3,50€ di biglietto (grazie Ministro Sangiuliano) suonavano un affare imperdibile.
Le premesse erano buone: combo serata low cost con gli amici+instastoria intellettualoide per far colpo sulle tipelle del DAMS+una pellicola italica di cui non sapevo nulla, se non il titolo (che mi è stato ripetuto più volte per colpa del ADHD – il mio cervello zòstile ha rimosso 0,4 sec dopo che mi è stato comunicato), per arieggiare i gangli polverosi del mio encefalo.
Occasione ghiotta. Non ci hanno messo molto a convincermi. Per di più, mancavo da un po’ in sala.
In realtà chiamare quello splendido chiostro sala non gli fa onore. Si apriva nel mezzo di un bellissimo complesso religioso, nel pieno centro di Milano, con tanto di chiesa e adiacente campanile. Un gioiello. Riecheggiava nell’aria la sacralità che doveva aver avuto quando era ancora abitato da chierici. C’era un evidente dissonanza con la profanità delle proiezioni. Ora era un classico cinemino all’aperto, ma con doppio schermo (per massimizzare i profitti) e cuffiette per tutti. In pieno stile Milano-Male: isolamento totale, assoluto. Abolita ogni interazione umana. Nessun rimbrotto agli spettatori rumorosi delle ultime file, nessun commento/risatina/ingiuria/battuta. Una silent-disco, cioè, un’anti-discoteca (senza casino, urla, insulti, scazzottate col maranza che vuol abbordare la ragazza del vostro gruppo, fischi molesti o richieste insistenti gridate al DJ) in veste di cinematografo. In pratica l’anti-cinema.
‘Sta cosa delle cuffie mi aveva mal predisposto. E’ stato il primo gabbo. Quello successivo è stato anche peggio.
Certo, non mi aspettavo ovviamente la trasposizione cinematografica di Instadrama (per quello C.Palis vorrà prima aspettare di poter mettere nei titoli di coda “tratto da una storia vera”), ma, se non quello, il titolo faceva comunque ben sperare: magari un horror o un qualche thriller dal gusto un po’ noir. I miei accompagnatori sembravano rilassati. La mia fantasia correva. Ma la prima scena le ha amputato le gambe.
Ziopera…
Una casa borghese in centro di Bologna. È il 1858 e lo Stato della Chiesa estende il suo abbraccio su tutta l’Italia centrale e sulla Romagna. Lo si capisce in fretta perché Bologna è pulita, le comparse non hanno le Birkenstock e a nessun personaggio viene passato neanche una volta uno spinello intinto negli acidi per tutta la durata della proiezione. Sembra persino un posto abitabile. Ma questo lo capiamo solo una volta usciti dalla dimora.
Prima: una serie di lunghissime scene ci fa capire che in questo sfondo storico vive una coppia di giudii italiani, con numerosa prole e fervente credo religioso. Ci viene descritto un perfetto idillio domestico, finché alla porta non si presenta la Santa Inquisizione, con ordini precisi: prelevare Edgardo Mortara, uno dei bambini, che sarebbe stato battezzato clandestinamente e pertanto non potrebbe essere allevato da dei miscredenti. I metodi della Congregazione della dottrina della Fede sono violenti. Il loro modus operandi non ha niente da invidiare a quello della Gestapo; sembra da subito di star vedendo un film su Anna Frank. Al prelievo del bambino segue la sua “deportazione” a Roma. Viene rinchiuso in un riformatorio, privato della propria identità e spersonalizzato (con tanto di divisa) completamente.
Dai primi minuti di film avevo già intuito la solfa… Era chiaro: per ricordare a tutti gli spettatori la rottura di palle che rappresentava da bambini l’ora e mezza di catechismo settimanale il regista ha deciso di restituircela plasticamente, rincarando la dose, con 120 e passa minuti (percepiti 250) di girato, semplicemente rovesciando contenutisticamente i sermoni delle dolci signore che si sono occupate della nostra anima di fanciulli…
Ora, tralasciando le interessantissime svagellate psicologiche che coinvolgono i personaggi co-protagonisti del piccolo Edgardo (che tra tutti appare più come una macchietta, quasi un oggetto monodimensionale e prevedibile nei movimenti), il messaggio del film appare tanto evidente quanto semplice e fuori tempo massimo o, meglio, perfettamente in linea con i tempi.
Con un costante gioco speculare, si mettono a confronto le due religioni che cercano di strapparsi reciprocamente il bambino.
Da un lato l’ebraismo, culto familiare, intimo, in un certo senso vero e autentico; dall’altro il cattolicesimo, male assoluto, religione vuota, fatta di formulette insignificanti e dogmi assurdi.
