[Odio fare premesse, ma per evitare incomprensioni è necessario un preambolo.]
Chi scrive non è un bimbo di Dario Fabbri
, la popstar geopolitica della televisione, e nemmeno un lettore di Domino, nonostante ne possieda qualche numero.
Spesso non mi sono trovato d’accordo con il taglio che Fabbri ha dato alle sue argomentazioni.
Ho ascoltato invece su Youtube una sua conferenza intitolata La cifra culturale in geopolitica
ed è stata una delle cose più illuminanti che ho sentito negli ultimi tempi. L’ho ascoltato due volte dal vivo, con un certo disincanto rispetto ad alcuni fan che erano intorno a me.
[Forse per questo sono in una posizione privilegiata per parlare del caso scoppiato negli ultimi giorni e che lo riguarda direttamente: la scoperta della non laurea di Dario Fabbri ad opera di Riccardo Puglisi.
Su Puglisi ci basta sapere quanto segue:
Si è laureato in Economia presso l’Università di Pavia nel 1998 (per rispetto nei confronti di Puglisi, che ogni volta che viene chiamato in causa ci tiene a ricordare che è laureato, quando lo nominerò ricorderò ai lettori che è laureato); ha conseguito il dottorato in Finanza Pubblica a Pavia nel 2002 e il PhD in Economia alla London School of Economics nel 2008; non sa fare le foto, come scrive nella bio del suo profilo Instagram (verissimo, non mette a fuoco un soggetto manco a pagarlo); ha iniziato tempo fa una crociata contro Dario Fabbri, poiché sospettava che quest’ultimo non avesse una laurea e i fatti gli hanno dato ragione:
Fabbri non ha una laurea.
Senza entrare troppo nei dettagli (cercatevi tutto ciò che c’è da sapere su questo scoop del secolo su internet), il messaggio che Puglisi, laureato in economia, ha voluto lanciare al mondo, utilizzando ogni risorsa a disposizione, dai suoi profili social fino a chiamare in causa Le iene (quelle di Mediaset: cosa non si fa per una comparsata!) è questo:
Dario Fabbri non ha una laurea, motivo per cui non dovrebbe parlare di geopolitica in televisione, non dovrebbe avere credibilità alcuna poiché non ha conseguito titoli accademici, dovrebbe fare un altro mestiere e non spacciarsi per un cosiddetto esperto del settore
.
Ho deciso di chiamare questa visione (o sindrome) di Puglisi Puglisismo di mercato
, nonostante non sia solo la sua: i proseliti di questa religione sono numerosi.
L’ispirazione per questa definizione me l’ha data Mark Fisher (che non sono io, Mark Fisher è morto, io sono Mark Piscer, uno dei tanti discepoli-cloni di Fisher proveniente da un futuro prossimo: vado in giro con una lanterna per ricordare che, appunto, Mark Fisher è morto)
In Realismo capitalista, Fisher analizza un fenomeno diffuso nella burocrazia del tardo capitalismo e gli dà un nome: stalinismo di mercato.
Perché stalinismo
e perché questa nozione avrebbe a che fare con Puglisi? Vediamo. L’archetipo storico utilizzato da Fisher per spiegare lo stalinismo di mercato è la costruzione del canale che doveva collegare il Mar Bianco al Mar Baltico (progetto che ha interessato il biennio 1931-33) fortemente voluto da Stalin, il quale «spremette a tal punto il progetto»
da non riuscire, per mancanza di tempo, a raggiungere l’obiettivo per cui era stato costruito:
Giocare un ruolo centrale nell’economia e nell’industria dell’URSS. La necessità di risultati rapidi e pubblicizzabili fece sì che solo alcuni vaporetti per cronisti e turisti riuscissero a navigare il canale, invece delle enormi navi da carico.
