SULLE COLPE COLLETTIVE (O NEOFEMMINISMO VS MULTICULTURALISMO)

SULLE COLPE COLLETTIVE (O NEOFEMMINISMO VS MULTICULTURALISMO)
Lettura boomer
Spoiler: questo articolo non è un articolo sul patriarcato, non è un testo che discute l’esistenza o meno del patriarcato.

Questo testo ha abbandonato il dogma della guerra tra statistiche sul femminicidio, tra argomentazioni e contro-argomentazioni farsesche. Non è un articolo «a favore o contro». Questo spettacolo ce lo hanno già fornito i media, e Blast non è «i media». Nel titolo c’è già scritto tutto.

Dopo il 7 ottobre 2023, la scellerata risposta dell’«unica democrazia del medio oriente», sostenuta dagli omologhi democratici occidentali con la copertura retorica del «diritto a difendersi», ha scatenato una serie di proteste spontanee in Occidente, in Asia e nel mondo arabo. Una risposta popolare, unita, eterogenea, che ha visto scendere in piazza i collettivi più disparati in manifestazioni «multiculturali».

È stata, con molta probabilità, la ‘protesta’ che ha fatto emergere una realtà sotterranea a cui mancava l’episodio per esplodere: i popoli occidentali, dopo trent’anni di nefandezze a trazione statunitense, iniziate oltre trent’anni fa con la fantomatica «fine della storia» di Francis Fukuyama, pongono uno sguardo sul mondo completamente antitetico rispetto alle élite che li governano e che (non) li rappresentano. Il momento simbolo di questa condizione si è consumato quando Ursula Von Der Leyen, in ‘rappresentanza’ (il virgolettato mi sembra il minimo) dei popoli UE, è andata a dichiarare solidarietà al governo israeliano mentre in Europa divampavano le proteste contro l’«unica democrazia del Medio Oriente». 

Ciò che ha unito le oceaniche manifestazioni filo-palestinesi è stata l’idea comune che di un singolo pogrom non si potesse fare una colpa collettiva: perché massacrare 12mila civili per un’azione di cui non erano (certo? Forse?) responsabili? Ma gran parte della stampa italiana sembrava pensarla diversamente, come ha sottolineato Enrico Mentana in uno screzio social in cui giustificò la reazione di Israele: i palestinesi sarebbero in ogni caso responsabili dell’esistenza di Hamas, civili compresi. Da qui il senso che ha guidato la protesta mondiale pro-Palestina: basta con la vendetta di Bibi, l’Occidente faccia qualcosa; «non è giusto»; tutti i palestinesi non sono colpevoli o, in altri termini, responsabili. C’è poco da obiettare: come si fa a essere dalla parte di un massacro come quello perpetuato da Israele in questi 40 giorni?

Con tutta la lunga storia che c’è dietro poi. 

A questo punto il buon accademico dovrebbe fare una distinzione teorica importante, quella tra «colpa» e «responsabilità», dato che non sono sinonimi nonostante li confondiamo con una certa naturalezza. A questo punto si dovrebbe tirare in ballo Karl Jaspers e Hannah Arendt, quando hanno riflettuto sulla differenza filosofica tra responsabilità e colpe del popolo tedesco davanti al nazismo. Ma tranquilli, per quanto interessante, tale digressione ce la risparmiano volentieri. Gli accademismi non ci interessano e ci porterebbero anche «fuori tema».

C’è internet, se volete. O l’università, se preferite. 

Si stavano ancora consumando proteste e occupazioni filo-palestinesi quando un fatto di cronaca nera nazionale, il femminicidio della giovane Giulia Cecchettin per mano del suo ex fidanzato Filippo Turetta, ha nuovamente riversato in piazza una marea di persone in tutta Italia.

Un’isteria generale, probabilmente generata dallo sgomento per la tragedia cavalcata in pompa magna dai mass media, è proliferata ora dopo ora polarizzando ogni possibilità di dibattito. Del resto, era prevedibile che la si buttava in caciara: il clickbaiting ne ha necessità vitale e virale.

