“Chi ascolta Battisti è un ragazzo che ha perso una cotta, chi ascolta Califano è un uomo che soffre” -Davide, coinquilino
Partirò da una premessa storico-filosofica. Friedrich Nietzsche è la coperta corta del pensiero contemporaneo: ce lo si tira da tutte le parti, ma si ha sempre e comunque freddo. Che cosa aveva in mente quando scriveva? In altri termini, Nietzsche che dice? Boh.
Per questo è stato riletto in chiave nazista (Förster-Nietzsche), esistenzialista (Šestov), heideggeriana (Heidegger), strutturalista e post-strutturalista (Foucault, Deleuze), antiebraica (Vivarelli), filologica (Colli-Montinari), darwiniana (Campioni), ermeneutica (Ferraris), psicoterapeutica (Yalom), narvalica (Gregg), e chi più ne ha, più ne metta.
Niente di tutto questo: oggi Nietzsche è millenario.
In questa nostra epoca post-moderna il millenarismo sembrerebbe un’idea superata, demodé: è invece la più attuale, è la sotto-idea su cui si basano gli smemi. La filosofia neoplatonica ci fornisce le basi metafisiche per comprendere questo fenomeno trascendente:
Il Califfo è la fonte primigenia, il genere sommo da cui il filosofo di Röcken trae le sue intuizioni. I commentatori non fanno che travisare questo dato essenziale, confondendo il sole coi suoi raggi.
I Simpson, ad esempio, non prevedono il futuro: sono invece l’incarnazione di un inconscio collettivo e trascendente che esiste e segna il solco dei nostri destini individuali, la loro direzione finale senza dissolvere il libero arbitrio individuale (inclinans, sed non necessitans)
Sembrano simboli vaghi, idee nell’aria, ma sono lo spirito di un’epoca, lo Zeitgeist. Seppur con decrescente gradazione ontologica, lo spirito del tempo si incarna in tutte le epoche in figure controverse, divisive, carismatiche, ma geniali.
Siddharta Gautama il Buddha, Socrate, Gesù Cristo, Maometto, Giovanna d’Arco, San Francesco d’Assisi, Giordano Bruno, Nietzsche, l’Anticristo (che poi sono la stessa cosa) e Franco Califano.
Un santo, un apostolo, un martire e un profeta. Un genio insomma. Nato in un volo tra l’Italia e Tripoli, egli è evidentemente un eroe dei due mondi. Nietzsche è un pensatore delle altezze (Ecce homo, Prol., § 3), ambiguo, strabico, dolente; Califano un condottiero, ‘n guerriero che sta riposanno dopo che ha rivortato mezzo monno
(M’NDT).
Oggi esporremo, dati alla mano, come in realtà tutto ciò che ha scritto Nietzsche altro non sia che una parafrasi mediocre delle parole e delle gesta del Califfo. A partire dall’inflazionato concetto di Superuomo.
L’essere è un’idea pura, che sopravvive senza aver bisogno della materia. Da questa realtà prima le realtà seconde procedono naturalmente, perdendo progressivamente di perfezione. Nietzsche è un’emanazione imperfetta di una realtà più perfetta.
Il Superuomo? Forse. Franco Califano? Sicuramente.
Del resto, chi è questo Superuomo?
La domanda è stata a lungo evitata (qualcuno ha ipotizzato fosse un uovo e non un uomo, sic!), ma oggi, alla luce delle premesse già esposte, la risposta sembra semplice: Franco Califano è il messianico compimento della profezia del Superuomo!
Nonostante le testimonianze dell’epoca lo ricordano come un uomo sempre allegro, è arcinoto che sul finire della propria vita Nietzsche sia uscito pazzo nonostante la sua filosofia, pertanto l’ideale del Superuomo come piena realizzazione del sé sembra più una pia speranza se non addirittura un accorato appello alla luce del tragico epilogo.
Per quanto riguarda l’alimentazione, ad esempio, Nietzsche è una contraddizione vivente: diete a base di uova, riso, semolino, latte e carne tenera, mentre scriveva che il Superuomo avrebbe dovuto cibarsi di carne saporita, salse piccanti, qualunque cosa gli capitasse a tiro, giacché l’importante era mordere la vita!
Franco Califano non ha fatto altro che mordere la vita per risputarla tutta masticata nelle sue canzoni, le sue abitudini alimentari riflettono tale condotta: [...] mescolai la vodka con acqua tonica/E pranzai tardi all'ora della cena
o ancora Raccolsi il mondo in un pasto misto.