Eppure il risultato simbolico e pubblicitario della riuscita del canale fu straordinario. L’obiettivo era terminare
il canale, non renderlo realmente efficace per l’economia sovietica. Questo attaccamento simbolico al risultato e alla sua rappresentazione, tipica dello stalinismo, secondo Fisher, è stato ripreso nell’epoca tardo-capitalista per essere spendibile nelle public relations:
Non è importante cosa tu sappia, cosa tu abbia imparato su un determinato argomento, come o quando, ma solo la ‘terminazione’ di un percorso. Secondo Fisher, nell’epoca neoliberista i percorsi formativi sono tutt’altro che formativi, assumono invece un enorme carattere simbolico (una sorta di classismo 2.0 mascherato da meritocrazia) nelle public relations:
Che le misure burocratiche si siano intensificate sotto un regime neoliberale che si presenta come antiburocratico e antistalinista potrebbe dapprima sembrare un mistero. Eppure ad aver proliferato è una nuova burocrazia fatta di ‘obiettivi’ e di ‘target’, di ‘mission’ e di ‘risultati’ [...] Il controllo centralizzato regna supremo [...] Quel che ci troviamo di fronte non è un raffronto diretto tra prestazioni o risultati, ma tra la rappresentazione (debitamente quantificata) di quelle prestazioni e di quei risultati. È ovvio che a questo punto si produce un cortocircuito: il lavoro viene predisposto alla produzione e alla manipolazione proprio di quelle rappresentazioni, anziché attrezzato per gli obiettivi ufficiali del lavoro vero e proprio. Non a caso, uno studio commissionato da un’amministrazione locale britannica afferma che «viene messo più impegno ad assicurarsi che i servizi locali vengano rappresentati correttamente che all'effettivo miglioramento dei servizi stessi». Questa inversione delle priorità è uno dei tratti distintivi di un sistema che possiamo tranquillamente definire ‘stalinismo di mercato’. Dello stalinismo, il capitalismo riprende proprio questo suo attaccamento ai simboli e ai risultati raggiunti più che all’effettiva concretezza del risultato in sé.
Continua Fisher più avanti:
In una strana coazione a ripetere, i governi britannici targati New Labour - in apparenza, il massimo dell’antistalinismo - hanno dimostrato la stessa tendenza all’applicazione di interventi i cui effetti nel mondo reale contano solo fintantoché possono essere spesi in termini di «comunicazione» […] Se gli studenti di oggi sono meno attrezzati e preparati di quelli che li hanno preceduti non è tanto per un calo qualitativo delle prove scolastiche: è perché l’unico obiettivo dell’insegnamento tutto è diventato proprio far superare gli esami: l’ossessione miope per la prova di esame (o per la laurea! Nda) si sostituisce a un impegno più ampio della materia di studio.
Insomma, la laurea di questi tempi ha un semplice significato simbolico se il fine è la conoscenza
.
Aggiungerei: non solo di questi tempi. Dario Fabbri decise di lasciare la facoltà di scienze politiche per «concentrarsi sulla struttura delle cose anziché sulla sovrastruttura», così dice. A 23 anni firmava contenuti per la versione italiana dell’International Herald Tribune, si è confrontato nel tempo con George Friedman, ha trascorso 10 anni in Limes, una delle riviste di geopolitica più vendute in Italia, ha poi fondato una sua rivista di geopolitica, Domino.
Ma secondo la concezione del Puglisismo di mercato, queste esperienze non bastano, perché manca il percorso simbolico della laurea spendibile nelle public relations e nella loro rappresentazione, come appunto scriveva Fisher:
«Il lavoro viene predisposto alla produzione e alla manipolazione proprio di quelle rappresentazioni, anziché attrezzato per gli obiettivi ufficiali del lavoro vero e proprio».
Prendo come esempio il mio curriculo universitario: triennale in Lettere Moderne, corso famoso per esami come Storia della letteratura italiana (una compressione di sei secoli di letteratura da assorbire in breve tempo, anche se ci prendi 30 dopo due settimane non ricordi davvero un cazzo e non hai imparato nulla: il vero risultato è che alla fine hai un esame in meno), magistrale in Filologia Moderna, in cui oltre ai classici esami legati alla filologia romanza ne sono stati fatti alcuni incentrati su quattro-cinque autori singoli.