Sotto gli slogan del «neofemminismo» -a cui di «neo» è rimasto davvero poco- donne e uomini sono scesi in piazza capovolgendo la logica delle precedenti proteste filopalestinesi: un singolo fatto diventa una colpa e una responsabilità collettiva di tutti gli uomini, i «figli sani del patriarcato» (con Freud e tutto il reparto filosofico della psicanalisi che rivolta letteralmente nella tomba)

L’iperstizione collettiva si dimostra essere la «profezia che si autoavvera». Con un repentino cambio di prospettiva, nelle manifestazioni contro il femminicidio di Giulia, si riscoprono la necessità delle colpe-responsabilità collettive, che in questo caso ricadono su «tutti gli uomini», senza alcuna distinzione possibile. A priori. A questa polarizzazione si dovrebbe rispondere non con il generale «non tutti gli uomini», contro-argomentazione inefficace, ma con «non tutti i palestinesi», decisamente più funzionale.

Ancor prima della tragica morte di Giulia Cecchettin, nella loro news letter «Preferirei di no», GoG edizioni notava alcune palesi contraddizioni tanto nelle proteste filo-palestinesi legate al ‘mondo della sinistra’ quanto nelle contro-argomentazioni farsesche dei media di destra:

«in questo campo il monopolio dei termini del conflitto è nelle mani dei media, che sono ostaggio di tempi e ritmi compulsivi, e perciò incapaci di rappresentare fedelmente la stratificazione dei significati che la guerra reale comporta, producendo quelle incomprensioni e quei malintesi che si riveleranno i prodromi di tutte le future guerre. Pensiamo alla sinistra woke, agli antifascisti, agli umanitaristi e ai progressisti in generale scesi in piazza per manifestare il loro supporto ai palestinesi.

Stanno sostenendo la causa di un popolo sunnita che, indipendentemente dall’ideologia fondamentalista di Hamas, non sa cosa siano il femminismo o i diritti umani, ed è disposto a battersi fino alla morte contro quasi tutte le istanze progressiste. In poche parole sostengono i sunni loro nemici di domani, di cui tra l’altro, per quanto riguarda la questione migratoria, favoriscono l’accoglienza incondizionata per ragioni umanitarie. Allo stesso modo la destra conservatrice e liberale della Verità, di Libero, Nicola Porro & compagnia, che parlano di difendere l’unica democrazia del Medio Oriente sostengono uno Stato etnico dalle inclinazioni teocratiche che non è disposto a cedere la cittadinanza a nessun goym. Difendono il loro incubo. La guerra sopra la guerra che portano avanti i media sta alterando i connotati di un conflitto che non è solo giuridico o ideologico così come noi intendiamo le ideologie, ma riguarda dimensioni a noi ormai estranee: Dio, la religione, i testi e le terre sacre, la sedicente elezione di un popolo, le origini di un altro, l’odio millenario, un tempo millenario a noi precluso»

La riscoperta della colpa-responsabilità collettiva degli uomini, che in quanto uomini e solo in quanto uomini incarnano simbolicamente il patriarcato (anche un gay è un uomo, ma in quel caso non risulta esserci alcuna incarnazione trascendentale con il patriarcato) finisce, per onor di logica, a giustificare il massacro palestinese da parte di Israele. Anzi, non solo lo giustificherebbe, lo renderebbe del tutto legittimo.

Con buona pace dell’isteria da slogan, la verità è che, in percentuale, è molto più facile che un adolescente palestinese diventi un miliziano di Hamas rispetto al fatto che un uomo in generale si trasformi in un femminicida. Dati alla mano. Dunque farebbe bene Bibi Netanyahu a massacrare i civili senza alcuna distinzione: sono tutti potenziali futuri terroristi di Hamas, dati alla mano. Oltre al fatto che, pensare che gli uomini siano tutti potenziali femminicidi, ci porta a riflettere alla modalità con cui portare avanti la battaglia per la fantomatica demolizione del patriarcato: non insieme agli uomini a questo punto, non tutta la società: nessuno farebbe una rivoluzione con i futuri potenziali carnefici dei rivoluzionari. Sembrerebbe un fatto. 

