Sperare nel collasso del turismo

Sperare nel collasso del turismo
Lettura boomer
Abbiamo dichiarato guerra al turismo, ora speriamo solo che collassi, tra crisi dei lavoratori stagionali e overturismo.

Circa un anno fa, in piena estate, avevo dichiarato guerra al turismo, senza nemmeno mandare a quest’ultimo un telegramma d’avviso.

Certo, è una guerra ancora a parole, una guerra rilegata all’interno di un articolo del cyber-net (il cyberspazio dell’Internet)

Ci vorrà tempo e nel mondo interconnesso o sei veloce o muori. Me ne frego per ora, e procederò lentamente. Le ragioni che mi hanno portato a intraprendere questa crociata sono molte e cerco di riassumerle in questo virgolettato: 

«Il viaggio è un’esperienza seria, profonda, spirituale, pericolosa e potenzialmente tragica, la prediletta dimensione antropologica della conoscenza. Il turismo, specie come lo intendiamo noi, non è altro che una delle tante operazioni ridicole perpetuate da finti cosmopoliti, funzionale alla peggior logica di consumo – il vero dogma del nostro tempo – con effetti devastanti su società, ambiente e patrimonio artistico della nostra nobile, amata e povera patria. Il turismo è soprattutto instagrammabilità, condizione necessaria a mettere in moto gli aspetti peggiori di questo male, il turisimificio: 
lo stato di decadenza delle città che diventano mete per turisti, vandali del patrimonio storico; stabilimento industriale atto alla produzione di automi in camicia, bermuda e ciabatte pronti ad essere rilasciati come arma di distruzione di massa».

Nel XIX secolo avevano scritto «religione oppio dei popoli»

Questa formula risulta obsoleta nel XXI: oggi è il turismo a essere l’oppio del popolo, il narcotizzante che difende lo status quo e le nostre miserie ideologiche.

E mai come nel XXI secolo il turismo ha raggiunto il culmine sotto questo punto di vista. Diventa necessario, in questa prospettiva, liberarsi del cancro del turismo e dell’overturism per aspirare realmente all’assoluto del viaggio, viaggio nel senso totale del termine, anche mentale, una sorta di «seconda navigazione» platonica. 

Il massimo dell’aspirazione umana, nell’arco di dodici mesi, all’epoca del tardo capitalismo, sono le ferie: una settimana, dieci giorni o due settimane di non-lavoro in cui si potrebbe, in teoria, programmare qualcosa di diverso rispetto alla routine quotidiana. Vacanze a basso budget, voli low cost, Airbnb, lidi estivi, musei, locali notturni e piatti speciali per il nostro potenziale instagrammabile.

Si ritorna da questa esperienza uguale a come sei partito: sei solo più povero. Il conto alla rovescia in ottica delle nuove ferie ricomincia. Il turismo non è soltanto illusorio per chi lo pratica, ma catastrofico per chi lo subisce (eccetto per quei pochi che ne traggono guadagno)

Una volta chiarite le ragioni del viaggio rispetto alla subdola pratica turistica occidentale, arriva il difficile: che fare? Quale sarebbe la reazione? Come potrebbe collassare il turismo? Una contraddizione interna non troppo velata potrebbe giocare un ruolo importante: la mancanza di lavoratori stagionali

Il turismo aumenta esponenzialmente, il turismo di massa è un virus parassita globalizzato che anno dopo anno, mese dopo mese, divora sempre più vittime, ma sono anni che i datori-di-lavoro lamentano la mancanza di personale. Anche quest’anno, puntualmente a ridosso della primavera, arriva l’allarme della mancanza di lavoratori stagionali estivi.

In questo stesso periodo lo scorso anno scriveva il Sole 24 Ore:

«Il paradosso è servito. Da un lato si prospetta un aumento del volume della produzione e dei posti di lavoro creati, dall'altro le imprese del settore continuano a registrare carenza di addetti. La difficoltà nella ricerca del personale ha dimensioni ormai strutturali, che si manifesta regolarmente già dagli anni pre-pandemia, ma che sta diventando sempre più grave con la ripartenza del comparto».

All’aumentare dei flussi di overturism, aumenta la carenza di lavoratori.

