Le piane e dolci rime e le sinuosità sonore del trobar leu, Beatrice angelicata nel centro della Rosa, l’ineffabile delicatissima impossibile verità del senso d’amore.
Tutta merda! Olezzante spudorata merda misogina.
Il Dolce Stil Novo è più misogino della poesia misogina.
Più misogino di Benigni, più di Pacciani, più di Semonide di Amorgo.
Ora lasciatemi spiegare. Un bacino al santino con peluria pop-up di Michela Murgia, e tutti a bordo di un’indagine pretestuosa e incendiaria.
Se la misoginia fosse un corpo, e se in quanto corpo sapesse cacare di gusto, e se la merda risultante potesse poetare, probabilmente sceglierebbe di poetare in Dolce Stil Novo.
Il Dolce Stil Novo è e non può non essere un prodotto escretorio della digestione della storica bonaria misoginia dell’Occidente:
La donna impossibile e intoccabile, perfetto simulacro di sé stessa, è ancor meno tridimensionale della donna subordinata alla famiglia e alla casa.
Non è neanche più socialmente bidimensionale, nemmeno un elemento di sfondo del quadro sociale.
La donna angelicata raggiunge la monodimensionalità: il Minosse autistico della TV italiana Marco Frigatti decreta il Guinness World Record per la minima stima che si può accordare a un essere umano. La donna è privata dell’organico, della puzza, dei difetti. Umana, troppo poco umana! Spogliata del vero vantaggio della tridimensionalità, cioè denudata delle sue contraddizioni, derubata della sua possibilità di tediare, sbragarsi, cacare. A proposito di cacare, da questa uscita dall’immanenza del gentil sesso deriva pure una certa morale contemporanea che vuole le donne profumate, non perché profumate artificialmente, ma perché incapaci di creare odori sgradevoli, perché prive dei presupposti organici per produrre olezzi. Lo Stil Novo vuole gli sfinteri solo riceventi, mai escretori: vuole una donna interamente endocrina.
Il Pacciani della critica dantesca, Roberto Benigni, nel controverso Berlinguer ti voglio bene, così riassunse in un rapido elenco le deprivazioni subite dalla figura femminile:
Persino Pietro Pacciani, il Benigni degli omicidi sessuali, riuscì nella sua famosa arringa in tribunale a offrire più tridimensionalità del Dolce Stil Novo al gentil sesso:
È una donna orantelallavettela la conoscerà da sé: se uno l’avesse a un piede merita tajasselo pe’mmandarla via d’intorno
[…] ella venne a impegnammi, disce “Si fa un ballo?”, e io accettai, ballammo […] e sonava l’orchestra un tango, e lei la fascea, lei la ballava i’ salto del capretto, così, e io non mi ritrovavo con questa qui; poi l’aveva un odore peggio della volpe, allora le dissi:
“Senta signora, abbia pazienza, grazie lo stesso” e la mandai a quel paese.
Pacciani restituisce alla donna la sua componente organolettica, la sua inettitudine al ballo, Pacciani prende la donna di vetro dello Stil Novo e la irrobustisce con un esoscheletro di letame della Maremma:
Pacciani è mostruosamente lezzo, Pacciani è un criminale, ma capisce le donne molto più di Cavalcanti, che deprivò la donna delle sue facoltà vitali e soggettive così tanto da non renderla padrona nemmeno del suo sguardo:
[Amore] trasse poi de li occhi tuo’ sospiri,
i qua’ me saettò nel cor sì forte,
ch’i’ mi partì’ sbigotito fuggendo.
Questo il manto di sogno che copre l’orrenda misoginia del Cavalcanti, che considera la donna un soggetto solo finché assoggettata. Qualcuno potrà obiettare che non vadano mischiate categorie moderne in una siffatta fine e articolata fenomenologia del sentimento d’Amore, mediata da una tradizione lirica che divinizza la fascinazione estetica. A coloro, a tutti coloro, rispondo:
Cazzoni! Dov’è la pulsione incendiaria, dov’è la voglia di mordere, masticare e sputare la storia? Cazzoni.
E pure Guinizzelli cascò nello stesso vizio: paragonò la donna a tutto fuorché a sé stessa, perché anche la similitudine è un’arma della subordinazione, della deprivazione dell’identità. La similitudine non crea spazio nell’immaginario emotivo, ma costituisce un decentramento dello sguardo, l’ultima arma contro la dolorosa, ineffabile ammissione: la donna è donna.
La donna di Guinizzelli è rosa, giglio, tutti i colori, le stelle, è ciò che rende Amore puro, tutto fuorché donna.
Molto meno misogino nell’uso squalificante della similitudine fu il bonaccione Semonide di Amorgo, che già nel VI secolo a.C. paragonò la donna alla volpe, al cane, al maiale, alla puzzola, alla scimmia, e salvò soltanto la donna-ape, in un biasimo divertito che ebbe il merito di non estrarre dalla donna la sua componente organica, ma di biasimarla in quanto donna.
Semonide femminista misogino, gli stilnovisti maiali che votano Possibile.
Giù il sipario.
Ma prima un’ultima considerazione.
L’astrazione, qualsiasi astrazione, non è che l’estrema arma del disprezzo e della subordinazione, la più perversa invenzione del contemptus mundi e del contemptus feminarum. Lo stilnovismo estirpa la radix omnium malorum solo per trapiantarla in vaso e farne un bonsai. Contro la trascendenza misogina proponiamo una poetica organica, che dica la donna in quanto donna, che ripristini la misoginia come primo strumento del femminismo.
Abbiamo già il primo verso:
Donne che avete intelletto d’odore.
A voi i successivi.