Siamo insetti - Profezie digitali del terzo millennio

Siamo insetti - Profezie digitali del terzo millennio
A Roma Termini e in altre stazioni compare la scritta: SIETE INSETTI, e un po' ha ragione. Nonostante il marketing.

Roma Termini, 24 marzo 2024.

Stavo nella sala d’aspetto a cercare il mio treno sul tabellone a led quando, a causa un glitch nella matrice, la scritta SIETE INSETTI compare ovunque.

siete insetti roma milano

A quanto pare è una trovata pubblicitaria di Netflix. Peccato: un incipit del genere è più avvincente se prelude a una realtà che supera di molto la finzione.

L’infosfera è quella palla virtuale di dati dentro cui rimbalziamo nella vita di tutti i giorni.

Gli algoritmi che la comandano a volte sono affidati ai social, altre volte sono dentro di noi. L’algoritmo che presiede alla mia sopravvivenza censura automaticamente tutto ciò che potrebbe nuocere alla mia efficienza.

Si chiama economia cognitiva, ed esiste da molto prima che un termine la battezzasse.

È quella funzione che mi fa dimenticare degli escrementi che ho scavalcato sul marciapiede, di quante monetine possiedo in tasca in questo momento, del numero di gradini che separano casa mia dalla strada o se oggi ho già preso le medicine (scherzo!)

La memoria si mantiene sulla costante erosione di ciò che si dà per scontato che invece possa conservare. Dimenticare le cose è fondamentale per sopravvivere. Non chiuderei occhio se sapessi esattamente quante cartoline ho nel mio comodino, quali e quanti quadri sono appesi in casa o quanti passi ho fatto tra pranzo e cena.

TMI = troppe informazioni.

La nostra mente, per mantenerci sani, ci ricorda di dimenticarci che siamo una razza di scimmie in un pianeta minore del sistema solare, sul bordo della Via Lattea, comparsa appena 200.000 anni fa mentre i mammiferi esistono da decine di milioni di anni, le piante da centinaia di milioni di anni, i batteri da miliardi di anni e questo pianeta da oltre dieci miliardi di anni.

Ogni volta che ci penso ho un brivido.

Siamo tutti tenuti in vita da un algoritmo, e a sua volta siamo piccoli algoritmi di un algoritmo molto più grande. La società. Se penso che siamo quasi 8 miliardi in questo mondo mi sento male.

Siamo tanti, siamo troppi, siamo talmente tanti che ormai la possibilità che ci sia qualcuno di perfettamente uguale a noi mentre ancora siamo in vita è sempre più prossima. Tutta la storia che siamo unici, irripetibili, non è da buttare via, per carità. Ma si ricordi che così numerosi siamo anche dannatamente sostituibili.

Una volta nel cortile della scuola elementare ho costruito un parco divertimenti per formiche: lasciando piccole briciole di cracker in un percorso formato da buche e montagnole, spingevo le formiche a seguire una scia tracciata da me.

  • Se una formica si allontanava per esplorare autonomamente la rimettevo sul percorso principale.
  • Se faceva resistenza la allontanavo di qualche metro (chilometri per loro!)
  • Oppure la seppellivo per la sua disobbedienza.
  • La mia piccola soddisfazione era tutta nel vedere una colonna di formiche seguire i binari che avevo loro tracciato.

Io un capostazione me lo immagino così.

Le stazioni di una volta, quei bei palazzi tra il liberty italiano e le linee rette dell’architettura fascista, con una stanza al secondo piano da cui dominare tutti i binari e la piazza antistante. Come una torre di controllo.

Le persone vanno e vengono seguendo i binari. Le carrozze sono le briciole da seguire. Le porte sono chiuse tra una stazione e un’altra: non puoi decidere che adesso non ti va più, che vuoi scendere lì in mezzo alla campagna per prenderti un po’ d’aria pulita.

Devi seguire la colonna.

Bologna, 2 agosto 1980: una bomba rade al suolo la stazione ferroviaria. Indagini, depistaggi, strategia della tensione e servizi segreti deviati. Muoiono in 85, è il più violento attentato degli anni di piombo. Hanno spostato la stazione? No. La colonna di briciole di pane rimane lì e le formiche sempre la seguono.

Roma, 24 marzo 2024. Qualcuno (il capostazione?!) si inserisce nel sistema informatico dei tabelloni degli orari.

È questione di 10 secondi, dubito che qualcuno si sia perso un treno per questa sortita. Ma il velo di illusione narcisista viene squarciato dalla verità. Ci dicono che siamo insetti: cazzo, è vero.

Chi è che c’è lo dice? Dio? L’algoritmo? (c’è differenza?!)

È un uomo che accusa un altro uomo? È un uomo che accusa la società tutta? È un uomo che accusa la massa informe? È un delirante sceneggiatore di Black Mirror che finalmente scrive una trama decente? Si sta realizzando uno scenario preconizzato da Mr. Robot (che Elliot sia un insetto è risaputo: basta guardarlo negli occhi)?