Ed ecco un paradosso che si potrebbe generalizzare, una contraddizione sulla quale riflettere: a tutti piace fare i turisti, motivo per cui nessuno vuole lavorare-per-i-turisti.

O siamo turisti o lavoriamo per loro.

Generalizziamo ancor di più questa conclusione: noi non è che odiamo il capitalismo, noi vorremmo godere dei suoi frutti aggratis.

O siamo turisti o lavoriamo per loro.

Le destre di governo millantarono di avere la soluzione in tasca: tagli sul Reddito di cittadinanza e finalmente i giovani divanisti torneranno a lavorare. Invece i divanisti che non andavano a lavorare durante la ‘stagione’ probabilmente non lo hanno mai percepito il reddito.

Ma ogni diceria politica ha il suo fondo di verità: non è solo una questione di salari da fame (come quelli del mondo della ristorazione e degli alberghi), c’è anche una dimensione culturale che non può essere ignorata: noi giovani generazioni (genericamente i nati nel secolo XXI) questi lavori non li vogliamo fare e non serve nessuno studio antropo-socio-logico a constatare questa realtà dei fatti.

Nessuno vuole sgobbare nelle cucine per permettere al rampollo di turno di creare una storia Instagram con il suo piatto, nessuno vuole sorbirsi le astrusità dei clienti della sala, nessuno vuole stare più dietro all’ennesimo datore-di-lavoro con le sue richieste assurde e i suoi falsi paternalismi.

Vogliamo il tempo libero, ne vogliamo sempre di più e la ristorazione, ad esempio, di tempo libero te ne lascia pochissimo.

I sacrifici, per noi, li hanno fatti i nonni. Ci avevano detto che con il progresso avremmo diminuito i sacrifici. Ci hanno, come sempre, mentito. Ci hanno mentito loro e ci ha mentito il progresso. Tutti vogliono fare turismo ma nessuno ci vuole più lavorare.

Sarebbe divertente vedere turisti in vacanza che hanno sperperato i loro soldi senza ottenere un minimo di servizio decente, a causa della totale mancanza di personale nelle strutture turistiche. 

Sono felice di questa situazione, anzi, acceleriamo questo processo, come ogni altro elemento contraddittorio tipico del mondo del turismo, immaginando di prefigurarne il collasso.

L’immaginario cyberpunk e fantascientifico ci aveva abituato, da Star Wars fino a recenti prodotti come The Mandalorian, a sporche taverne del futuro, con i fili elettrici che cadevano dagli angoli delle pareti, dove si incontrarono viaggiatori, sabotatori, clandestini, alieni, reduci di viaggi interstellari.

Al posto di queste taverne invece oggi abbiamo catene di finger food, caffetterie in franchise, ristoranti che decorano piatti come se fossero soprammobili frequentati da influencer, dai loro cagnolini carini, da coppie che instagrammano perfino una tazzina di caffè.

E allora forse è arrivato il momento per accelerare il collasso del turismo: non lavorate-per-i-turisti. 

Certo, il turismo non collasserà soltanto sotto i colpi di questo paradosso, anche perché il Capitale correrebbe subito ai ripari come ha fatto con il lavoro stagionale agricolo (attingerebbe all’«esercito industriale di riserva» degli stranieri)

Ben altro ci vuole per far collassare uno dei mostruosi figli del Capitale.

Serve innanzitutto una presa di coscienza quotidiana sulla necessità di un ritorno al viaggio, una necessità che si può realizzare perfino in una passeggiata improvvisata nella grigia periferia milanese.

Bisogna rifiutare l’idea del mondo instagrammabile durante il nostro viaggio, abbandonarsi alla possibilità del ricordo perduto (con il proliferare dei dati della rete, nel mondo cibernetico, anche la perdita è andata perduta), avere la speranza di poter tornare diversi.

Questa crociata contro il turismo può essere facilmente etichettata come l’ennesima campagna accelereazionaria alla Ted Kacynski/Nick Land, e probabilmente lo è, perché un mondo senza turismo resta ancora un mondo da cui non fuggire. 

Scegliere di abbandonare il turismo, scegliere di abbandonare la lente occidentale del turismo e di sperare nel suo collasso è una scelta politica, una scelta di vita.  

Seguiranno aggiornamenti.

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