Sbucò dal nulla mentre costeggiavo dei cassonetti e pensai di averlo disturbato nel suo rovistare tra l’immondizia in cerca di cibo.
Era un clochard vestito con abiti di buon taglio, anche se sporchi e pieni di vecchi rammendi, vestiti che suggerivano un remoto passato di agiatezze e cura della persona. Andavo di fretta e fermarmi a conversare con uno sconosciuto, che aveva tutta l’aria di aver passato la serata a vagliare il contenuto di un cassonetto laido, era l’ultima delle mie aspirazioni.
Tuttavia, per non passare per un borghesuccio schizzinoso, mi rivolsi a lui e sorridendo gli domandai come fosse andata la caccia e se avesse trovato qualche tesoro in mezzo a quel mucchio di spazzatura maleodorante. Era una frase gettata a caso, la mia, lo riconosco, e non mi aspettavo una vera risposta: diciamo che parlare così mi parve il modo migliore per metterlo a suo agio. Distogliendo lo sguardo si rimise a frugare in quell’indecifrabile accumulo di rifiuti e, con voce calma, mi disse che di tesori ne aveva trovati molti; li aveva trovati e li aveva perduti, e ora non ne desiderava altri.
Aggiunse anche che se avesse voluto ne avrebbe trovati ancora, ma da molti anni certe ricchezze non gli interessavano più.
Poi, interrompendo la sua operazione e voltandosi verso di me, disse serio
«vedo che, comunque, anche lei si dedica a cercare tesori e sono certo che qualcosa avrà pure trovato nel corso degli anni»
Nel pronunciare queste parole, l’uomo indicò con lo sguardo i cataloghi di una casa d’aste che portavo sotto al braccio. Rimasi spiazzato da quest’osservazione, non mi ero aspettato un simile scambio di battute e, del resto, la mia idea di un barbone corrispondeva a quella di un tipo schivo e poco propenso al dialogo. Divertito dal suo modo serio di porsi nei miei confronti gli domandai, con tono bonariamente scherzoso, se nei cassonetti pensasse di trovare qualche bel pezzo d’antiquariato paragonabile a quelli che splendevano sulle pagine patinate dei miei cataloghi.
Nient’affatto risentito per questa mia piccola impertinenza, mi rispose che nel corso degli anni spesi a fare quel lavoro(lo chiamò proprio così) di opere d’arte ne aveva trovate molte. Alcune, aggiunse, erano tanto importanti e ben conservate da poter essere esposte nelle vetrine delle migliori gallerie internazionali. Mi parlò con dolcezza, come un padre che spiega a un figlio impulsivo e facilone che non si deve dare niente per scontato. Mi sentii sciocco, in effetti capitava spesso di sapere di opere d’arte saltate fuori da situazioni improbabili. Finimmo per parlare a lungo. In anni lontani era stato un collezionista, oltre che un ricco e soddisfatto uomo di mondo, e mi intrattenne con aneddoti sul mondo dell’arte della fine del secolo scorso.
Sospettai che stesse inventando, ma decisi che tollerare quelle fantasie fosse una forma di rispetto che, in fondo, gli dovevo. D’altronde, la conversazione ricca di spirito e simpatia mi spingeva alla massima indulgenza.
A un certo punto estrasse da un portafoglio rigonfio alcune fotografie ammuffite, dove, con mia grande sorpresa, lo si vedeva sorridente insieme ad attori, politici e artisti famosi. Alcune caddero a terra, sporcandosi nei liquami di un vecchio sacchetto gocciolante che giaceva ai suoi piedi, ma lui, senza badarci troppo, le raccolse per rimetterle al loro posto. Tra le varie carte mi sembrò di intravedere anche i bordi di molte banconote, ma richiuse rapidamente il portafogli senza darmene certezza (devo però ammettere che, non avendo molta dimestichezza con questo argomento, potrei essermi sbagliato).
Dopo diversi minuti di chiacchiere, il misterioso amico – incupitosi d’un tratto – mi fissò per qualche secondo e, con fare solenne, mi domandò se preferissi i cretti di Burri o i tagli di Fontana. Disorientato più dall’inadeguatezza del tono che non dalla domanda in sé, balbettai qualcosa, probabilmente qualche banalità sul fatto che mi piacessero entrambi.