Un futuro da Dottore in filologia, che di filologia, letteratura e filosofia conosce poco e nulla, ma ho dalla mia l’arrivismo simbolico della laurea, spendibile nella rappresentazione simbolica delle public relations (‘ho terminato il percorso’)
Infatti, il mio bagaglio culturale su questi campi si è formato interamente fuori dal percorso accademico, dove ho imparato veramente a conoscere. Per fortuna c’è la vita fuori dall’accademia. La mezza convinzione che io sappia realmente qualcosa di filologia mi è data esclusivamente da tutto ciò che ho coltivato fuori dall’università.
In secondo luogo, un altro ottimo esempio sono i corsi di formazione
forniti da siti come Webaccademia che dovrebbero farti accumulare punteggio per le graduatorie: i corsi si acquistano e si riempie un carrello proprio come si fa su Amazon, spesso tre al prezzo di due. In due giorni hai conseguito tre corsi, dopo aver preso le risposte da Studocu: non sai nulla, ma scali posti in graduatoria, sei credibile nelle public relations (‘ho terminato il percorso’)
Altro esempio interessante (a quanto pare me lo posso permettere perché ho una laurea in Lettere)
Luigi Pirandello. Pirandello è stato uno dei migliori conoscitori della lingua italiana, un vero e proprio feticcio per i filologi moderni e per i contemporaneisti della letteratura. Pirandello conosceva i meccanismi della lingua come pochi, la biografia ci dice che ha conseguito una prestigiosissima laurea a Bonn (considerata a inizio Novecento il miglior centro di studi delle scienze filologiche)
Ma la biografia ci dice anche un’altra cosa: Pirandello, che trascorse a Bonn tre semestri dal 1889 al 1892, nei primi due anni di università non sostenne nemmeno un esame, disertava le lezioni, scopava con le tedesche cornificando la futura moglie, mentiva quotidianamente sui progressi di studio al padre.
Riuscì nell’ultimo anno a dare tutti gli esami e a conseguire frettolosamente la laurea, con una tesi sommaria sul dialetto girgentino. Pirandello ha studiato filologia un solo anno della sua vita a livello accademico, infatti tutti sanno che Pirandello è diventato Pirandello grazie a una perenne formazione extra-accademica, per non dire proprio anti-accademica. La sua profonda conoscenza filologica non gliel’ha data la laurea a Bonn.
Per questo motivo, la crociata di Riccardo Puglisi, che è laureato in economia, contro Dario Fabbri, non laureato, sta in piedi solo per averci fatto conoscere Riccardo Puglisi, che è laureato in economia.
Perché dieci anni in Limes insieme ad altre esperienze extra-accademiche, forse, valgono più di un simbolico pezzo di carta. I feticisti di quel foglio chiamato laurea sono proseliti di questo Puglisismo di mercato, secondo i quali una collezione di titoli li posiziona al di sopra di chi studia analoghi argomenti sprovvisto di laurea. Il conseguimento simbolico di un percorso contro la sua effettiva funzione.
Un giorno, spero, piscerò anche io sulla mia laurea, come ha fatto il mio spirito guida (sì, Fisher è laureato con tanto di PhD, ma fu felicissimo di portare i suoi contenuti fuori dal potere accademico, anzi, lo riteneva un passaggio imprescindibile)
Ma alla fine di tutto, un mistero rimane:
Non si capisce come sia possibile che uno come Riccardo Puglisi, che è laureato in economia con tanto di PhD, non sia su tutti i talk show televisivi.
Eppure ha tutte le caratteristiche necessarie per essere contemporaneamente su ogni canale: ha laurea in economia, dottorati vari, si dice progressista, atlantista a oltranza, ama il Kapitale e il neoliberismo, fa la spia a Israele tramite Twitter se qualche ambasciatrice critica il sionismo (come quel compagno odioso che, armato di gesso, divide in due la lavagna scrivendo i nomi dei buoni e dei cattivi, con la differenza che questa volta non gliel’ha ordinato nessuna maestra)
Con tutti i suoi titoli e le sue argomentazioni, ancora oggi gli preferiscono Orsini. Una vera ingiustizia.