Post - Messa

Post - Messa
Tempo fa m’è capitato di assistere a una messa molto particolare al mio paese natìo. Era da prima della pandemia che non mettevo piede in quella parrocchia, e da mesi che non andavo a messa, se non per rosari o funerali. Sono stato accolto da un freddo glaciale. Si risparmia sul riscaldamento, evidentemente.

Difìnt i palès di moràr o aunàr,in nomp dai Dius, grecs o sinèis.Moùr di amòur par li vignis.E i fics tai ors. I socs, i stecs. Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dèi, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
Il ciaf dai to cunpàins, tosàt.Difìnt i ciamps tra il paìse la campagna, cu li so panolis,li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato 
tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.I ciasàj a somèjn a Glìsiis:giolt di chista idea, tènla tal còur.La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja, tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienla nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia,  
ti lu sas, a è sapiensa santa. Difìnt, conserva prea. lo sai, è sapienza sacra. Difendi, conserva, prega!
(Pier Paolo Pasolini, Saluto e augurio, da La nuova gioventù, 1975)

L’altare era stato rimosso, restava solo il tabernacolo. Al centro, un tavolo di vetro. Ma è stato ciò che c’era sopra il tavolo a colpirmi. Un tubo di rame fendeva l’aria al centro della chiesa con uno slancio spiraliforme che raggiungeva il soffitto. Qua e là, con andamento irregolare, delle specie di imperfette assi rettangolari di colore più chiaro illuminavano la navata di luce artificiale. Dove prima c’era un prezioso lampadario, ora prendevano il sopravvento abbacinanti luci elettriche. La si direbbe un’opera di Lucio Fontana, o forse un abbozzo di architettura futurista, se non fosse collocata al centro d’una chiesa.

Del resto, la cosa non deve sorprendere: per Marinetti, «solo gli artisti futuristi, che da vent’anni impongono nell’arte l’arduo problema della simultaneità, possono esprimere chiaramente, con adeguate compenetrazioni di tempo-spazio, i dogmi simultanei del culto cattolico, come la Santa Trinità, l’Immacolata Concezione e il Calvario di Dio» (Manifesto dell’arte sacra futurista, «Gazzetta del Popolo», 23 giugno 1931). 

Come dargli torto? Solo il Futurismo, con la sua volontà di «sfondare le misteriose porte dell’impossibile», con la sua consapevolezza che «noi siamo sul promontorio estremo dei secoli», che «il tempo e lo spazio morirono ieri» e che «noi viviamo già nell’Assoluto perché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente», può essere in grado di superare i limiti naturali che vincolano l’uomo al suo corpo, in una sorta di misticismo superomistico.

L’Oltreuomo futurista deve trovare spazio nell’arte. Scrive Marinetti: «l’uso della luce elettrica per decorare le chiese con il suo fulgore bianco-azzurro superiore in purezza celestiale a quello rosso-giallo carnale lussorioso delle candele, le meravigliose pitture sacre di Gerardo Dottori, primo futurista che rinnovò con originale intensità l’Arte Sacra, gli affreschi futuristi di Gino Severini nelle chiese svizzere, le molte cattedrali futuriste con un dinamismo di forme in cemento armato, cristallo e acciaio realizzate in Germania e in Svizzera, sono i segni di questo indispensabile rinnovamento dell’Arte Sacra». 

Mi trovavo, dunque, di fronte a uno straordinario – e, direi, unico – esempio di arte sacra futurista. Non più la naturale luce solare che entra dagli ampi finestroni colorati a rappresentare la presenza del Padre, ma ipermoderne luci al neon. Non più gli enormi lampadari di (pessimo) gusto tardo-ottocentesco, ma una spirale a forma di Cappello Parlante di potteriana memoria.

«SERPEVERDE, SERPEVERDE!» ero pronto a gridare in vista di un mio assai probabile smistamento in quella vituperata casa.

Eppure, quella non era Hogwarts – che, anzi, a confronto, con le sue candele sospese in aria nella Sala Grande, è una vera e propria goduria estetica darkacademica -, bensì la casa di Dio. 

Proprio in quel momento, mentre ero in preda alle mie fantozziane allucinazioni a sfondo mistico, facevano il loro ingresso i due officianti. Mai li avevo visti precedentemente, eppure il più anziano annunciava il trasferimento del più giovane, l’ennesimo parroco ispano-americano capitato per caso nel piccolo paesino di campagna. 

Ennesima bizzarria al momento del Confiteor: «confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…». Fratelli e sorelle. Geschwister. Fratelli e sorelle. Perché al tedesco Geschwister deve corrispondere in italiano ‘fratelli e sorelle’ anziché semplicemente ‘fratelli’? E la cosa si ripete a ogni ricorrenza del termine ‘fratelli’, né era la prima volta che vi assistevo. Dev’essere una qualche concessione di papa Francesco al politicamente corretto, per una messa più inclusiva.

