“Ma chi ha disegnato la Mauritania? Dei geometri?”
Un mio compagno di classe delle elementari che aveva capito che qualcosa non andasse in Africa.
“Danny Archer : American, huh?
Maddy Bowen : Guilty.
Danny Archer : Well, Americans usually are.
Maddy Bowen : Says the white South African?
Danny Archer : I’m from Rhodesia!
Maddy Bowen : We say Zimbabwe now, don’t we?
Danny Archer : Do we?
Maddy Bowen : Last time I checked.”
Dialogo tratto dal film Blood Diamond: Diamanti di sangue.
È difficile comprendere come un film statunitense mainstream come Blood Diamond, diretto da Edward Zwick e uscito nel 2006, sia diventato uno degli emblemi della sottocultura dell’Alt-right, che ha ripreso il dialogo sopracitato dove uno dei protagonisti rivendica le sue origini rhodesiane. La pellicola in questione, ambientata durante la Guerra civile sierraleonese del 1999, tratta della vicenda di un mercenario rhodesiano, Danny Archer, che aiuta il locale Solomon Vandy a vendere un diamante in cambio del ritrovamento della sua famiglia. Le controversie riguardanti questo film riguardano il personaggio di Archer, interpretato da Leonardo Dicaprio, per via delle sue origini. Risulta incomprensibile, a diversi esponenti dell’attuale sinistra angloamericana, che un personaggio rhodesiano venga ritratto non in maniera completamente negativa, che abbia quindi uno spessore e non sia un token per far vedere quanto fosse terribile il regime rhodesiano. Cosa alquanto incomprensibile, dato che Archer rappresenta un archetipo ricorrente del cinema statunitense e dello stesso mondo angloamericano, quello del rugged-individualist, ovvero l’individualista, blessato da Dio alla maniera protestante, che, nonostante le azioni egoiste, è utile involontariamente alla società.
Ma che cos’è la Rhodesia? E perché la sinistra angloamericana ce l’ha tanto con questo stato attualmente inesistente?
Brevemente, nel 1965 Ian Smith, politico conservatore del Fronte Rhodesiano, proclamò l’indipendenza del governo coloniale della Rhodesia meridionale, in controtendenza con le altre colonie inglesi, con un governo a maggioranza bianca e in maniera unilaterale. Questo causò una forte reazione avversa a livello internazionale, con una serie di embarghi e sanzioni, che portarono la neonata entità a stabilire relazioni amichevoli solamente con il Sudafrica, caratterizzato da un regime similare, il Portogallo, impegnato contro i movimenti comunisti delle sue colonie e Israele, avente problematiche geopolitiche in comune.
Ed è qui che si comprende il perché la Rhodesia sia adorata da alcuni estremisti dell’Alt-right, ovvero per l’analisi elitista sul potere gestito da una minoranza bianca, per giunta in una situazione in controtendenza con lo zeitgeist post-coloniale. Di conseguenza, si può facilmente intendere l’antipatia dei progressisti, favorevoli alla decolonizzazione e contrari ad un modello inegualitario, dal punto di vista sia razziale che economico.
Ora, il fatto che una minoranza bianca sia al comando di un Paese africano sfocia in accostamenti, delle istituzioni rhodesiane nonché dello stesso Smith e dei suoi simpatizzati, al nazismo e al fascismo. Ed è qui che chiunque difenda la causa rhodesiana può giocarsi, se desidera, la prima carta per counterare queste accuse: Ian Smith fu un partigiano, in Liguria e in Piemonte, con le brigate azioniste. Questo perché da volontario nell’aeronautica subì un abbattimento del suo aereo, che lo fece precipitare nel savonese.
Tornando al discorso precedente, oltre all’isolamento internazionale, il paese rhodesiano dovette fare i conti con la decolonizzazione e il diffondersi dell’ideologia marxista-leninista nel continente africano. Ora, diversi marxisti hanno sostenuto l’origine artificiale del nazionalismo, ma la situazione rhodesiana, come quella della decolonizzazione, ha dimostrato il contrario. Infatti, i diversi movimenti nazionalisti del secondo e del terzo mondo, si “tinsero di rosso”, per cercare aiuti, economici e militari, da Unione Sovietica e Cina.
Di conseguenza, in Rhodesia, negli anni ’60, nacquero lo ZANU, appoggiato principalmente dalla Cina e lo ZAPU, sovvenzionato principalmente dall’URSS, entrambi rappresentanti di due differenti gruppi etnici africani.
A partire dal 1964 (anche se si verificarono episodi violenti negli anni precedenti), con lo scoppio della Guerra civile rhodesiana, tra il governo di Smith e le formazioni comuniste, si creò un altro mito: quello dell’efficienza delle forze armate rhodesiane. Tra queste, spiccano i Selous Scout, unità specializzate nella ricognizione e nell’infiltrazione tra le file nemiche, caratterizzate esteticamente dai loro pantaloncini cortissimi e dall’uso del fucile belga FN FAL.
A partire dagli anni ’80, con la cultura “muscolare” si rinforzò l’esaltazione della figura del soldato rhodesiano, noto per il suo alto rendimento e per le poche perdite del suo esercito durante le operazioni militari in questo conflitto civile africano. Anche in Italia si diffusero riviste, ispirate da quelle statunitensi, che in netta controtendenza con l’attualità, negarono il razzismo rhodesiano e sudafricano, e criticarono duramente personaggi come Nelson Mandela. Inoltre, bisogna sfatare il mito che le forze rhodesiane fossero composte solo da bianchi. In realtà, sia l’esercito che la polizia ebbero una maggioranza nera, per vari motivi: innanzitutto perché rispecchiarono l’effettiva maggioranza della popolazione, poi perché lo stipendio fu elevato, e infine perché molti neri subirono violenze o sequestri da parte dello ZANU e dello ZANLA.
