà della tecnica non tollera il prato verde.
«E piangendo parlai con Dio»:
«Quante volte ho cercato il Sole,
Quante volte ho mangiato sale»:
Quante volte ho atteso Godot inutilmente. Quante volte ho creduto nel Messia socialista, nel Sol dell’Avvenire, in una Nuova Umanità più giusta, libera ed eguale. Eppure, tutte le volte mi sono ritrovata a mangiare sale.
«La città aveva mille sguardi,
Io sognavo montagne verdi»:
Un po’ di sano ruralismo. Come ci insegnerà la madre di Artemio nel 1984, «La città l’è piena di tentazioni, l’è tentacolare, l’è ‘na bruta bestia!». Meglio rifugiarsi nelle più confortevoli montagne verdi.
«Il mio destino è di stare accanto a te
Con te vicino più paura non avrò
E un po’ bambina tornerò»:
Negli anni Settanta era ancora possibile amare una persona per sempre e condividere con lei la propria vita. Non c’erano ancora il ghosting, il breadcrumbing, il benching, l’hoovering, l’orbiting e mille altre diavolerie post-social.
«Mi ricordo montagne verdi quella sera negli occhi tuoi
Quando hai detto “si è fatto tardi, ti accompagno se tu lo vuoi”
Nella nebbia le tue parole, la tua storia e la mia storia
Poi nel buio senza parlare ho dormito con te sul cuore»:
L’Amore per Marcella Bella è un amore totale, ma ormai impossibile a causa della distanza geografica. Rimane solo il ricordo di verdi montagne, ciò che conta davvero, ma confuso tra le nebbie padane.
«Io ti amo mio grande amore
Io ti amo mio primo amore
Quante volte ho cercato il Sole
Quante volte ho cercato il Sole»:
In nome dell’Amore, non si mangia più sale. Si cerca il Sole e ci s’illude d’averlo trovato. Scrive Céline:
«Poiché lei mi sfuggiva, mi credetti un idealista: è così che uno chiama i propri piccoli istinti vestiti di paroloni»
«Il mio destino è di stare accanto a te
Con te vicino più paura non avrò
E un po’ più donna io sarò
Montagne verdi nei tuoi occhi rivedrò»:
L’Amore ha un potere redentivo, ed è persino capace di trasformare una ragazza in una donna, di far riapparire le verdi montagne che tanto mancavano alla giovane Marcella.
L’intera vicenda assume un retrogusto amaro se si pensa che la giovane Marcella e il fratello Gianni, non ancora morto dentro, nella loro Catania, mai potranno aver visto verdi montagne. Semmai, potrebbero essersi imbattuti in quella che secondo Johnny Stecchino è la prima e più grave delle piaghe che affliggono la Sicilia:
«l’Etna, ivvuccano, che quannu si mette a fare capricci distrugge paesi e villaggi. Ma iè una bellezza naturale…».
Oppure in quei paesaggi che tanto piacevano a Rino Gaetano: «Ad esempio a me piace la strada col verde bruciato, magari sul tardi. Macchie più scure, senza rugiada, coi fichi d’India e le spine dei cardi».
Quel che è certo è che le montagne verdi sicule non sono mai esistite. Esse sono piuttosto frutto di quello che potremmo definire l’utopismo prenichilistico di Marcella Bella, perfettamente inserito nel contesto dei tumultuosi anni Settanta.
Le montagne verdi tanto rimpiante dalla più sanremese delle canzoni non sono che un’allucinazione, il prodotto di un sogno che mai si avvererà, o forse dell’LSD che grande diffusione ebbe nell’Italia post-sessantottina.
Se n’avvide Rita Pavone, che nella sua – terribile
– traduzione in francese trasformò verdi montagne in verdi colline, peraltro privando l’intera canzone del suo significato metastorico e metapolitico.