L’uomo ascoltò e sorrise; poi rispose di essere d’accordo e aggiunse che adesso potevamo finalmente essere amici. Quest’ultima frase aveva un ché di allarmante; già mi aspettavo qualche richiesta economica a cui non avrei potuto acconsentire e, perciò, cominciai a pensare a una scusa per tagliare la corda. I miei propositi furono bruscamente interrotti: il clochard mi fece cenno di aspettare, si guardò intorno circospetto e, sfilandola da un grande sacco che si portava appresso, estrasse una lastra di vetro con dei fori circolari.
Quello che mi stava regalando era, a detta sua, l’avanzo di una grande collezione dissipata negli anni.
Aggiunse anche che questo vetro rotto era superiore sia a un’opera di Burri che a una di Fontana, in quanto conteneva i tratti distintivi di entrambi, visibili nel cretto del vetro quanto nei fori. L’oggetto aveva qualcosa di brutale e doloroso: non impiegava materiale prezioso né una particolare cura nella esecuzione e poteva benissimo essere solo un rifiuto, ma mi piacque.
Accettai; come si dice, a caval donato non si guarda in bocca, e poi mi divertiva l’idea di possedere un ricordo di quell’incontro.
Inoltre, la mia curiosità fu eccitata dal racconto dell’assurda vicenda con cui esso mi veniva presentato: una storia ricca di intrecci e colpi di scena che si sarebbe svolta a Parigi e a cui presero parte artisti, politici, attrici, criminalità organizzata e servizi segreti. Con l’atteggiamento irritante tipico degli anziani, il barbone dava tutto per scontato, anche nomi di persone che poteva conoscere solo lui. Mi persi quasi subito e oggi non sarei in grado di riportare, se non per sommi capi, ciò che mi venne raccontato (ma ricordo che sul momento tutto appariva sensato, oltre che estremamente avvincente).
Appresi così che nel 1988 uno squilibrato aveva attentato alla vita dell’artista svizzero Thomas Hirschhorn, all’epoca trentenne, sparandogli contro alcuni colpi di arma da fuoco durante il vernissage di un’importante mostra a Parigi. Il barbone continuò la sua storia raccontandomi di una cellula terroristica attiva in Francia negli anni ’80 e ’90. Si trattava di un gruppo di violenti attivisti che, tra i loro obbiettivi, auspicavano un ritorno a espressioni artistiche conservatrici, risultato che erano disposti a perseguire con ogni mezzo.
I criminali svuotarono il caricatore di una pistola semiautomatica contro Thomas Hirschhorn che però rimase illeso, salvato dal vetro di una grande installazione posta al centro della sala. A detta del clochard, un frammento di questa installazione era proprio il vetro forato dai proiettili che mi aveva appena regalato. Sulla lastra, come ebbe cura di indicarmi, era stato inciso il nome Thomas e la data 88. Nonostante i miei tentativi, non sono riuscito a capire se questa incisione fosse di mano di Thomas Hirschhorn o se fosse stata aggiunta successivamente.
La storia aveva risvegliato la mia più viva curiosità, e la fretta che avevo di chiudere la conversazione con quel bislacco personaggio era scomparsa. Quell’incontro, che fino ad allora aveva tutta l’aria di essere solo una seccatura, si stava trasformando in qualcosa di molto diverso ed eccitante. Mentre nella mia testa si rincorrevano mille domande, sentivo che una parte di me stava abbandonando il divertito scetticismo iniziale per cedere il posto alla possibilità che in quella complicata storia ci fosse del vero.
Formulai rapidamente nella testa una serie di domande circostanziali ma, proprio quando il fiume di parole del mio interlocutore si placava e mi accingevo all’interrogatorio, con rumore di freni usurati e ferraglia l’autobus della linea 44 inchiodò stridendo davanti a noi. Fu questione di un attimo e, con balzo agile, l’uomo vi sali sopra senza degnarmi di uno sguardo.
Ho scritto a Thomas Hirschhorn, ma ancora non ho avuto risposta. Se la storia dell’attentato fosse la farneticazione di un mitomane proprio non saprei, ma nelle parole di quell’uomo c’era qualcosa di molto convincente. Inoltre, egli non ha tentato di vendermi l’oggetto: dettaglio che mi pare una prova di onestà più eloquente di mille parole. Così, nel limbo tra verità e menzogna, attendo.
Talvolta osservo questo vetro come si guarda oltre a una finestra, fantasticando assorti in lontane chimere. In fondo, un vetro forato è come una finestra rotta:
I venti della fantasia soffiano nelle stanze delle realtà e scompigliano le carte sopra le nostre scrivanie.