Un’alimentazione insolita, tra il patetico e il patologico, come quando inganna[va] il dolore con del vino rosso
(UTP), o quando si provò ad annegare nella pioggia insieme all’amico Tenco:
«Luigi Tenco mi trovò in mezzo alla strada che bevevo la pioggia con la bocca spalancata! Con pochi passi mi sarei riparato sotto una galleria, ma non sarebbe servito a niente. Luigi restò con me sotto l’acqua. Saremmo rimasti là chissà quanto tempo, forse saremmo affogati perché ne avevamo voglia, se non fosse arrivato il sole a schiarire il tutto, improvvisamente. Un sole inutile, che asciugava la pioggia di due poveri artisti, forse coglioni, forse poeti fuori dal tempo.»
Una fotografia struggente, degna di un film di Fellini. L’immagine di un uomo che si è abbeverato alle fonti della disperazione per trarne bellezza, o gioia, tanto da comunicarla istantaneamente al Tenco, che si unisce a lui.
Ma se quest’ultimo era un amico fragile, la forza di Califano sta proprio nel saper sprofondare in se stesso per poi risalirne purificato: Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare, così facendo, egli stesso un mostro. E quando guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te (Al di là del bene e del male, IV, § 146)
Un passo celeberrimo, probabilmente perché misinterpretato.
Che cosa sia l’abisso sta a noi deciderlo, ed è questa la bellezza della poetica nietzscheana. Ma se dobbiamo intenderlo come la follia, come la depressione o la malattia mentale che segue all’eccessiva disgregazione dei valori, il passo diviene il monito a non rimanere preda della stessa vis decostruttiva, del nichilismo negativo (pars destruens) che necessariamente precede il nichilismo positivo.
Che sia necessario distruggere per costruire, bruciare per brillare, cadere per spiccare il volo, il Califfo lo ha sempre saputo. La sua vita più che dagli eccessi è rimasta segnata per gli opposti che la animavano. Quest’idea penetra nella poetica del Maestro e si rivela nei suoi testi:
«E questa notte Roma è tutta nera nera
tutto il disprezzo degli altri
è falsa letteratura
ma nessun parafango può schiacciare un cuore
e tra cartoni e lamiere nasce un raggio di sole» (P)
L’abisso di Nietzsche si trasforma in cartoni e lamiere (meglio del “letame [da cui] nascono i fiori”), e con uno sforzo superomistico Califano trionfa sulle ceneri della vecchia morale, transvaluta di valore, cambia di segno al proprio destino. Due potenti linguaggi evocativi, aggiornati con il vocabolario dell’epoca, proprio per questo in grado di parlare ad intere generazioni.
Mutatis mutandis, sed aeterniter et sempiterniter.
Essere Übermenschen consiste proprio nel rimanere fedeli al proprio essere per non essere sedotti dalle rovine in cui versa la civiltà occidentale, con i suoi valori nazionalpopolari.
La convenzionale morale piccoloborghese spinge l’individuo postmoderno verso la dissoluzione della propria autodeterminazione e autonomia, quindi verso la décadence. La decadenza è una stagione della civiltà occidentale che ancora non si è esaurita.
Nietzsche ne è stato il profeta, Califano ne è stato il principe.
Consapevole dei rischi dell’assoggettarsi alla società di massa, Califano ha attraversato lo squallore quotidiano in cui viveva, non perché ne facesse parte, ma perché sapeva elevarsi al di sopra di esso pur passandoci attraverso. Un asceta in mezzo al popolo, la cui serenità interiore era dovuta ad una fortissima spinta verso l’autenticità, alla purezza e una fedeltà a se stesso fuori dal comune.
Devozione per l’aria di montagna che si respira leggendo questi giganti.
Nietzsche ha scalato le alture del proprio pensiero fino ad uscirne pazzo (si guardi, dai mostri…); Califano racconta il suo percorso così:
«Rotolai in salita come fossi magico
E toccai la terra rimanendo in bilico
Mi feci albero per oscillare
Trasformai lo sguardo per mirare altrove
E provai a sbagliare per sentirmi errore» (UTP)
La transvalutazione dei valori può intendersi come la ridefinizione paradossale attraverso cui anche la peggior prigione mentale può divenire la dimora più accogliente. Nietzsche l’affrontò in vita, e la tortuosità della sua opera ne è la prova, nonché il suo amore per i cavalli; Califano la attraversò uscendone vincitore, salvo poi avviarsi in un cammino cristologico di espiazione pubblica dei nostri peccati: provò egli stesso anche la prigione fisica.
