Una contrapposizione ideologica fra blocchi dove si vive, si pensa e si crede in modo completamente e irrimediabilmente distinto.
È un’interpretazione auspicabile per chi dalla contrapposizione trae vantaggio ma con buona approssimazione poco aderente alla realtà e alla Storia.
la logica dell’opposto secondo un dualismo
binario è tipico del ‘900, e più precisamente del periodo che dall’immediato secondo dopoguerra arriva alla fine del secolo scorso. La dialettica stessa della contrapposizione nasce e si sviluppa sul piano ideologico sulla scia della più grande catastrofe demografica, sociale, politica ed economica della storia umana: la Seconda guerra mondiale.
Il sanguigno e sanguinoso conflitto fra pro e anti ad essa correlato, si è declinato così in un eterno scontro fra campi opposti che trascinandosi per quasi mezzo secolo. Un equilibrio che ha permesso a due grandi potenze di dominare il rispettivo spazio vitale, conteso con discreta lungimiranza ma senza esclusioni di colpi.
Noi nati intorno all’ultimo quarto del ‘900 siamo così cresciuti nella convinzione che il “di qua” e “di là” fossero le uniche dimensioni possibili e soprattutto che fossero assolutamente definite e distinte, senza possibilità di intreccio.
Fascismo e comunismo, tanto per fare un esempio, sono stati agli antipodi dell’iconografia ideologica più diffusa per interi decenni; niente esclude, anzi niente di più probabile, che fra cento anni siano ricordati negli archivi digitali della Storia più per la loro contrapposizione comune ai modelli liberali che per le loro differenze.
In altri termini, siamo abituati a pensare che le contrapposizioni vivano essenzialmente su un piano concettuale e non su quello pratico congiunturale come in effetti è quasi sempre stato nella storia umana. Siamo figli di un secolo ideologico, ma per millenni ci siamo scannati per molto meno.
Questo ci aiuta a capire il corto circuito continuo in cui incappano tutti coloro che si impegnano ad analizzare la situazione in Ucraina attraverso una lente d’ingrandimento ormai datata. Lo scontro c’è, non ci sarebbe la guerra altrimenti, ma il metro dell’ideologia con cui siamo abituati a misurarlo, non va più bene.
Gli esempi concreti spiegano tutto e in particolare giustificano l’ubriacatura di bandiere che tra 25 aprile e scelte di campo varie hanno sventolato in allegra mescolanza. A sinistra l’ex KGB Putin diventa il dittatore fascista che fa bella mostra di vessilli sovietici alla parata del 9 maggio.
Il pacifismo occidentale nel frattempo riscopre le armi e benedice gli ucraini, storicamente e indiscutibilmente reazionari, come novelli partigiani; poco importa se nella Resistenza gialloblu campeggiano le svastiche; tra i fascisti del Donbass, brilla comunque la stella rossa.
A destra, se possibile, anche peggio. Indomiti cuori neri sognano il fortino del battaglione Azov (o quel che ne resta), credendolo la Charlemagne del XXI° secolo, quando in realtà gli interessi da difendere sono quelli mondialisti di genitore 1 e genitore 2, dell’Unione europea gay friendly e del Black lives matter. In un tripudio di incomprensioni si formano così alleanze e abbracci impensabili solo pochi anni fa. Metà delle destre radicali combattono al fianco degli LGBT contro presunti comunisti, mentre l’altra metà abbraccia i nipoti dei bolscevichi di Stalingrado in una logica identitaria contraria alla globalizzazione e spara su novelli nazisti.
Mentre Vladimir Vladimirovic fa cose e denazifica territori, un giovane Zelensky lo accusa, guarda te, proprio di nazismo. Niente di grave: ai congressi della sinistra italiana, insieme ai pugni si alzano le bandiere USA sulle note dell’Internazionale.
La pandemia ci ha reso dunque tutti imbecilli? il virus della follia ha preso il posto del covid?
Nemmeno per sogno. Molto più semplicemente, il tempo delle ideologie è finito e le scelte di campo non si fanno più sul piano ideale (almeno sulla carta), ma sulla scorta di interessi contingenti forse più gretti e conclamati.
La Russia difende i suoi rispolverando ciò che è sempre stata: un blocco eterogeneo di popoli col complesso dell’assedio, tenuti insieme da un sistema di potere rigido, si chiami Impero russo, URSS o Russia Unita.
L’America fa lo stesso cercando di prolungare il mandato storico che dal passaggio di testimone con l’Impero Britannico la vuole alla guida del sistema occidentale. Per farlo racconta la guerra regionale fra russi e ucraini come la continuazione di una guerra fredda globale che in realtà non c’è, né può esserci più.
Tutto ciò paradossalmente riporta le nazioni (o le cancellerie che le rappresentano) al centro, checché a qualcuno col pallino global piaccia poco.
Con l’Unione europea che approfitta per dare l’ennesima prova di assenza, le singole diplomazie tornano a farsi vedere in barba a trent’anni di tentativi di convergenza. Esempi tipici sono la Polonia e l’Ungheria, fino a ieri accomunate in una dimensione euroscettica. Varsavia fa prevalere la sua storica rabbia verso la Russia e torna nell’ovile del figliol prodigo; Budapest, per tutelare i suoi interessi economici, archivia definitivamente il rancore anti russo per i carri armati del ’56 e strizza l’occhio a Mosca senza problemi.
Mentre Washington si sforza per collocare uomini e governi di qua o di là, una naturale forza centrifuga spinge dunque gli Stati a cercare per conto proprio le proprie fortune, come del resto avvenuto per secoli.
In questo senso, la costante espansione della NATO sembra una risposta progressiva ad un mondo orfano della divisione in blocchi che cerca di riorganizzarsi secondo logiche geopolitiche regionali.
Che gli Stati Uniti facciano di tutto per non risolvere il conflitto in Ucraina, sotto questo profilo è più che comprensibile: in gioco c’è la loro leadership globale.
Compreso questo schema, sarà più difficile stupirsi per il corto circuito ideologico che ha fulminato noi, figli del ‘900.
A noi non è stato spiegato a dovere come e perché qualcuno possa farsi gli interessi propri. Siamo frutto di un manicheismo assoluto, declinazione di un perenne ”arrivano i nostri!”. Il mondo però ha iniziato a provare altre formule di equilibrio. Per questo facciamo confusione con le bandiere.
Per avere un sistema nuovo, non essenzialmente migliore, bisognerà attendere la maturazione delle generazioni post ’91, quelle nate dopo la caduta del vecchio mondo
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A quel punto svastiche, falci e martelli saranno vessilli buoni per tutti e per nessuno, così come ogni drappo impolverato dalla Storia.
Con ogni certezza ciò non diminuirà la violenza degli uomini né la loro brama di supremazia; li renderà però con buona probabilità meno curiosi e soprattutto: