Migliaia di uomini a cavallo attraversavano le praterie sferzate dal vento gelido, a stento coperti da quelle che erano un tempo uniformi ormai ridotte a stracci, con a tracolla fucili, lance, sciabole e archi consunti dalle intemperie e dalla polvere. Le facce, un misto di orientali e slavi, erano abbronzate, brutte, dure, rinsecchite dal freddo e dalle tempeste, ovunque sui loro vestiti chiazze di sangue e di unto, i corpi nodosi ridotti a pelle e muscoli.
In testa alla colonna un cavallo bianco, e un deel dorato addosso a un ufficiale biondo con una sciabola cosacca a tracolla. Un cappello mongolo copriva a malapena la cicatrice rossa sulla sua fronte. Nei suoi occhi, capaci di vedere ciò che nessun altro avrebbe potuto vedere, il ricordo di mille vite umane di inesprimibile orrore e violenza.
Era l’anno del signore 1920 e questi uomini avrebbero fondato un impero.
Nell’antichità a partire dalla civiltà proto-indo-europea, non era sconosciuto il concetto di bande armate
di giovani che, stagionalmente, lasciavano gli insediamenti per comporle kóryos, da cui derivano harijaz in proto-germanico e koiranos in greco, solo per dirne alcune ed il cui scopo era, essenzialmente, essere una riserva strategica di uomini estremamente violenti e votati alla guerra. Ma un simile ambiente, dove anche e soprattutto crimini e comportamenti tabù erano permessi purché non fossero rivolti contro il gruppo, non avrebbe potuto nutrirsi di giovanotti cresciuti in campagna; una vita dura tutt’ora, ed ancora più dura all’epoca, ma semplicemente incapace di formare quella che era a tutti gli effetti una bestia, il cui unico scopo era esercitare la massima violenza nel minimo tempo per distruggere quelli che un tempo avrebbe considerato i suoi simili.
Questo prodotto finito – l’uomo-guerra, se vogliamo, un individuo completamente deumanizzato, capace di lanciarsi incontro a morte certa senza battere ciglio, effettivamente posseduto da quella furia animalesca di cui ogni uomo è capace ma che quasi nessuno è mai stato allenato ad utilizzare nella società civile – doveva per forza di cose essere tanto per cominciare costruito, e poi reintegrato nella società. Avendo discusso nello scorso post del mito fondante delle società guerriere, e delle modalità con cui esso si propaga e, con forza quasi propria, assiste e spinge l’eroe a costruire attorno a sé un seguito che possa iniziare altri all’interno del mistero e al controllo delle forze assoggettate dal capostipite, si può ora discutere delle pratiche iniziatiche in senso proprio.
Abbiamo già detto che nel mondo tradizionale ogni organizzazione, a suo modo, è guidata da un mito, e richiede per sé una iniziazione, che possa trasfigurare l’iniziato in materiale “adatto” ad intraprendere il percorso di ripetizione del mito. E’ solo naturale che, per quelle persone che hanno a che fare con razioni giornaliere di vita e di morte, questo processo sia estremamente esclusivo nella natura, prima ancora di cominciare l’atto trasfigurativo per sé. Non solo non tutti sono adatti a venire introdotti in un mito, ma non tutti sono adatti a venire in contatto con quelle forze peculiari al mestiere della guerra, e non tutti i guerrieri sopravvivono a lungo a questo mestiere.
La durezza della vita sotto le armi è ovunque sempre stata proporzionale alla brutalità del nonnismo subito dai neofiti. Questo è stato vero nella Divisione di Cavalleria Asiatica del barone Roman von Ungern, dove cento colpi di bambù a ogni arto erano considerati un avvertimento amichevole – ma rimane vero tutt’ora nelle unità asiatiche dell’esercito russo con il mito della dedovshina, nel GAFE messicano dove i chuncos senza brevetto passano la permanenza nella caserma in montagna completamente fradici, e perfino nel nostro Esercito Italiano abbiamo avuto un piccolo momento di gloria negli ultimi anni ’90. Non è un segreto che combattere possa essere un’esperienza traumatica; e dal momento che ognuno ne viene ferito a suo modo, è inevitabile che si formi una gerarchia fra quelli che hanno saputo sostenere più ferite e quelli che invece sono nuovi sul posto di lavoro. Più élite è l’unità, e più duro è il compito a loro assegnato, più i nuovi ragazzi dovranno subire a causa del trauma collettivo che cadrà sulle loro spalle.
Questo non è necessariamente un male; esperienze di iniziazione traumatiche sono all’ordine del giorno, dal cantiere alla fabbrica, e nelle forze armate questo viene istituzionalizzato nell’addestramento del volontario o del coscritto, e ancora di più nei corsi delle forze speciali, dove la volontà di entrare veramente nell’unità è testata con continui abusi ed esercizio strenuo. Usando le parole di un ex 2 Commando australiano,
“La selezione non è il problema, la parte difficile è lavorare.”
L’iniziazione di questi uomini in un gruppo che da loro chiedeva il sacrificio estremo come minimo sindacale, non poteva che essere violentissima, seguita da un percorso continuo durante tutta la permanenza nel comitatus. Alcuni di questi guerrieri nella tribù dei Chatti volontariamente portavano un anello di ferro al collo – più tardi diventato simbolo di questo tipo di bande armate – un simbolo associato con schiavitù e sconfitta, fino a che non avessero ucciso un nemico in battaglia. Questo dimostra il grado di esprit-de-corps che queste unità possedevano: l’individualità del membro era annullata, al punto da volersi distaccare da qualsiasi altra cosa tramite simboli di esclusione.
Ne consegue che un esercito il quale si prefigga di combattere una guerra di proporzioni escatologiche non solo fisica, ma spirituale, deve avere un processo di selezione e trasfigurazione così assolutamente inumano da trascendere la semplice distruzione-ricostruzione: deve distillare l’individuo, ridurlo a uno spirito vestito di carne ed ossa, che come un vestito li abbandona con la morte in favore di un altro. Non si può escludere che il semplice atto di intraprendere una guerra del genere renda il suo scopo di importanza secondaria: la guerra santa ovunque si autogiustifica con la trasfigurazione del guerriero che la combatte. E una guerra santa è maggiormente santa quando la rinuncia è estrema; attraverso fame, sete, freddo e morte, un’anima sceglie di legarsi per sempre alla causa, i legami al mondo fisico ormai distrutti, entrando pienamente nel dharma di violenza e dolore verso cui la via del guerriero ovunque tende ma solo raramente non è bloccata dal contatto col mondo fisico del samsara.
Roman von Ungern aveva pienamente ragione: Ungern il mitopoieta, Ungern-khaan, il quale non regna nel mondo visibile ma con la violenza ha legato migliaia di anime per l’eternità alla lotta dello spirito contro la materia. Lui e i suoi uomini, gli ultimi eredi di una tradizione millenaria, uomini-bestia vissuti per uccidere e morire, caduto e tradito dalle voglie della carne dei suoi uomini che lo lasciarono in mano al nemico per il terrore che, uccidendolo, li avrebbe perseguitati nella morte. Nobilitate dal freddo e dalla miseria, le anime uscite dai corpi come il calore da una carcassa in un mattino d’inverno, si legarono per sempre a qualcosa più grande anche di una fede: un destino, un ciclo storico inevitabile, la ruota delle epoche, la lotta perché quello che deve avverarsi si avveri, la lotta nel nome della lotta.