Questo apre a diversi aspetti nella nostra narrativa, potremmo partire dal come io personalmente abbia sempre pensato:
Lavorare al Supermercato? MAI E POI MAI!
E di come trovarsi in una massa accalcata urlante e soffocante e irosa faccia paura e ansia, ma in realtà sono argomenti che secondo me possiamo anche evitare.
Mi piace l’idea di focalizzarmi su due aspetti:
- Il lavoro sembra più facile del previsto.
- L’omologazione della catena di produzione (del valore) è disarmante.
Ora, capisco bene che questi due punti
hanno una profondità dozzinale, ma in ogni caso vorrei provare a sviluppare una sorta di dialettica, una argomentazione a mio favore o che, più semplicemente, porta a voi il mio punto di vista e la mia interpretazione della realtà.
Il che significa che sono pure io avvezzo di difetto ed errore.
L’idea di base del lavoro di cassiere e che si debbano fare diverse attività, ma tutte incentrate sull’assistenza del cliente e la gestione dei loro acquisti, partendo dal battere i codici a barre, al distribuire tessere fedeltà, premi e cura di corsie, reparti, eccetera.
Per ora, essendo sotto agenzia interinale, sono relegato al mero lavoro meccanico di cassiere. Le attività più o meno faticose (o intellettuali) non mi sono riservate e quindi sono solo un Charlie Chaplin e di botto scopro che il lavoro alla cassa è una catena di montaggio ed io sfrutto le ore passate a giocare a Tetris come base o skills.
Il videogioco è nella retorica del giornalismo sciatto un facile capro espiatorio, mentre qui è diretto esempio e paragone dei corsi di formazione on-line che sono alla base della sicurezza e della preparazione di assunti e collaboratori. Se ci pensate, la ritmicità e il tempo (quello musicale per intenderci) sono fattori chiave di molti classici (partiamo da Tetris, andiamo a Just Dance, ma anche ad oltre)
Arrivo ad immaginare che l’automatismo umano indotto dal benessere derivante dal gioco possa tenermi su di giri e, al contempo, mi permetta di non limitarmi a stati negativi qualora dovessi traslare il tutto all’ambiente lavorativo.
Mi siedo alla poltroncina, mi faccio 6, 7 o 8 ore di lancio di merce, sorrisi ai clienti e allunghi di scontrini.
Non sto fermo con le mani un secondo e non ho nemmeno tempo di pensare se mi annoio o se mi diverto.
Notabile comunque che con la nascita e vita del Supermercato si sviluppano ritualistiche attorno al dipendente, quindi su come il cliente si approccia al personale.
Ci sono aspettative, su come si deve comportare, ma più in generale tu persona che vai a fare acquisti tendi a cercare di non essere troppo molesto
o pretenzioso verso l'operaio della fabbrica di acquisti
perché ritieni che sia una figura al lavoro e quindi da riverire o elevare ad esperto, tecnico o maestro del fare.
La persona che entra nell’edificio è fattualmente un esploratore che entrando nel labirinto vede nel personale tutte figure indistinte, ma dotate di sapienza assoluta.
Risposte dubbie e ignoranza sono punite con un calo di fiducia verso l'azienda, il marchio, il logo: il negozio.
L’esperto di quelle cose che fanno gli esperti è fondamentalmente una creatura mistica paragonabile all’oroscopo:
- Crediamo che più o meno esista (ricordate il “non si sa mai” del cattolico non-praticante?)
- Si distingue in più macro-categorie che sono differenziate in maniera ambigua, ma intuibile a spanne
- Fa figo (forse)
- Attira gli sprovveduti.
E la persona lo vede e lo cerca in me, operaio della distribuzione.
In più, affermando questi punti è chiaro:
Abboccare è facile per chi mette piede in gabbia merceologica, perdersi lo è altrettanto.
Stiamo parlando di mentalità o di idee dei soggetti che partecipano alle attività del plesso commerciale; chi porta denaro viene assuefatto? Viene appellato? Forse gli si induce uno stato infantile, dove alla fine sono sentimenti e sensazioni basali a farne da padrone, portandolo a non essere più un uomo razionale ed istruito.
Parlando di razionalità ed emotività è doveroso da parte mia distinguere l’acquirente in due categorie diverse, cioè in:
- Persone aperte (donne chiacchierine, vecchi sessisti e bigotti e altro)
- Persone chiuse, che si mutano in segreto tombale e zittizitti non fiatano minimamente e bisogna osservarli, come fossero bimbetti in età prescolare, per carpirne le intenzioni.
Questo per me costituisce un aspetto importante, perché per quanto esistano norme comportamentali culturali (la buona educazione
), molti preferiscono la maschera del nulla, dando all’uomo-dipendente la natura di macchina.
Un insieme di prospettive determinato per lo più dal ritmo imposto da una società basata su turni ed orari?
Dove la velocità dei mezzi (soprattutto automobile) fornisce da un lato velocità e immediatezza, al contempo richiede dall’altro lato una de-umanizzazione andando a privarci di tempistiche lente e scelte dettate dai desideri e dagli stimoli e ci obbliga ad essere spediti e dare priorità al portare a termine qualsiasi faccenda per asservirci ad un orario stabilito, anche a discapito di obiettivi iniziali. Come l’acquisto di determinata merce, per cui è sovente lasciare i prodotti alle casse (non ho prezzato, lascio perdere perché non voglio sprecare tempo) o degli appena visti legami umani (rudezza, precipitosità, distaccamento)
Pensiamo a come il supermercato sia brulicante di persone, come al cassiere sia richiesta prontezza e velocità e come sia ritenuto sgradevolezza massima e sgarbo altissimo rallentare la colonna di persone che procedono a timbrare il bancomat al pagamento, probabilmente è una grossa fallacia della cultura attuale.