«La prima volta che mi misero le manette, provai molta pena per me, disprezzo per il resto del mondo e vergogna per la memoria di mio padre… io stavo pagando il mio esibizionismo, la mia poltrona in prima fila, la mano tesa che non ho mai ritrattato dopo avere lanciato il sasso.»
È un’aperta e provocatoria presa di posizione contro tutto e tutti, a partire dal cristianesimo e dalla sua squallida morale tutta ricevuta dagli ebrei. Ma Califano non era antisemita (Nietzsche sì), eppure interpreta positivamente il comandamento gesuano:
Scagli la pietra chi è senza peccato” (Gv, 8,7/Mentre tutto scorre, Negramaro). Il monito del Cristo apre un bivio: non lanciare la pietra (per non dover ritrarre la mano) o osare, scagliare la pietra assumendosi le conseguenze di tale gesto.
Nietzsche lo aveva ben capito, la sua filosofia è tutta improntata ad una liberazione dell’uomo moderno dalle catene della morale convenzionale, è volta ad un superamento superomistico dei valori ereditati acriticamente attraverso un’opera di riappropriazione proattiva.
Califano incarna compiutamente questo gesto di sfida permanente.
Idea diffusa è che il Superuomo sia un arrogante, un egocentrico, un egoista. Può essere (anche) così, ma non necessariamente. In quanto ideal tipo di perfezione extramorale, il Superuomo si astrae da queste scaramucce tra infanti.
Nietzsche era misogino? Sì. Perché? Boh. Noi non lo sappiamo, ma sappiamo come avrebbe risposto er Califfo: questo non scopava.
Quasi cento anni dopo, passato il ‘68 con le sue rivolte studentesche e l’emancipazione, le filosofie della De Beauvoir, Lonzi, Friedan et al. sono divenute la nuova morale che non guarda in faccia a nessuno (sputa sullo Hegel!)
Nel 1979 esce la prima autobiografia del Califfo. Egli sa che deve sfidare questo nuovo status quo: l’ennesima morale eteroimposta, contraria al suo essere. Per questo scrive:
«All’epoca, era la metà degli anni Cinquanta, le ragazze non la davano facilmente.
Poi magari capitava che riuscivi a scappare per un’ora, durante il pomeriggio, e andarti a fare una bella pomiciata sotto Monte Mario. Non sapete quante me ne sono fatte, fra i prati dove adesso hanno costruito il tribunale. Furono quelli gli anni in cui diventai “Il Califfo”, proprio perché tutte le donne ce le avevo io… della Dolce Vita è stato detto un po’ tutto, di come un Paese che stava rinascendo volesse buttarsi alle spalle il passato più brutto e gridare al mondo: “”Ho vinto!” C’era il benessere, c’era la voglia di divertirsi e lo Star System. E i paparazzi erano pronti a fissare ogni momento della nostra sbornia, testimoni di attimi per cui chiunque su questo pianeta avrebbe voluto dire: “Io c’ero”. E io c’ero… Io, [segue sequela di nomi di casanova] e pochissimi altri eravamo i cosiddetti playboy, quelli veri……belli come il sole, amati dalle donne e invidiati dagli uomini…»
Qual è la distanza tra Nietzsche e il Califfo? Non la quantità delle donne, ma il fatto che nel caso di Califano il racconto e la parola vengano sempre e comunque dopo l’effettiva realizzazione, mentre Nietzsche parla di speranze e propositi.
Che il pensatore di Röcken fosse un uomo di spirito, probabilmente affascinante, è noto, ma la critica alla religione di Nietzsche rivela quanto egli fosse anche ossessionato dal differire e procrastinare l’effettivo atto di vivere pericolosamente. Per lui la religione dà eccessivo peso alla vita dopo la morte, rinunciando quindi a vivere qui e ora, mentre Califano vive, e quindi (casomai) scrive.
Primum vivere, deinde philosophari.