È il capostazione che giudica la pletora di individui che ogni giorno a decine di migliaia gli passano sotto gli occhi come i granelli di sabbia sfuggono da un pugno troppo stretto?

È un redivivo Kafka che non ha finito di mettere a nudo la nostra abominevole metamorfosi?

Le battute sul gioco di parole insetti e bug informatico si sprecano; chi sottrae la lettera S per mutare il messaggio in “Siete inetti” creando un cortocircuito tra la metamorfosi kafkiana e lo Zeno di Svevo; visto il clamore suscitato pagine social e media manager si lanciano in elaborate photoshopperie per rimbalzare gli slogan politici in vista delle prossime europee.

C’è anche chi non ci sta, e giustamente osserva che gli insetti non siamo noi privati cittadini, ma lo Stato e Trenitalia, che si sono piegati facendo usare le proprie infrastrutture per la pubblicità di una multinazionale.

Io apprezzo sinceramente il suo ottimismo: c’è qualcosa di eroico, quasi nostalgico, nell’avere una visione politica così secca e perentoria, qualcosa che sicuramente manca all’attuale classe dirigente.

Se fossi un politico sarei sconfortato nel vedere un’industria simbolo dello Stato che dovrei rappresentare sfruttata e cannibalizzata da una multinazionale straniera come Netflix, che costruisce il proprio potere sulla costante in(s)ettitudine delle persone.

Persone che vorrebbero disdire l’abbonamento, ma hanno disimparato come si fa e rimandano di mese in mese da anni. Le stesse persone sempre più sole, che pagano sempre di più un servizio che propone serie TV tutte ugualmente noiose e piatte, prodotte di fretta e con la stessa matrice stinta per far compagnia durante i pasti a individui sempre più isolati.

Persone che travolte dalla vita frenetica – NASCI, PRODUCI, RIPRODUCI, MUORI – hanno perso ogni gusto per il cinema, sempre più anestetizzate da una settima arte in cui i registi hanno perso tutta l’autonomia che la New Hollywood aveva dato loro.

Io ricordo i film usciti tra gli anni ‘60 e ‘70, talmente belli e dirompenti che l’industria classica del cinema aveva dovuto fare un passo indietro per lasciare spazio ai Martin Scorsese, ai Francis Ford Coppola, a Brian De Palma o Robert Altman.

Letteralmente degli scappati di casa, i soliti hippie avrebbe detto qualcuno, che con una macchina da presa e budget ridicoli portavano al cinema fiumane di gente. Una rivoluzione dal basso che in Italia aveva la sua degnissima controparte nelle mani di Vittorio De Sica, Dino Risi, Francesco Rosi, Mario Monicelli, Antonioni, Visconti e Rossellini. Che cosa rimane oggi di quell’America? E di quell’Italia?

Poco più di niente.

Il cinema è nato come l’opera d’arte di un’autorialità forte, complessa e collettiva, ma che sempre umana autorialità rimaneva. L’anno scorso si è concluso fruttuosamente uno sciopero di sceneggiatori e attori che difendeva esattamente il lavoro dei primi dall’avvento delle Intelligenze Artificiali. Perché fare un’opera che piaccia al pubblico, diciamolo, non è poi così difficile.

Oggi non serve: altri tempi, altri costumi.

  • Oggi è sufficiente modellizzare computazionalmente l’eco mediatica di un prodotto di successo, incrociare i dati con la stessa eco di un altro prodotto di successo ed individuare gli aspetti nevralgici su cui investire. 
  • A questo punto buttare tutto in pasto a Chat-GPT che tiri fuori una sceneggiatura raffazzonata su cui il regista di turno monti una serie superficialotta, coi personaggi tagliati con l’accetta. 
  • Ma non ci si pensi alla qualità del prodotto: non è pensato per persone, è pensato per insetti.

Io mi immagino queste intellighenzie hollywoodiane in alti palazzi di cristallo, incapaci di guardare in basso al popolino se non tramite complessi modelli matematici elaborati non da loro. Muovere le trame di un racconto come i fili di un burattino dal funzionamento elementare. E osservare masse informi di scarafaggi che si rivolgono su se stesse cercando di inseguirne i movimenti, burattini a propria volta.

Kafka ci ha detto che siamo insetti, perché siamo inetti, perché un giorno ci svegliamo ma non riusciamo ad uscire dal letto. Questa società ci vuole fuori dal letto, e allora via con i messaggi motivazionali, con la prossima bandierina da rincorrere per alzarci dal letto, sì, ma sempre rimanendo insetti.

Sì, siamo insetti visti dall'alto, ed è l'unico modo in cui possiamo essere in una società ossessionata da quanti soldi facciamo, da quanti corpi ci sbattiamo, da quanti debiti non abbiamo e quante foto postiamo.

Essere un numero maggiore degli altri, ma rimanere sempre un numero.

E allora sì, siamo insetti.

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