Quei Grandi Magazzini per Casalinghe e Disperati

Quei Grandi Magazzini per Casalinghe e Disperati
Lettura boomer
Racconto allucinato sui Grandi Magazzini, senza mancare di elitismo e schizonarrativa. Siamo seppur pochi: nobili.

“Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore

il grembo dimagrato della terra?”

Quei grandi magazzini per casalinghe e disperati, invenzione di qualche pervertito nordeuropeo, hanno di interessante solo il fascino terribile dell’ingegno umano degenerato, ossia della meccanizzazione, del gigantismo, della potenza ottusa e violenta.

Propongono un’estetica tutta improntata alla più banale regolarità delle forme. 

Della matematica – arte sublime – conoscono solo la retta, e mai si avventurerebbero nelle metageometrie delle ellissi e delle iperboli, nelle superfici irregolari, nelle funzioni di più variabilinegli spazi contorti delle fibrazioni, delle ipersfere, dei nodi.

Riemann, Bolyai, Hopf, Möbius, Gauss, Lobačevskij: tutti sconosciuti. 

Il risultato è un panorama sconfortante di scaffaloni a perdita d’occhio, linee rette su linee rette che convergono verso un fuoco prospettico e in mezzo i muletti e gli operai, attrezzi entrambi di una macchina impersonale, cinica, patologicamente razionale e per questo deficiente.

Loro, lavoratori e avventori, sono anche contenti: agli schiavi facciamo amare le catene. 

Niente farebbe orrore più grande a chi serbi la più piccola considerazione per la vita, e difatti il gentiluomo se ne tiene alla larga. Di tanto in tanto, però, pure al cherubino più luminoso capita di perdere una piuma. 

Così, con una piuma mancante, commetto peccato contro il buon gusto e contro la mia natura di elitista, di eremita, di isolato: mi ci reco. Gli errori, si sa, alla fine si pagano, e il fato mi presenta il conto in fretta.

Sono costretto a mettermi in coda – di per sé cosa inaudita per uno della mia estrazione – e ad aggravare la pena ci sono le signore che mi precedono, evidenti propugnatrici di un veganismo sconclusionato, goffe dietro i loro carrelli colmi di specialità scandinave, di tofu e di soia. Oscenità quadratica anzi cubica. La mia sensibilità di carnivoro e predatore ne è ferita irreparabilmente, e subito riconosco il mio errore e me ne pento e so che la punizione è giusta. 

Prendo il fatto come un monito e combatto la tristezza pensando alla riapertura della caccia, alle primavere e alle estati che ogni anno separano gli ultimi uomini d’Occidente dai loro fucili. Penso al cinghiale, alla beccaccia, al capriolo, al lepre, al fagiano, alla quaglia, alla pernice e pure al bracco di Weimar che coadiuva il cacciatore.

Anche lui è l’ultimo di una stirpe europea, quella del canide domestico libero e felice (la mia impressione trova immediata conferma: dietro di me, in fila, c’è anche un Setter inglese, triste al guinzaglio di quella seviziatrice di padrona che si diverte a travestirlo da peluche)

Per galanteria posso fingere di essere arrivato più tardi di loro, suggerire che vadano prima alla cassa,  loro due carrelli, io un barattolino misero. È quello che faccio. Non battono ciglio, avanzano. 

Attendo, paziento, arriva il mio turno. Il cassiere smonta, fine turno. Arriva la sostituta e si sistema. Finalmente sto per riguadagnare la mia libertà. 

No. 

La mia afflizione ancora non si esaurisce: una donna doppia la coda e si infila tra me e la cassa con la massima spavalderia. Non capisco, ma non fiato. 

Poi la mia consorte (fino ad allora rimasta silente, con mia incommensurabile sorpresa) la quale non condivide con me la stessa considerazione per la diplomazia, accenna un lamento

Dietro di me, la seviziatrice di canidi apre la bocca e fa vibrare le corde vocali: 

– È un gesto di cortesia. Anzi, sarebbe dovere! – ammonisce con tono marziale. 

Mi volto, vedo l’addome gonfio della donna che ci ha superati. Ora capisco. La signora è gravida e si aspetta di poter saltare ogni fila. L’altra, che intuisco essere, dallo sgorbio che le orbita appresso, giovane madre anche lei, solidarizza con la prima.

E il tedio si somma al raccapriccio. 

Ci si intenda, su questo punto: non si creda mai che, a cortese richiesta, io possa rispondere di no – quale che sia la circostanza. La cavalleria, di cui mi pregio essere degno rappresentante, mi impone di cedere il passo, aprire la porta, usare gentilezze verso ognuno. 

 – È un fatto di civiltà, di buon senso! –  incalza quella da dietro. 

La puerpera imminente ha usato scortesia somma, ha imposto il buon senso – il quale, quando è imposto, cessa di esserenon ha dato spiegazioni, non ha pronunciato un mi scusi; non un posso?, non un grazie

Quale interpretazione malescia dell’empowerment femminile, quale fraintendimento idiota del comune sentire autorizza a non dire grazie e a non chiedere per favore? Temo che il nascituro ingrosserà le file già gonfie dei malavvezzi di tutto il mondo. 

Oramai è compiuto l’irreparabile: la mia signora non le manda certo a dire. 

Così sono imbrigliato in una schermaglia mulìebre che si protrae e si protrae e si protrae, che dura infinitamentema io non oso certo intervenire. A nessuno piacciono gli ignavi; io me ne rallegroché da solo sono in ottima compagniae permango nella mia indifferenza, ma pure nella disperazione.

Il Padre della Lingua pose gli indecisi sulle rive dell’Acheronte e li immaginò puniti da vespe e mosconi. Oggi, senz’altro, a vedere le schiere di subnormali che assumono ogni posizione su ogni argomento, farebbe ammenda e li penserebbe virtuosissimi. 

Me ne sto in silenzio, e lo scontro infuria. Dura ancora, e io sopporto. Non finisce, e mi dispero. 

Trascorsi, tutti interi, questi atroci quattro secondi, il furore si placa. 

Pago quello che devo, sono fuori. 

Il mio acquisto, costato così poco in denaro, è costato tutta una vita di sforzi a non subire l’altrui cattivo costume, a tenersi separati, in disparte. 

Il mio elitismo, rintuzzato sempre dalle spinte esterne ad una concezione democratica dei rapporti, trattato come un’onta, cacciato nell’ironia e nello scherzo, esplode ad un tratto, drizza la schiena, gonfia il petto e rimarca una differenza, una distanza. 

Visto che a separarci dai malnati c’è un abisso incolmabile, considerato che tra noi esiste una cesura spirituale, intellettuale e di lignaggio, registrata l’incompatibilità di costumi ed etichette, non posso fare altro che rivendicare il mio spazio

Questo pomeriggio imparo una lezione: a voler fare torto alla mia natura, sono capitato nel grembo malato e rettilineo del mondo, dove la vita, che è spontanea e curva, è costantemente negata. In questa tomba della fantasia e della personalità, in questo cesso ove sono scaricate ogni originalità e ogni individualità, quali figure mi aspettavo di incontrare? 

Faccio mea culpa: so di aver meritato ciascuna di quelle trivialissime interazioni, capisco di aver lavorato alla mia sventura. 

Così torno a casa rasserenato da una consapevolezza nuova, che con sé porta una risoluzione ferrea e non negoziabile: che d’ora in avanti, della spesa, si occupi la servitù. 

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