Ora, non intendo assolutamente ingaggiare un’inutile lotta con lu/l*/lə rappresentantu/*/ə del femminismo linguistico. L’ultima volta che mi è capitato di discutere di nuovi femminili con una femminista radicale ho avuto la prova definitiva di essere un maschilista reazionario. Provai a spiegarle che avevo trascorso gli ultimi mesi a studiare la differenza tra genere e mozione, la questione del femminile in indoeuropeo, l’ipotesi di Sapir-Whorf,

… Nulla. Lei aveva letto. Dei libri. Quali? Beh… Beh, quelli, no?

E allora godetevi il mio mansplaining. Il femminismo linguistico, nella sua fede profondamente antistorica nella possibilità di mutare artificialmente le lingue, parte da un presupposto relativistico: quello secondo il quale la lingua sarebbe lo specchio di una società maschilista. Il punto è che l’idea sapirwhorfiana secondo la quale cambiando la lingua si può cambiare la società è ben lungi dall’essere dimostrata. A una lingua inclusiva e gender-neutral può corrispondere una società maschilista e patriarcale. A meno che non si voglia sostenere che gli indoeuropei erano una civiltà moderna, inclusiva ed eguale perché originariamente la loro lingua conosceva solo l’opposizione animato/inanimato. In questo, se me lo si concede, le femministe non sono troppo diverse dai futuristi.

Come mi disse qualcuno, «esistono diversi discorsi d’odio. Semplicemente, alcuni sono più contemporanei, aggiornati e sostenibili di altri». Il mio è infarcito di Chomsky e di Villar, profuma di Gimbutas con un retrogusto di Sapir-Whorf.

Ma torniamo a Francesco, l’agitatore di folle latino-americano. Non è la prima volta che il romano (anti?)pontefice mette mano al messale romano in maniera discutibile. Basti pensare al modo in cui il Padre Nostro è stato ritradotto, sostituendo a non ci indurre in tentazione con non ci abbandonare alla tentazione. Sottotesto: la gente è ignorante e non è più in grado di comprendere il mutamento linguistico, il significato storico di un testo.

Lungi da me spiegare al papa il suo lavoro – vorrei, anzi, l’abolizione della Città del Vaticano e un sano ritorno al paganesimo – ma è curioso che proprio la Chiesa, un tempo luogo per eccellenza del tradizionalismo, sia diventata un tempio del progressismo.

Mi limito a osservare che col suo predecessore (ultimo papa?) tutto ciò non sarebbe mai potuto accadere: Benedetto XVI aveva un grande senso storico, che tra le altre cose gli fece dire: «giusto chiedere scusa per il caso Galileo o per ciò che fu fatto ai popoli indigeni nelle Americhe, ma non dobbiamo dimenticare che fu fatto sulla base di precomprensioni diverse dalle attuali». 

Benedetto XVI, tra i più acuti interpreti della crisi dell’Occidente, paladino dell’Europa intesa in senso storico-culturale, tradizionalista che indossò il camauro in ben due occasioni (il 21 e il 28 ottobre 2005, un’importante scelta estetica in primis), denunciò con grande lucidità il relativismo, male del nostro tempo, «una dittatura […] che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (18 aprile 2005)

Ebbene, anche e soprattutto sulla questione della lingua, non si può cedere di fronte ai capricci di qualche femminista assatanata.

Non si cada nell’errore di credere che il progressismo becero di Francesco possa essere il fondamento di una nuova società. È, anzi, più conservatore di Margareth Thatcher quando affermava che la società non esiste, esistono solo gli individui.

Lo dimostra il momento dello scambio del segno della pace. Il sacerdote annuncia entusiasta: «scambiatevi un segno di pace!», ma il fedele non deve osare toccare il suo vicino con la sua lurida mano infetta. È quel che mi è accaduto. Istintivamente ho portato la mano verso l’anziana signora al mio fianco, e costei mi ha guardato malissimo, limitandosi a dire: «preferirei di no». Preferirei di no. Perché prima della fratellanza, valore per eccellenza del mondo giudaico-cristiano, viene la mia salute individuale.

È quella che io chiamo nosofobia. Occorre nascondere la malattia, non parlarne, quasi fosse un male incurabile. La salute è diventata il nuovo dogma. Lo scrive bene Agamben nel suo ultimo saggio, A che punto siamo? L’epidemia come politica (Quodlibet, 2021).

E allora tocca proprio a me, che tempo fa sognavo un disvelamento di questa «bimillenaria educazione alla Verità» (Nietzsche) con un’invocazione ai grandi dèi dell’Olimpo non troppo diversa da quella della caricatura guzzantiana di Ratzinger, ebbene tocca proprio a me annunciare che Dio è morto, e con esso ogni residuo di morale paolina. Che sia di ascendenza israelitica, come volevano i nazisti, o assira, come vuole Simo Parpola, poco ci cale. Dio è morto di fronte a un Padre Nostro in cui le mani alzate al cielo dei fedeli erano illuminate da luci al neon anziché dalla luce solare. Dio è morto quando una fedele si è rifiutata di scambiare un segno di pace.

L’arianizzazione del cristianesimo può dirsi completa, la messa post-moderna immaginata da Celentano nel suo trashissimo delirio cristologico, con le chiese trasformate in discoteche, è diventata realtà.

Ora chi più si occuperà della conservazione degli antichi valori?

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