Personalmente, credo che l’Università stia andando in malora. Il livello degli insegnamenti si sta abbassando di anno in anno inesorabilmente e sembra che a volte i prof non vogliano andare troppo nello specifico in certi corsi. Io ho studiato enologia, prima alle superiori, poi in triennale e ora (ahimè) in magistrale. Una volta con sei anni di superiori (l’unico indirizzo in cui la maturità si faceva in sesta) si diventava enotecnico e si poteva lavorare. Dal 1991 è stato creato il titolo di enologo per chi si laureava in triennale, da quel momento ha iniziato a perdere di significato il sesto anno e via via tramite diversi tagli la maturità in sesta è stata abolita per lasciare spazio a un anno facoltativo tipo ITS post-diploma (che ovviamente non ha senso fare perché se vuoi essere enologo vai direttamente in università, se vuoi lavorare in cantina ti prendono su anche con la terza alberghiero – salutiamo gli amici dell’alberghiero che ci seguono -). Sicuramente gli studi sul vino negli ultimi trent’anni si sono sviluppati come mai prima, di conseguenza per formare un enologo sei anni di superiori non bastano, però in triennale mi son sentito preso per il culo. Il primo anno abbiamo fatto le basi con i prof che chiudevano anche due occhi sulla preparazione e sulla chiarezza espositiva degli studenti.
Al secondo anno, dovendo tener conto di chi aveva fatto il liceo, l’alberghiero o l’ITIS, si è ripartiti da capo con agronomia e viticoltura e mi son trovato a fare almeno 3/4 esami con gli appunti delle superiori. Poi con la scusa del Covid non abbiamo visto mezzo laboratorio e mi è toccato inventarmi un tirocinio volontario di due mesi in un laboratorio privato altrimenti uscivo come enologo senza saper fare mezza analisi al vino.
Poi con la scusa del Covid non abbiamo visto mezzo laboratorio e mi è toccato inventarmi un tirocinio volontario di due mesi in un laboratorio privato altrimenti uscivo come enologo senza saper fare mezza analisi al vino
Ora, so la tendenza a considerare studi come enologia o scienze degli alimenti di serie B, ma si presuppone che dall’università escano, se non cultori della materia, quantomeno esperti. Così non è e il declino dell’università è evidente a tutti ma mi sembra sia come l’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere. I primi che devono svegliarsi sono i prof che abbassano i loro standard e gli studenti che mettono alleggerire il carico di studio
nei questionari di fine corso.
L’asimmetria di argomenti trattati in certe università, a parità di corso di laurea, fa parte, in una certa misura, dell’autonomia delle stesse, e va benissimo che sia così…
Ma credo di dire un segreto di Pulcinella affermando che ci siano università conosciute, e scelte volutamente da alcuni studenti, per la facilità dei loro esami.
Che dire poi delle pullulazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, di corsi inutili, dagli ANGLICISSIMI nomi fantasiosi, rigorosamente multidisciplinari
, che non formano professionisti e neanche figure richieste dalle aziende?
Qui si tocca un tasto dolente anche per alcuni blastidi, se non hai qualcuno che possa mantenerti, all’università ci vai per lavorare, è un investimento; forse sono io troppo pragmatico e materialista, totalmente in torto, cattivissimo veneto che pensa ai Schei, ma se sei nato poaret (povero) come me, all’università vai per migliorare la tua condizione. Questa smania di andare tutti all’università, di darsi delle arie e aspettarsi delle retribuzioni alte a prescindere dopo 5 anni di pompini nei bagni (fatti o ricevuti), mercoledì universitari e altre stronzate a cui partecipano studenti più o meno abbienti, è semplicemente ridicola se non hai i coglioni di sputare in un occhio a chi ti propone un contratto da stagista. Che poi, forse, te lo meriti pure quel contratto, e tu lo sai; lo sai ma non lo vuoi ammettere, andare in Erasmus non ti è servito, tu sei ancora l’ultimo degli stronzi (ma cinque anni più vecchio) che in quinta superiore non sapeva cosa fare e che pur di non andare a lavorare è andato all’Università. Meglio darsi una svegliata e non illudersi che la scuola italiana sia la migliore del mondo, che il PIL nazionale sia in crescita perché è cresciuto dell’1% rispetto al 2020, che fare l’università basti per trovare un buon lavoro e le mille lire al mese per campare; e rendersi conto che la conoscenza si fa anche e soprattutto nel campo.