Ziopera (ancora…) ragazzi… Che occasione sprecata. La storia di una conversione, per quanto controversa e discussa, spacciata per il più volgare dei plagi e trasformata in una piattaforma per scagliare stilettate alla Chiesa… Difficile immaginare qualcosa di più scontato.
Qualche vago cenno malizioso alla cura ecclesiastica per gli infanti chiude il cerchio. La pellicola è incentrata quasi esclusivamente sull’infanzia del rapito, che vive quella che sembra a tutti gli effetti una sindrome di Stoccolma da manuale.
Eliminato totalmente ogni afflato mistico, ogni riferimento ad un piano che non sia terreno, politico, umano.
Ecco perché è una perdita di tempo abbandonarsi in questa sede ad approfondite analisi psicologiche sui personaggi: ad eliminare un pezzo della psicologia di ogni maschera, il più importante se si parla di religione, è stato proprio il regista. Pur con un occhio di riguardo per il credo israelitico, ha dipinto indistintamente ogni religioso come assolutamente cieco verso le reali esigenze umane, tutte, logicamente, materiali o affettive. Spazio per qualsiasi aspetto trascendentale non pervenuto. I diversi tentativi tutti umani di comprendere l’Assoluto sono ignorati.
Al limite, è Cristo che scende dalla croce e se ne va dalla scena, come accade in uno dei frangenti più divertenti e randomici della pellicola, (Edgardo, sonnambulo, arriva ai piedi di un crocifisso ligneo solo per vedere Gesù farsi carne e andarsene voltandogli le spalle)
D’altro canto, resta difficile credere che non ci si volesse occupare di religione, di spirito, e che si volesse fare solo un pippotto su identità personale e infanzia rubata, dato che se ne parla per tutto il film…
Pio IX almeno è un basato, nessuno lo nega, che se ne esce con qualche frase da ciarru (una su tutte: Non sono reazionario, io resto fermo, è il mondo che si muove verso il precipizio)
Tuttavia non riesce a salvare il film (anche se sembra provarci): sembra disegnato più come una caricatura del personaggio storico che una riproduzione del reale, con un effetto talvolta addirittura straniante. Poco più di un nazista con papalina e segni pastorali, che sciorina teorie assurde, superate e ha paura che quattro €🅱️®️€¥ lo circoincidano nel sonno (amio, troppo noi).
In questo senso, a dispetto del discorso psicologico che si vuole imbastire, è una macchietta pure lui. Troppo villain per dire qualcosa che passi al pubblico e che assomigli anche solo vagamente a un messaggio positivo. Piuttosto il cattivone della situa, condannato dalla Ragione e dalla Storia, che non si accorge di essere finito, a cui si dà, in definitiva, la parola e lo spazio d’azione solo per tratteggiare ciò che non si deve fare o pensare.
Interessante solo per riflessioni da cinefili (quindi non noi, a cui frega solo di odiare l’Anticristo)
Questa vicenda ha, comunque e innegabilmente, una coloritura intrigante, anche solo per il fatto descritto in sé e il contesto storico in cui è inserita. Quest’ultimo sconta però un trattamento di sufficienza. Non è un film sul Risorgimento, che, anche giustamente, è poco più di uno sfondo. L’Unità (che è un tassello importantissimo nell’economia del film, dato che aiuta a sbloccare una situazione che pareva congelata) raggiunta (con un paio di scene appena abbozzate) viene figurata come la fine della barbarie della Chiesa e l’inizio del regime illuminato Sa🅱️oia, niente di più.
Si vuol far pensare allo spettatore meno male. Dopo tutta la sterile foga con cui ci si scaraventa contro il Papa, a me ha fatto rimpiangere lo Stato della Chiesa. È un film che ha i suoi difetti, anche tecnici (la CGI meglio non commentarla – a questo punto, perché abusarne? – ma da un film italiano con un budget contenuto questo ci si deve aspettare), con una linea comica degna di Occhi del Cuore (il bambino del Ghetto che dileggia la vuotezza dei rituali cattolici in romanesco… perché…), ma che tutto sommato non è neanche male da questo punto di vista.
D’altronde, Bellocchio è un regista navigato, un professionista, sa quel che fa e il film tocca un patetismo che è in grado anche di commuovere lo spettatore. E, anche se mi rendo conto di avergli tirato contro un wall of text (che avrei allungato volentieri se avessi avuto lo spazio), lo ringrazio.
Ho sentito Dio più vicino che mai per tutta la visione del film.