Fin dall’antichità i nostri antenati sognavano un mondo dove la tecnologia avrebbe limitato gli sforzi quotidiani a poche ore di lavoro, permettendo finalmente all’umanità di dedicarsi in gran proporzione a quelle scienze e quelle arti che sappiano nobilitare l’animo e che fino ad allora erano prerogative di pochi ricchi e fortunati.
Lungi dal realizzare questi sogni, la rivoluzione industriale, nonostante avesse fornito all’uomo tutti i mezzi di farlo, ha invece innescato un meccanismo, a primo impatto irreversibile, che voleva vedere l’uomo asservito al sanguinolento culto della produzione e del lavoro, creando un mondo in cui le ore di lavoro si moltiplicavano invece che diminuire, tutto nel nome dell’onnipotente linea rialzista sul grafico. E adesso che siamo in un’economia dalla rapida digitalizzazione, è forse cambiata qualche cosa? Le potenzialità produttive del lavoratore si sono centuplicate dal tempo del medioevo, eppure le ore di lavoro sono grossomodo le stesse.
Guadagniamo di più forse, questo è vero – ma siamo anche di più, ed in ogni caso a che giova, quando le necessità di base come un’automobile e un appartamento diventano pian piano irraggiungibili?
Dovremmo forse tornare a cavallo e viver nel bosco, per meglio apprezzare lo stipendio?
Perfino le donne che abbiamo sono acide e incontentabili, e ignorando l’uomo normale, a frotte sciamano solo verso quei pochi fortunati che più le attraggono, e liberamente così passano i propri anni migliori, nella arrogante sicurezza che troveranno qualcuno che se le prenda quando, vecchie e brutte, col corpo consunto dai passati proprietari, vorranno trovarsi un marito che se ne curi nella più tarda età.
Cosa direbbe un Romolo, messo di fronte a queste misere premesse?
Saprebbe forse rinunciare a Roma nel nome del mediocre lavoro, della soverchiante necessità di annullarsi quotidianamente di fronte al dio fatturato?
Saprebbero Paride, Lancillotto e Orlando vedere qualche cosa di degno nelle nostre Elene, Ginevre e Angeliche, e troverebbero il loro valore tale da dedicare loro grandi gesta e di rischiare la vita per il loro amore? Cosa c’è, che si potrebbe cantare per millenni, in un Achille operaio o in un Ettore tornitore?
Eppure tutto questo non è nulla di più e nulla di meno di ciò che è nell’uomo dalla notte dei tempi, ed è quello di cui il mondo moderno ha più paura e quello che esso spende più tempo ed energia a sopprimere.
Se è alla portata del comune lavoratore questo eroismo, allora il postcapitale è responsabile di aver ucciso l’uomo – se non lo è, esso è imputabile di aver attentato a Dio stesso. Nel disperato tentativo di trovare qualcosa, qualunque cosa di più della vita da insetto che a loro è destinata, le persone si dedicano a tutti i vizi e perfino ne inventano alcuni. È inevitabile come, uscendo di casa, gli occhi di uno non cadano sopra qualche abominevole mostruosità che soltanto il secolo scorso si sarebbe pensata un demone, ed invece ora cammina sotto il sole di fronte a noi con totale impunità.
Il televisore ormai si sintonizza coi pensieri dell’ascoltatore e ne programma il comportamento grazie a ripetute e continue esposizioni. Come una mosca nella ragnatela, ovunque il lavoratore si giri esso trova selezioni ad hoc che non alleviano la sua sofferenza, ma ne ridirigono l’impulso vitale verso battaglie e conquiste futili ed innocue. Può a volte capitare perfino che quelle persone meno asservite al sistema utilizzino violenza nel nome di queste cause-surrogati, come nel caso del calcio o delle lotte politiche per cause altrui. Questo esiste a causa del fatto che il regime di superlavoro è strettamente legato nell’ambito culturale all’importanza della persona stessa, e dunque possono veramente portarsi a contestarlo solamente quelli che sappiano distaccarsi dalle opinioni della massa lavoratrice.
Ciò, decisamente, è a causa del fatto che nelle comunità lavoratrici che formano una così gran parte della compagnia dell’uomo qualunque, chi non vuol produrre è giustamente visto come inutile; sono perciò dissuasi per vie efficientissime e naturali dall’alzare il capo per valutare oggettivamente quale sia la propria condizione.
Ora, quanto sopra ha una certa somiglianza ad alcuni argomenti che propongono come soluzione al problema del superlavoro una fantasiosa rivoluzione di lavoratori che, si suppone, organizzandosi in assenza del capitale, potranno ottenere un tenore di vita umano ed accettabile. Io sono dell’opinione che tali idee siano carenti in attualità e che debbano, perlomeno, essere rivisitate alla luce di importanti lezioni che si sarebbero dovute imparare dalla loro concezione e che le minano pericolosamente alle fondamenta.