Come ho scritto e come è intuibile, chi lavora non viene visto come una persona, ma semplicemente per quella figura che è considerata tale, una sorta di abito monacale senza il monaco, un Cavaliere Inesiste calviniano.
Cambiamo argomentazione muoviamoci, anche fisicamente.
E la tristezza della fabbrica, del complesso, è comunque ancora maggiormente rilevabile da come sono fatti i supermercato, tra corsie e casse in fila che prevedono un percorso e che espongono la merce in disposizione, come una mostra-mercato, una fiera bovina ma senza capi di bestiame, bensì con merce e prodotti che la loro natura hanno perso, che sono distaccati dalla realtà e che sono legati unicamente al piacere edonistico che possono rilasciare (sia all’acquisto che al consumo) e che perdono quel senso della terra che sembra riempire i nostri polmoni quando parliamo di tradizione e folklore.
Pensiamo anche solo a come categorie come biologico, km-zero e boh, qualsiasi cosa che dia l’idea di natura o di origine vicina: non sono nulla. Non sono niente perché vi si cerca un’idea o uno stato (cioè una salute migliore), ma non sarà il consumo di un singolo prodotto bio su 100 prodotti di lavorazione industriale a dare al corpo il boost, stile PP-Max dei Pokémon, per combattere i presunti mali della giungla di cemento e asfalto.
Un primo passo dell’omologazione umana operata dal consumo di beni è appunto gratificare la persona che non fa nulla, tranne che acquistare.
Un altro aspetto poi è quello unicamente legato al commerciale, all'economia domestica: le promozioni, i buoni spesa e i buoni sconto.
Che in realtà non è necessariamente un male, ma freme il mio spirito su come la strategia del vendere sia in grado di manipolare le masse di persone.
Moltissime spese, carrelli e scelte sono basate, prevalentemente o in parte, sulla possibilità di acquistare a prezzi inferiori, facendomi notare con timore come basti sventolare l’idea di guadagno sopra ad una occorrenza percepita come normale (l’acquisizione di beni e alimenti appunto) perché le difese emotive di una persona crollino.
Perché si, buona parte del io comprante si basa sull’impulsività o il desiderio o il timore di non volerlo acquistare, perché ad esempio si teme il prezzo intero.
Questo acceca la massa, che per una variazione di 1 o 2 euro rifiuta e non acquista e al contempo, per una mera cartolina gratta-e-vinci, spende anche e oltre di più.Crollano subito le difese emotive della persona che si apre al possibile guadagno (se percepito tale almeno)
Capisco quindi come il supermercato sia strutturato sull’induzione di bisogni, voglio capire quanto di questo posso considerare sbagliato su una base morale.
Capiamoci però:
Se fosse possibile ci proverei pure con la studentessa in Erasmus che frequenta abitualmente il supermercato la sera, quindi non è mia intenzione mettere dei paletti rigidi o inutilmente tediosi. Voglio semplicemente valutare se l’individuo può ambire alla libertà di slegarsi dal desiderio indotto dal marketing.
Posso dire per certo che definire come bisogni necessari solo cibo e alimenti è indubbiamente sbagliato.
Ci sono diverse necessità dell’uomo che sono procurategli dal suo vivere in società e, di conseguenza, ambire a oggetti, status, persone o sensazioni nuove e/o migliori può essere sicuramente un bene.
Se cibo, vestiario e abitazione sono beni primari, allora i beni di uso della comunità sono beni di utilità, la cui importanza varia fondamentalmente dalla ricchezza richiesta per acquisirli, dalla percentuale di tempo che vi adoperiamo su essi e dalla rilevanza che essi hanno per inserirci nel cosmo metropolitano a cui apparteniamo.
Siamo quindi liberi di comprare e vendere, senza influenze esterne? La libertà massima di acquisizione di un bene o di un servizio a cui l’individuo può ambire è un fattore complesso, determinato principalmente dalla sua ricchezza (sia in senso generale, che sopra alla ricchezza del resto della popolazione tra cui risiede), che di conseguenza gli fornisce la scelta di acquistare esattamente ciò che vuole, non vincolandolo dal privarsi di altri beni o servizi necessari per svolgere la propria vita, privata e lavorativa.
Per sdrammatizzare ho voluto appuntare 3 incontri notabili del supermercato:
- La vecchia vegetariana che tira una manfrina e cambia cassa perché la cliente cinese acquista chili di seppie che, sgrondando acqua, rilasciano olezzo di pesce.
- Il nonno che passa alla cassa asserendo che non vuole andare a pagare dove la cassiera è donna,
soprattutto se zoccola, dice lui.
- La ragazza probabilmente autistica (o altra condizione, ovviamente non saprei quale) che ci mette almeno 5 minuti per capire che la cosa più semplice da fare per passare il codice a barre del buono sconto è avvicinarsi alla cassa (prima ha provato ad inviarlo al telefono della madre, di fianco a lei).
La vorrei rivedere e conoscere al supermercato.