Sempre in tema di donne, infatti, Califano non si limita a raccontare le sue imprese, ma generosamente elargisce i suoi insegnamenti in un libello: Il cuore nel sesso (Castellvecchi, 2000), in cui affronta la fenomenologia del marpione er Califfo
. Tutto molto divertente, ma se devo scegliere preferisco di gran lunga il Califano tra disillusione e innamoramento di Minuetto o È la malinconia.
In materia di rapporti tra sessi, anche Schopenhauer ha all’attivo il proprio – misoginissimo – L’arte di trattare le donne (1851)
Ma il legame tra il pensatore di Danzica e il principe della Roma da bere non si esaurisce qui: nel 2005 il Califfo viene insignito di una prestigiosa laurea honoris causa dalla New York University. Un giornalista gli chiede come si senta nel vedere accostati i testi delle sue canzoni con le tesi di Arthur Schopenhauer, al che il Maestro risponde:
«E chi è Schopenhauer? Er terzino da Lazio?» (originariamente della Germania, ndr)
Inoltre, Schopenhauer, sicuramente tra i maestri di Nietzsche, è de facto il pensatore della noia. E devotamente verso il Maestro, ogni volta che possono, Giuseppe Cruciani e David Parenzo ricordano l’Immenso omaggiandolo con la sigla del loro programma “La Zanzara”: Tutto il resto è noia (TIREN)
Non mi dilungo su questo testo, che meriterebbe una trattazione a parte, ma sottolineo come nella perenne oscillazione del pendolo della vita tra noia e dolore, manchi il tema della solitudine.
TIREN tratta precisamente di come un incontro gravido di aspettative finisca inevitabilmente per risolversi nell’ennui: è la sintesi tra la filosofia di Schopenhauer e la poetica leopardiana del sabato del villaggio.
È un incontro fortuito, inizialmente emozionante che si trasfigura nel suo contrario: la noia. E così, pur mascherata dall’effettiva amicizia di una donna, dalla sua semplice-presenza, la solitudine ritorna al centro della riflessione califfanica.
Il tema della solitudine, del resto, è centrale anche nella riflessione di Nietzsche e si collega con il già presentato tema delle alture. Ma solo Califano riesce a superare in un unico aforisma tutta la solitudine che Nietzsche ha solo paventato: La libertà più totale è uguale alla solitudine più bella
(LML)
Una solitudine che Nietzsche non capiva, infatti scriveva: “Nella solitudine il solitario divora se stesso, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli.” (Umano, troppo umano, II, 348), ma che il Maestro superava con le parole:
«Se non amo grido abbasso anche se non mi è concesso
dico sempre quello che mi va.
Se voglio un corpo e un po’ d’affetto,
faccio un giro cerco un letto e una donna che ci sta.
Chi mi vuole prigioniero non lo sa che non c’è muro
che mi stacchi dalla libertà.
Libertà che ho nelle vene, libertà che mi appartiene,
libertà che è libertà.
Vivo la vita così alla giornata con quello che da’
sono un’ artista e allora mi basta la mia libertà.»
Ho scoperto tardi il Califfo perché prima non avrei mai potuto nemmeno avvicinarmici: l’intensità e la verità delle cose che scrive è l’intima condivisione di un’esistenza consumata, esperita in ogni suo aspetto più torbido. Se prima non avessi sfiorato con un dito questa vita che non riferisco
(UTP), mi sarebbe mancato l’orizzonte di precomprensione.
Oggi non penso di averlo capito, ma almeno posso dire di conoscerlo meglio: direi anzi che lo conosco da sempre.
Ogni volta che ascolto una canzone del Califfo penso sempre che non saprei cambiare mezzo verso dei suoi. Era un filosofo, ma soprattutto un poeta, e la poesia è affare più filosofico e più serio della storia: giacché la poesia dice piuttosto le cose universali, mentre la storia quelle individuali.
(Arist., Poet., 1451b6)
La sua autobiografia in musica assurge a simbolo universale.
È stato un cantore della Roma dopo la mezzanotte, un uomo dalle mille avventure, di cui noi raccogliamo solo le briciole. I suoi testi sono scarni, disadorni, apparentemente volgari: non è così.
Anche la vena erotico-trash che percorre la sua cinquantennale carriera è segno di un’ironia che non ha mai cessato di esercitare: l’individuo post-moderno che non vuol incorrere nella schizofrenia deve consapevolmente scindersi, lasciando sfogare le pulsioni che altrimenti alimenterebbero la nevrosi.