La Rhodesia non fu certo un paradiso, anche se dimostrò un’ottima capacità bellica. A seguito del conflitto, il Paese avviò una serie di accordi con i nemici per la trasformazione in una democrazia, a partire dal 1979. Il motivo della fine della Nazione fu quindi istituzionale: la strategia di Smith di non riformare nettamente il sistema segregazionista causò un crescente isolamento internazionale. Purtroppo, sappiamo tutti com’è andata poi, con Robert Mugabe, leader dello ZANU, che ha trasformato il Paese nella Z-parola, instaurando una dittatura comunista.
Ma lo spirito rhodesiano non è morto del tutto, infatti, in diverse democrazie occidentali multietniche le sottoculture su internet della destra radicale hanno riportato in auge l’esperienza rhodesiana. Anche in contesti spiacevoli, come la sparatoria di Buffalo del 2022, compiuta da un etno-nazionalista, affascinato dal segregazionismo del Paese africano.
Su questo tema, sembrano preveggenti le sceneggiature di Rolling Thunder e Taxi Driver, ispirate dall’etica protestatante di Paul Schrader, e trasposte, più o meno fedelmente negli omonimi film. Ma questo discorso aprirebbe un tema molto ampio sulle dinamiche sociali, e su quelle cripto-religiose, che caratterizzano questi attentatori.
Di certo, possiamo affermare che la Rhodesia è rinata sulla rete, in maniera seppur idealizzata dai membri dell’Alt-right che sono cultori di Edward Zwick, contribuendo all’idea pessimista sulla convivenza pacifica tra più gruppi etnici consistenti in un’unica nazione. Tra gli intellettuali affascinati dallo Stato, troviamo anche Nick Land, che già nel testo Kant, Capital, and the Prohibition of Incest del 1988, seppur con considerazioni differenti dal suo pensiero attuale, affrontava il tema dell’apartheid, analizzando criticamente Kant e il rapporto tra sessualità e colonialismo. Mentre, in tempi recenti, si è lasciato andare a considerazioni più tranchant su X.
In questa parte finale dell’articolo, è doveroso citare il film italiano Africa Addio del 1966, diretto da Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. I due documentaristi, il primo celebre cine-giornalista montanelliano e il secondo ittiologo, sono stati pionieri del genere mondo film, a cui appartiene lo stesso Africa Addio. Queste pellicole erano documentari in cui i due registi – inizialmente coadiuvati anche da Paolo Cavara, passato poi al cinema d’autore e divenuto critico delle avventure cinematografiche dei suoi ex colleghi con il film L’occhio selvaggio – filmavano, con un discreto occhio registico, sequenze di violenza, scandite da un commento spesso al limite del black humor.
Ecco, la soluzione reazionaria del modello segregazionista come soluzione alla decadenza del mito romantico della vecchia Africa è la stessa che anima ancor’oggi alcuni estremisti sulla rete. Ma perché questo film risulta interessante per parlare della Rhodesia? In primo luogo, per la tesi di Jacopetti, che compare all’inizio del film:
“L’Africa dei grandi esploratori, l’immenso territorio di caccia e di avventura che intere generazioni di giovani amarono senza conoscere, è scomparso per sempre. A quell’Africa secolare, travolta e distrutta con la tremenda velocità del progresso, abbiamo detto addio. Le devastazioni, gli scempi, i massacri ai quali abbiamo assistito, appartengono a un’Africa nuova, a quell’Africa che seppure riemerge dalle proprie rovine più moderna, più razionale, più funzionale, più consapevole, sarà irriconoscibile. D’altronde il mondo corre verso tempi migliori. La nuova America sorge sopra le tombe di pochi bianchi, di tutti i pellirossa e sulle ossa di milioni di bisonti. La nuova Africa risorgerà lottizzata sulle tombe di qualche bianco, di milioni di negri e su quegli immensi cimiteri che una volta furono le sue riserve di caccia. L’impresa è così moderna e attuale che non è il caso di discuterla sul piano morale. Questo film vuole soltanto dare un addio alla vecchia Africa che muore e affidare alla storia il documento della sua agonia”.
Questo discorso, sostenuto dal film, è stato criticato come una continuazione su pellicola dei discorsi fascisti di Montanelli, vista la vicinanza intellettuale tra i due e il comune abbagliamento giovanile per il Fascismo, come ad esempio quello che è stato più volte citato per denigrare il giornalista milanese, nel 1936:
“Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può. Non si deve”.
Ma quello di Jacopetti non è un discorso fascista, anche perché siamo ormai negli anni ’60. Già dal ’44 il regista era passato dalla parte dei partigiani, ma il suo film è un’espressione di un’illusione di un’idea dell’Africa idealizzata, delle avventure africane alla Salgari, che decade al confronto con la realtà decolonizzatrice. Alle scene di estrema violenza, come il genocidio dei musulmani dello Zanzibar ad opera dei tanzaniani, durante il quale Jacopetti stesso viene ferito e messo al muro dai soldati africani per poi essere risparmiato in quanto italiano, è contrapposto il Sudafrica bianco. L’apartheid non viene criticato dai due registi, che si lasciano andare ad una ripresa di Cape Town, esaltandone la modernità e le bellezze femminili bianche. Ecco, la soluzione reazionaria del modello segregazionista come soluzione alla decadenza del mito romantico della vecchia Africa è la stessa che anima ancor’oggi alcuni estremisti sulla rete.