Se da un lato Instagram
rappresenta uno dei contesti più esemplificativi del nostro presente, concorrendo alla sua velocità tutta virtuale, dall’altro, in quanto rete sociale, ha innegabilmente ridefinito (rivoluzionato?) l’inter-soggettività e la soggettività stessa nel suo vissuto quotidiano, aprendo il dibattito intorno all’analisi di una nuova socialità e sulla collocazione dell’umanità dell’uomo nell’orizzonte virtuale.
Se a diversa sostanza si addice diversa formula, allora il modo di definirsi come umani nel contesto sostanzialmente differente del virtuale deve essere in qualche modo diverso da quello fisico, anche se necessariamente non alternativo.
Sarebbe assurdo negare la subordinazione del primo rispetto al secondo, dal momento che si pone ancora e sempre come sua mimesis
: certo, si ripropone non di sostituire, ma di ampliare un certo tipo di linguaggio inter-soggettivo che è quello della relazionalità fisica, che pur originario è spaziotemporalmente limitato; è inevitabile, però, che da ciò derivi una negazione di tale linguaggio, e il sorgere di un diverso modus di relazionarsi e di identificarsi.
Chi è allora l’io virtuale, l’identità del fruitore del digitale che cerca di superare sé stesso come semplice uomo e vive o emula relazioni e pseudo-relazioni in un contesto così anti-umano?
Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un profilo/utente che cerca di essere soggetto, che mantiene cioè quanto più possibile invariate le sue caratteristiche individuali e personali. Per quanto convincente possa essere l’imitazione di sé stessi, tuttavia, un io-virtuale non potrà mai esperire la complessità di un io-reale. È la questione della pipa-non-pipa di Magritte
: gli utenti sono destinati a rimanere imprigionati nel loro essere mere rappresentazioni di sé. Come uomini, infatti, non possiamo credere di poterci sdoppiare, di poter esistere contemporaneamente in due mondi possibili:
uno è il mondo, una la possibilità, nella nostra identità siamo legati irrimediabilmente alla nostra dimensione spaziotemporale (lo stesso termine profilo ci ricorda il mondo fisico dal quale veniamo ed entro cui non possiamo non vivere).
Tuttavia, sembra tutto un po’ controintuitivo: quella pipa, porca miseria, è una pipa! Come quando ti chiedono, “Ce l’hai presente Coso? Aspetta, prendo Instagram
, te lo faccio vedere: è lui”.
È lui o non è lui? È insieme lui e non lui? È una sua rappresentazione, ma è attiva: cosa significa? L’utente, con il suo profilo, agisce sul mondo virtuale. Ma non è punto il profilo ad agire, rispondendo ad una volontà a lui esterna e contemporaneamente intrinseca, che lo muove in un modo a lui congeniale e conveniente: è sempre l’utente, l’umano, il corpomente pensante che crea il suo avatar nell’inumano spazio distorto della rete.
Se si prova a caratterizzare questo pseudo-spazio, questa dimensione, infatti, è abbastanza semplice individuarne gli aspetti che lo rendono lontano da tutto ciò che è umano. Il profilo, il corrispettivo dello spazio della persona, è una griglia di immagini-simbolo che dovrebbero rimandare al soggetto, ritraendolo esattamente per come vuole essere percepito, riducendo, se non eliminando, la complessità che assume la nostra immagine di fronte alla relazione con l’altro e come cambia questa immagine in questa relazione. È una pipa che non può essere presa in mano, che non può essere fumata: è una pipa?
Incasellati, come si diceva, in vere e proprie, percepibili, griglie, ipostatizziamo nel virtuale una iper-razionalizzazione della rappresentazione del nostro sé, non solo eliminando in noi lo sguardo dell’altro, ma rifiutando tutto quanto nell’uomo è imprevisto, irrazionale, disordinato.
Non solo la relazione è distorta. Anche la pallida imitazione del tempo è lontana da quello che propriamente ci appartiene. L’immediato del social, l’attimo in cui tutto si esaurisce, è in realtà un’illusione. Non c’è quasi nulla di immediato su Instagram. Qualunque cosa si posti o si re-posti, ha sempre un tempo molto più lungo dell’immediato. Tutto è pensato, bilanciato, prima di essere reso pubblico, come è naturale, eppure è tacitamente accettata la convenzione per cui si finge che tutto sia nell’”ora”, o meglio, che in qualche modo rappresenti il presente.
Lo spazio è distorto, il tempo è distorto, le caratteristiche umane, anche le più basilari, sono distorte. Che ne è di noi, in questa distorsione? Se è ovvio che l’umano è fisicità, corporeità, relazione estetica, spazio-tempo, è altrettanto chiaro che la virtualità può non costituire un’infernale macchina di distruzione della nostra essenza: qualcosa permane anche nell’imitazione.
L’unico modo di vedere la pipa al di là della tela, è accettare la tela come tale: è solo vivendo i social network come ricettacolo di mere rappresentazioni che possiamo da una parte riappropriarci della nostra identità, che prescinde sempre e comunque l’Instagram del caso, e dall’altra comprendere come muovere le nostre rappresentazioni in modo che abbiano un qualche effetto sul mondo reale. Le immagini viaggiano veloci, e quella pipa potrebbe ispirare qualcuno a diventarne un produttore, o un fumatore, o un pittore, o un poeta.
Non neghiamo la potenza delle rappresentazioni, ma lasciamole nel loro mondo impossibile.