Queste due proteste, quella filo-palestine e quella in memoria di Giulia Cecchettin, dilagate a pochi giorni di distanza, ci forniscono un assist per il secondo e, forse, più importante tema dell’articolo:

Multiculturalismo e neofemminismo possono convivere? Potrebbe esistere una società multiculturale e allo stesso tempo neofemminista?

Questa semplice domanda manda il tilt l’intero comparto progressista del centrosinistra italiano che, nella sua retorica, si fa portavoce di istanze culturali che immaginano una società antirazzista, multietnica, multiculturale, di integrazione e «inclusiva» («inclusiva» almeno nel senso del pieno raggiungimento dei diritti delle donne e con il superamento delle diseguaglianze di genere)

Molti degli immigrati accolti negli ultimi vent’anni provengono da società patriarcali, a volte patriarcali e teocratiche, e conservano, nonostante l’integrazione economica e civile, la loro cultura di provenienza, le loro gerarchie familiari, la distinzione dei ruoli, la loro religione.

Si può aggiungere che, dati alla mano, che quasi il 30% degli autori di femminicidio sia di nazionalità straniera (est Europa, nord Africa, sud America), secondo quanto rivelato dall’ISTAT tra il 2012 e il 2016. 

Si potrebbero citare diversi esempi sul conflitto reale tra neofemminismo e multiculturalismo, perché di conflitto si sta parlando. Per ragioni di spazio (e di pigrizia) se ne prenderà uno soltanto, ma abbastanza rilevante: il caso delle mutilazioni dei genitali femminili. Quando antropologi e svariate associazioni proposero, circa 15 anni fa, di inserire all’interno della sanità pubblica servizi «per una forma simbolica di mutilazione dei genitali femminili, ovvero una leggera incisione (una puntura di spillo) sull’organo delle bambine», sia politici che femministe si sono scagliati contro la proposta, facendo anche appello alle istituzioni europee che difendono i diritti delle donne.

Gli antropologi avevano notato, dati alla mano, che effettivamente c’era una richiesta abbastanza alta per la pratica della mutilazione dei genitali femminili da parte di quelle culture altre che erano immigrate nel nostro paese e, onde evitare il ricorso a metodi ‘artigianali’ e ai circuiti in nero, avevano proposto di istituzionalizzare la pratica nella sanità pubblica, «riducendo drasticamente il danno fisico e psicologico» e garantendo condizioni igieniche più che sicure. Il mondo dell’attivismo femminista è insorto contro tale proposta, buttandola ovviamente sulla questione della discriminazione del corpo femminile, sul patriarcato, sulla barbarie e altri straordinari argomenti che si possono benissimo immaginare. E la circoncisione maschile? Non rappresenta alcun problema ovviamente.

Scriveva appunto l’antropologa Carla Pasquinelli nel 2007: si «ha il dovere o il diritto di proibire una pratica che i più, e anche chi scrive, ritengono un odioso atto di violenza, ma che, si deve riconoscere, in alcuni circuiti è ritenuta non solo legittima ma imprescindibile?». 

Come vediamo, le speranze del multiculturalismo si sfaldano contro i muri dell’ideologia neofemminista. Questo paradosso è talmente forte che si potrebbe quasi sostenere che femminismo e multiculturalismo sono letteralmente incompatibili, come potrebbe essere letteralmente incompatibile con l’idea di un mondo multipolare. Davanti a tale assurdità, la retorica prog-dem-fem parla addirittura di accoglienza con ri-educazione: insomma, siamo davvero lontani dalla cultura post-coloniale di cui ci si fa portavoce. La reazione alla proposta degli antropolog*-fascist*-fautor*-del-patriarcato si può sintetizzare in una formula che non è stata voluta usare, ma che rappresenta il succo della risposta: queste cose se le facessero a casa loro.

Tipo in Ruanda, quel paese dove la parità dei sessi è imposta in ogni aspetto istituzionale, dove quasi il 70% dei parlamentar* sono donne e sesto in classifica tra i paesi che hanno ridotto il divario di genere secondo il World Economic Forum.

Si mutilassero in Ruanda, a casa loro, dove finalmente in parlamento sono andati ben oltre la parità di genere.

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