Sono nel mio giardino in compagnia della mia inutilità, decido di scavare una buca.
In poche ore, con muscoli lirici, riesco a scavare un buco di quattro secoli, sperando di trovare risposte. Precedo il buio dell’illuminismo.
Nulla. Scavo ancora.
Scavo, scavo e scavo ancora. I miei nervi iniziano a smaltirsi, la fatica è Dio, il calore del magma mi squama il viso, sento di essere vicino, il cuore è un pistone fuori controllo, il cervello zuppa, i polmoni sacchi di fuoco.
Sto per cedere il passo alla morte, sono sereno, ci ho provato, ma ecco che mi trovo in un luogo senza tempo; bianco accecante, non rilevo la presenza di confini se non quelli del mio corpo sviscerato.
Scorgo una sagoma in lontananza, ma le distanze non esistono
, c’è un uomo, non dice nulla.
Silenzio totale. Ecco la verità su tutto. Silenzio.
Torno in superficie, posso dirmi soddisfatto.
Per tornare alle cose di tutti i giorni rientro in salotto, ascolto un’intervista di Bettino Craxi. Sono nato dopo Mani Pulite e cresciuto con le mani troppo pulite, sento bisogno di fango. Provo comunque una dolce simpatia per Bettino. In fondo chi crede di sostenere la democrazia è il primo a detestarla. Ha solo bisogno di qualcosa in cui credere. Questo mondo ha avuto, ha e avrà sempre soltanto bisogno di fedeli.
Lucidi, laccati, pettinati, profumati, istruiti, laureati: vermi.
Ho un solo obiettivo prima di morire.
Trovare Dio e dilaniarlo.
Spiego perché.
Sono al supermercato, nel purgatorio della fila in cassa. Momento di vera quiete interiore della vita sociale. Nichilismo oltre il nichilismo. Arriva il mio turno, l’automa di fronte a me mi fa una proposta, ci sono degli spiccioli in avanzo e mi viene messa nelle le mani la responsabilità di donarli. I miei 15 centesimi hanno due strade, così simili così diverse: verso l’Africa a sostegno dei suoi bambini (che a quanto pare muoiono ancora per la fame), o a sostegno di un canile della zona.
I cani sono adorabili. Niente mi spezza il cuore più d’un cane che soffre. L’Africa può sicuramente aspettare.
Noi siamo la disgrazia del nostro tempo e io sicuramente non mi faccio da parte. Sono un cittadino medio, ho sempre la pancia piena, mi hanno riempito di sogni e di obiettivi. Sono un borghese stanco.
Ascolto un audiolibro, nuova frontiera della fruizione ultra-capitalista della cultura. Limonov, di Emmanuel Carrère. Biografia rinnegata anche dallo stesso soggetto. Grottesco.
Nel periodo in cui Limonov venne a contatto con l’élite culturale occidentale, da Andy Warhol a Salvador Dalì, partecipò ai migliori party della decadenza.
Lui e la sua compagna, Tania, finirono un giorno in questa super villa del Connecticut, proprietà di Alexander Liberman credo, visitando lo studio dove la figlia snob e depressa si dedicava alla letteratura.
Limonov si chiese quali libri potranno mai venire alla luce in un ambiente così calmo, confortevole, così morto.
Per scrivere cose interessanti, pensò Limonov, bisogna conoscere le avversità, la povertà, la guerra.
Mi trova tristemente d’accordo e per me l’audiomerda finisce lì.
La libertà è un’oscena messinscena.
Più crediamo di essere liberi più le spranghe delle nostre gabbie s’inspessiscono ed ho come l’impressione che le mie siano così spesse da non riuscire più a vedere oltre, non riconosco il mio secondino, non so con chi prendermela.
Penso a tutto il fiato che ho sprecato inutilmente. Penso alla scuola, fabbrica di morti.
Penso a Majakovskij, nel suo ultimo momento, mentre pareggiava i conti con la vita. Vorrei essere l’ultimo proiettile che ha macellato il suo cuore per porgere qualche domanda alle sue viscere.
Da quali Golia fui concepito
così grande,
così inutile?
Tutto il resto sembra polvere, inodore. Un abisso ci separa, la storia è un ciclo di rimpianti. Noi, atomi inermi vomitati dal tempo nel tempo.
Una luce infinita mi sfonda le retine. Cieco, morto, sepolto. Il quotidiano è àncora ma soprattutto gogna. Sparso un oceano di misero sangue nell’atrio della giovinezza ne sono fuori; perso il senso di ogni cosa ti ritrovi per forza vincitore, premio il nulla.
Genocidio del desiderio, in tutte le sue più viscide forme, dove ogni pianificazione è di per sé un fallimento a priori.
Siamo nati per fallire, basta una sciocchezza come il tempo a sconfiggere ogni tristezza nel vento. Siamo nati morti sepolti in questo mondo.
Il giorno che andremo più veloci del tempo saremo finalmente liberi, e se ne avessi la possibilità indirizzerei ogni studio scientifico (ed anche pseudo-scientifico) alla ricerca di un marchingegno capace di fottere il tempo, di smascherarlo ed infine dominarlo.
Arrossisco all’idea di uno stato totalitario che abbia come nemici spazio e tempo.
Spazio (quale?) all’eterno, all’indefinito, al non-detto.
Velocità assoluta. Assolutismo. Fatalità.
Dobbiamo accontentarci dell’arte ma sbarazzarci degli storici dell’arte. Oggi possiamo, abbiamo le macchine, hard disk millenari custodiranno la cultura classica in eterno. Li metto nel buco in giardino. Basta chiacchiericci e pedanterie passatiste.
A morte la storia dell’arte. A morte il tempo.
Gloria al chaos.