Io sono come il Califfo, io ho imparato a scindermi per fare di tragedia bellezza, mordendo la vita senza mai rassegnarmi. I cantautori indie cercano la foto fuori fuoco, il pantalone strappato, la sigaretta in bocca e la voce spezzata.
Califano ha inventato quell’essere dimesso e coatto non per sfiga, ma per sfida. Per l’uomo indie il pianto è il momento vanitoso di esibizionismo del proprio dramma. Per il Superuomo Califano il pianto è un monologo interiore tutto personale, non condiviso con fan o amici, al massimo con un animale:
«Io piango quanno casco nello sguardo
De’ ‘n cane vagabondo perché
Ce somijamo in modo assurdo
Semo due soli al monno
Me perdo in quell’occhi senza nome
Che cercano padrone
Su quella faccia de malinconia
Che chiede compagnia» (INP)
Califano ha la capacità di condensare una riflessione lunga una vita in poche battute. La fine di una storia perché doveva finire (sono cose che succedono
, UEF), perfino l’indifferenza verso l’amante nuda diviene corrosiva e si espande fino a corrodere ogni cosa:
«Che c’è che c’è che c’è, c’è che non c’è
C’è che l’ipocrisia ci mangia vivi c’è che
Non ho più voglia di far niente ti vedo
nuda e resto indifferente,» (CCE)
Se lo avesse conosciuto, il buon Nietzsche avrebbe amato il Califfo. Due indomabili, outsider, carismatici e divisivi. Inattuali, poiché eterni, fuori dal loro tempo.
Due animali selvaggi, educatisi nel segno di una nuova morale tutta loro che li rendeva incompatibili a questa nostra vita borghese.
Zarathustra dichiara:
«Io amo la libertà e l’aria sulla terra fresca: preferisco dormire su pelli di bue che sulle loro dignità e rispettabilità. Io sono troppo ardente e riarso dai miei propri pensieri: spesso mi manca il respiro. Allora devo uscire all’aperto, fuori da tutte le stanze polverose. Essi invece siedono freddi nell’ombra fredda: e non vogliono, in tutto, che essere spettatori, e si guardano dal sedere là dove il sole arroventa gli scalini. Simili a quelli che se ne stanno in mezzo alla strada e guardano a bocca aperta la gente che passa: così aspettano anch’essi e guardano a bocca aperta i pensieri che altri hanno pensato.» (Così parlò Zarathustra)
Chi può aver mai scritto questa frase? Nietzsche o Califano? Entrambi. Come l’acqua che sgorga dalla fonte è la stessa acqua anche a valle, fosse anche diverso il suo colore. Nietzsche e Califano. Califano e Nietzsche. Califano è Nietzsche!
Mi immagino questo ricongiungimento sul piano astrale: negli occhi di entrambi brilla una lacrima di commozione. Il riconoscimento finalmente ha luogo. I due spiriti affini si ritrovano nella Verità. Califano ride, Nietzsche lo guarda come se lo stesse aspettando da un po’. Poi dice:
-Sai, Franco, mi aspettavo che qualcuno se ne accorgesse che io e te, insomma… hai capito no? E dire che l’avevo pure scritto “non escludo esista l’eterno ritorno”. Niente, nessuno ci è arrivato.
-’A Nicce, carcola che io me lo so’ fatto scrivere pure sulla tomba, ma niente, nessuno.
Ridono, beati.
Me li immagino come due vecchi amici, seduti ad un caffè che frequentano solo loro:
-A Nicce, quanto [zucchero nel caffè]?
-Kein Zucker, lo prendo amaro… come la vita.
-La vita è amara a sufficienza, passami lo zucchero.
Poscritto: Nietzsche era un antiaccademico, odiava i salamelecchi e i preamboli. Per rispettare il suo volere abbiamo omesso riferimenti a opere o volumi, ma per omaggiare il Califfo le sigle disseminate nel corso dell’articolo, che rimandano ai testi delle canzoni, sono qui sciolte:
Le citazioni in prosa sono tratte da Ti perdo. Diario segreto di un uomo da strada, 1979. ACUT = Avventura con un travestito CCE = Che c'è ELM = È la malinconia INP = Io nun piango LML = La mia libertà M’NDT= Me ’nnamoro de te Mi = Minuetto NEIR = Non escludo il ritorno P = Pierpaolo TIREN = Tutto il resto è noia UEF = Un'estate fa UTP = Un tempo piccolo