Infatti, ciò che Marx ha voluto ignorare – senza reale discolpa, perché tali idee erano ben conosciute al suo tempo – è la straordinaria capacità del lavoratore di adattarsi a qualunque sopruso e angheria purché gli siano garantiti il pane quotidiano e qualche cosa che possa distrarlo e tenerlo in competizione coi suoi pari. Sembra che il lavoro di cui tanto ama vantarsi, lo istupidisca a tal punto da accettare volentieri non solo i danni, ma spesso e volentieri anche le beffe; tanta è l’attenzione che ad esso devolve di sua spontanea iniziativa che gli eventi della vita propria e altrui lo lasciano indifferente.
Ciò accade non solo nel regime di superlavoro in cui viviamo, ma in ogni società, di ogni cultura e razza (tranne forse quelle tribù dove l’economia è semplice e la specializzazione è minima) al punto che non si potrebbe dar torto a chi voglia considerare una componente endemica dell’intera umanità, l’esistenza di una sottoclasse di persone la cui adattezza a conoscere e capire è innatamente irrisoria e che dunque finiscono, per una via o per un’altra, a ricoprire quei ruoli che ne richiedono di meno, essendo questi ovunque i lavori monotoni e manuali, che qualche ignorante ogni tanto si pensa di glorificare in modo che i suoi compagni in intelletto si sentano meglio integrati nel mondo più grande che non capiscono né hanno gli strumenti per capire.
Da una parte è vero che questo lavoro, per sgradevole che sia e seppur svolto da persone meno che ideali, rappresenta le fondamenta su cui si fonda la nostra economia, e dunque bisognerà dargli qualche riconoscimento; dall’altra, si può indicare un gran numero di cose ignobili eppure fondamentali, come il sistema fognario e gli insetti; oppure, per fare un paragone più dignitoso e forse più appropriato, si può controbattere che le piante, pur essendo la base dell’ecosistema, non hanno particolari caratteristiche che ben si prestino ad essere glorificate da chi noi chiameremmo onorevole.
È dunque delle virtù della pianta che vive il lavoratore: lenta sopportazione, immobilità e costante lavoro.
Pensiamo, ad esempio, a quali preoccupazioni governino la condotta e lo scoppio stesso di una guerra; in Italia non vediamo conflitti da ottant’anni a causa del trauma subito dalla popolazione che per qualche anno ha dovuto vedere la linea del fronte, spaventandosi vigliaccamente pur essendo protetta da aggressioni intenzionali, paurosa di farsi male e dover pagare con le azioni il patriottismo verbale. E ciò non per mancanza di motivi, che già nell’ultimo anno persone ragionevoli avrebbero fatto almeno due o tre rivoluzioni – ma per semplici codardia e nullafacenza, gli strumenti dello Stato per proteggere la propria economia affinché il pigro brulicare di insetti nel sottobosco industriale non abbia a temere i feroci uccelli d’acciaio.
Queste persone hanno mostrato ciò che si credeva impossibile: nemmeno è necessario costringere la popolazione, ma basta la minaccia di costrizione che essi già di buon grado cominciano a vantarsi fra di loro della loro asservienza e perfino emarginano chi fra loro non voglia sottomettersi, senza colpo ferire da parte dello Stato. Purché gli sia concesso di lavorare, essi non solo faranno salti mortali, ma si faranno in quattro per assicurarsi che la nostra diventi una nazione di ginnasti.
C’è dunque da domandarsi: ma è veramente necessario che ad essi venga tolto questo lavoro e che vengano finalmente liberati, vale a dire, vale la pena di intraprendere un’impresa in cui nessuno è mai riuscito e che porterà inevitabilmente allo scontro dei liberatori coi liberandi?
La risposta mi pare ovvia: se vogliono essere schiavi al punto di mettersi da soli le catene, che si lascino fare, purché tutti gli altri siano liberi dall’onere che si prendono (ecco l’unica, vera virtù del lavoratore, che da pianta si trasforma in somaro) e possano contribuire al mondo secondo le loro qualità ed inclinazioni servili, affinché l’egemonia spirituale del lavoratore venga finalmente spezzata. Cessata la fissazione materiale nei nostri centri decisionali, potremo considerarci in un buon punto per cominciare la guerra al mondo, perché la nostra politica cesserà di essere influenzata da preoccupazioni volte alla sicurezza e alla stabilità, e si potrà aprire un universo intero di favorevoli opportunità per quei giovani che ne abbisognano.
Che si reintroduca il rischio nella politica, nella vita quotidiana pure!
Invece della pausa pranzo, si faccia una pausa guerra, in un capannone appositamente allestito, dove gli impiegati si spareranno fra di loro secondo il reparto e i morti finalmente andranno in pensione.
Possiamo essere sicuri che una volta scacciata la necessità di lavorare per vivere per quei nostri cavalieri, spartiati, aristocratici che possano realmente subordinare le voglie del corpo alla necessità spirituale, ci sarà un’abbondanza di Rome da fondare e nessun Romolo dovrà mai più abbassarsi a chiedere l’autorizzazione al comune per edificarle.