Citando John Oswald, la Plunderphonics parte da un breve – quanto interessante – paragrafo della sua tesi:
La controversia sulla duplicazione-nella-privacy-della-propria-casa (aggiunta mia: ovvero la pirateria musicale più terra terra possibile, la duplicazione di una cassetta o vinile, il testo è del 1985) è in realtà la punta di un iceberg di creatività rudimentale. Dopo decenni di ricezione passiva di musica in pacchetti, gli ascoltatori hanno ora i mezzi per assemblare le proprie scelte, per separare i piaceri dai riempitivi (aggiunta mia: il creare la propria musica partendo dalle nostre parti preferite, fino a togliere la noia di un pezzo, ed amplificarne le parti soggettivamente interessanti). Stanno duplicando una varietà di suoni provenienti da tutto il mondo, o almeno dall’ampiezza delle loro collezioni di dischi, creando compilation di una diversità non disponibile all’industria musicale (n.b, essendo del 1985 si riferisce principalmente all’industria musicale dell’epoca), con le sue scuderie circoscritte di artisti e una politica sempre più pervasiva di fornire solo il comune denominatore.
(John Oswald, Plunderphonics, or Audio Piracy as a Compositional Prerogative, 1985, disponibile gratuitamente sul suo sito)
Cos’è la Plunderphonics, se non si è capito ancora:
La Plunderphonics (da saccheggiare, razziare, delapidare e fonica) è un genere musicale che assembla canzoni partendo da sample (parti di canzoni) – effettivamente fregandosene del copyright bensì valorizzando musica sconosciuta o non troppo disponibile – e rubando – se così si sul dire – tutto quello che piace all’autore da un altro musicista, fonico, orchestra o da programmi radiofonici o televisivi.
È furto di musica, nel modo più onesto possibile.
Proprio mentre la tecnologia di produzione e riproduzione del suono diventa più interattiva, gli ascoltatori tornano, se non ad essere invitati, comunque a invadere il territorio creativo. Questa prerogativa è stata ampiamente dimenticata negli ultimi decenni. L’ormai primitiva generazione di ascoltatori di dischi era passiva (la forma attiva indigena del graffio appartiene all’era post-disc, blaster/walkman). Sono finiti i tempi delle interpretazioni vivaci sul pianoforte da salotto.
(John Oswald, Plunderphonics, or Audio Piracy as a Compositional Prerogative, 1985)
Facendo un esempio terra terra, la cosa più Plunderphonics che abbia oggi, o saccheggiofonica, potrebbe essere – a detta della regia – Pippo Sowlo.
Pippo non fa altro che campionare le basi, come un novello fonico, e cantarci sopra parodiando.
Un Fregne Mutilate vale più di tutta la produzione creativa di uno Sfera Ebbasta.
I Tauro Boys, precedentemente abbiamo ospitato YangPava sul sito e li abbiamo dedicato un articolo intero, ruba continuamente sample e beat altrui, basti pensare alle track di TauroTape I come Terremoto (Musica di Lavandonia, Pokemon) o Pinguini (Completamente basata su Black Beatles di Rae Sremmurd)
Ma ciò, per noi e per loro probabilmente, è solo una medaglia d’onore. Talmente tante medaglie per chi sampla e ruba, che nemmeno Žukov o un ufficiale nordcoreano può competere.
Perché tutto può essere musica, anche una continua tempesta di suoni provenienti da altre canzoni, basta che ti sia divertito, ti piaccia e tu sappia renderla piacevole alla tua cerchia.
All’estero, nell’algoritmo Youtube e sui Bandcamp, artisti come Macroblank rubano canzoni, rallentandole, cercando nei meandri di vinili jazz, cassettine ambient, in enormi database. Valorizzando la canzone rubata, che diventa nuova, un modo più figo di fare Vaporwave.
Rispetto al semplice prendere una canzone, dell’80, o recente, Macroblank saccheggia tutto il saccheggiabile, nell’ottica espressa nel suo Bandcamp:
i take no credit. everything is plundered.
Haircuts for Men, altro autore Plunderphonics similare a Macroblank, utilizza la stessa estetica nelle copertine:
Siamo in un universo totalmente citazionista. Appropriation Art delle copertine di album del secolo scorso, nella loro versione per l’esportazione in Giappone, la cui lingua addobba queste copertine con ideogrammi atti non a comunicare qualcosa, ma a essere estetici e fruibili da chiunque senza conoscere la lingua nipponica.
Sculture, dipinti, incisioni fanno da padrone nelle varie copertine, di solito relegate a uno spiraglio – un quadrato o rettangolo – che regala alla copertina un gusto minimale, quasi liminale. A parole loro:
i take some credit. but most everything is plundered.
La sabbia e il deserto, l’assenza di tutto, l’inizio di molti pensieri. Desert Sand Feels Warm At Night, altro autore contemporaneo, corrompe la musica così tanto da renderla ambient, un continuo pensare. Come se: avessero sbagliato qualche impostazione di FL Studio e tutto fosse contorto, ma calmo. Una grande calma. Gigantesco risveglio per alcuni. Come dicono loro su BandCamp:
If music didn’t exist, the sand wouldn’t be warm.
Siamo in una dimensione che è d’attesa, e in un millennio – il 2000 – che non fa altro che farci rimanere in questo eterno presente, dove non esiste un’idea di innovazione, si va a rubare dal secolo scorso immagini e suoni, laddove una volta vi era il Futuro.
Tornare indietro, non più come visitatori, ma come saccheggiatori e sciacalli.
Perché non dovremmo – citando Marinetti – guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile. Il tempo e lo spazio morirono ieri. Noi dobbiamo smetterla con la visualizzazione innoqua, l’adorazione delle ceneri passate e spente.
Se proprio dobbiamo farne qualcosa del passato, allora saccheggiamone i musei – i templi di una civiltà corrotta – e diamo in pasto all’Arte il miscuglio delle epoche.
Saccheggiare è creare.
Saccheggiare – soggettivamente – è anche un’espressione di pura nostalgia. Ti svegli ogni giorno, sei più vecchio di ieri. Il tempo passa. I ricordi vacillano, e prima o poi sei già ai venti, ai trenta, ai novanta.
Sei totalmente schiavo di un concetto, e ahimè: non puoi rivivere nulla, puoi solo rimembrare, come una malattia.
Plunderphonics come vera e propria nostalgia di tempi che torneranno, prima o poi.
La Vaporwave è derivata da essa, e come ogni genere che adotta musica passata – quindi che ognuno di noi avrà anche solo sentito di sfuggita – è un viaggio in mondi non nostri. Un viaggio in una dimensione dove le cose sono andate diversamente, nel bene che tornerà come un Future Funk, o nel male, come una Mall Soft di un passato che mai tornerà.
Sentire dopotutto album e playlist da un’ora minimo, album interi di canzoni campionate, remixate, distorte e corrotte non è altro che immergersi in sentimenti rubati, non nostri – ma come un cortocircuito – nostri nella memoria e nella sensazione. Con pure la possibilità di creare la nostra versione, grazie a programmi semplici come Audacity.