Università e Suicidi: Colpa di Calvino.

Università e Suicidi: Colpa di Calvino.
Lettura boomer
L’ennesimo suicidio legato all’università ha ancora una volta fatto breccia nella diga delle banalità.

Fiumi di parole, identiche come gocce d’acqua, si riversano violentemente a valle straripando, peggiorando la condizione dei terreni aridi di silenzio, uccidendo l’esile speranza, che fiorisce sempre anche nel più arido dei terreni, di avere risparmiato le manfrine di chi, parte del problema, si atteggia a portatore di santa morale.

Se intervenire sulla questione è stato oggetto di accesissime discussioni. Il rischio che la penna si trasformi di colpo in pennello, tutt’al più adatto a placcare di melassa il triste fatto di cronaca, è sempre dietro l’angolo.

Tra urla, spintoni e temperini puntati,  un blastino in piedi sulla scrivania ha messo in guardia tutti dal pericolo di fare i-n-f-o-d-e-m-i-a.

Alla parola i-n-f-o-d-e-m-i-a è seguito un terribile silenzio, interrotto solo dal rumore dell’impatto al suolo del caporedattore caduto a peso morto.

Nonostante l’arresto cardiaco, riusciamo a salvare il caporedattore con il defibrillatore donato da Russia Unita per la nostra propaganda putiniana. Salvato il caporedattore, redarguita la spregiudicatezza del blastino che ha osato nominare l’innominabile, decidiamo che si, non possiamo non intervenire.

Ogni volta che uno studente compie il gesto estremo, articoli sesquipedali, a firma degli stessi giornalisti che qualche giorno prima pontificavano sul seienne con 3 lauree e 4 master in 7 giorni, di cui uno di riposo, esprimono la stessa posizione:

Ragazzi, non avvilitevi, non fatevi sopraffare dalla cultura della competizione.

Competizione è la parola che più contamina il nostro fiume dalle violenti correnti.

Ma in che senso la competizione innesca questa bomba psicologica che porta al suicidio?

Al di là dei moralismi la competizione sta nelle cose, almeno finché esisterà l’esito di un esame esisterà la conseguente classifica, e quindi la competizione.

Arriva sempre quel momento e ti coglie incredibilmente, sempre, comunque di sorpresa. Terminato il minuto di animalesca scodinzolata per avere conosciuto un nuovo proprio simile, immediatamente dopo la canonica stretta di mano, nella speranza di avere scansato la nausea dello stringere una mano flaccida, si viene assorbiti da un sensazione di inquietudine a cui non si è ancora riusciti a dare un nome. Nonostante i tentativi di veicolare il discorso, raschiata la gola, il tuo interlocutore sornione ti domanderà:

E quindi dopo l’università che vuoi fare?

Spararti su per il culo

Sarebbe l’unica degna risposta, ma nella stragrande maggioranza delle volte si issa la bandiera bianca e si cede al morbo dell’utilitarismo.

Università
Lo sappiamo tutti quello che è successo. Un grande movimento democratico ha detto che tutti devono avere tanti anni durante i quali studiano e si impadroniscono della cultura comune. Non deve esistere più un mondo dove solo le élites che comandano posseggono la cultura. Tutti i ragazzi devono potere avere degli anni in cui si studia e non si lavora come succedeva per i loro padri e per i loro nonni.
E poi, in questo percorso, si è cominciato a dire che il latino andava bene quando solo i figli dei padroni andavano a scuola. Adesso i figli degli operai che se ne fanno? Finché andavano solo i figli dei padroni tutti sapevano che andare a scuola era importantissimo per fare di te una persona più forte. Poi si è iniziato a dire che in fondo tutto ciò non aveva importanza e non va più bene che si va scuola senza un fine. 
Alessandro Barbero

Verrebbe da chiedersi se sia possibile compiere un azione senza un fine. Anche l’azione più sciocca è figlia di un timido ragionamento, quindi ha un fine. Anche l’azione più inconsapevole è figlia di un primordiale istinto, e quindi non può non avere un fine.

Allora lo studio velleitario non ha anch’esso forse un fine? 

Nell’era neo-liberale in cui tutto ciò che non riguarda l’implementazione delle skill richieste dal mercato è velleitario, no. Quello che la maggior parte delle persone, non parlo solo dei sedicenti liberali, ragazzetti in trepidazione di aggiornare l’immagine di profilo Facebook con la corona d’alloro e l’immancabile bacio alla nonna demente deportata fuori casa perché non si dica che quella non è la famiglia più unita di tutta l’Arcitalionosfera, intendono per fine ha unicamente a che fare con la posizione lavorativa.

Decenni di bombardamento mediatico hanno avuto il loro effetto.

Se qualcuno ti domanda il tuo sogno, intende senza alcun dubbio il lavoro dei tuoi sogni. La  propaganda del merito, del sogno come autorealizzazione oggettivamente misurabile, della costruzione del se stesso come vincente, ha generato una sovrapposizione tra il lavoro e la propria identità. 

Il fallimento nello studio così non è solo il fallimento nel presente ma anche del futuro. Si sta già fallendo prima di partire, il destino è segnato, l’accattone è l’unica prospettiva.  L’unicità della prospettiva per cui esiste solo un modo per conquistare il proprio status, ovvero nei ruoli aziendali, all’interno di un contesto di precarietà totale e totalizzante, venduto come avvincente, fa sì che l’università funga da camera di invecchiamento cervelli.

Così che un giovane ventenne universitario si pone gli stessi problemi di un 45 enne divorziato in cassa integrazione.

La competizione non ha infatti a che fare esclusivamente con la conquista di un buon voto, ma con la conquista della migliore performance complessiva che consentirà di accedere ai privilegi di una vita agiata.

L’idea dominante per cui una vita degna non è un diritto, ma una conquista, scarica sugli individui la responsabilità di non diventare un accattone. Chi si ferma, rallenta, fallisce da prova di non meritare una vita degna, non semplicemente un voto.

Immancabile in ogni articolo la chiosa sul bonus psicologico.

Del resto, deboli menti non vorrete mica recuperare la velleitarietà dello studio, l’inutilità della lettura, scoprire un nuovo termine utile ad affinare l’ironia,  considerare che il proprio io, il proprio valore, si costruisce su vari corpi sociali, dove nessuno è indispensabile e tutti sono utili. 

Lo psicologo come unica soluzione risponde alla necessità di imprimere, assolutizzare, interiorizzare le regole della società neoliberale. Spingere gli studenti a pensare che il disagio provato è unicamente legato ai propri problemi, intimamente individuali.

Che ciò che si ha intorno non è da combattere, non è un’ingiustizia, solo la realtà da inquadrare.

Nell’analizzare l’allegro dato per cui i nordici, avversari giurati di noi mediterranei, pongano fine alla propria vita più facilmente di quanto succeda ai pigroni del Sud, Durkheim scrive: 

Egli evidenzia come i protestanti leggano ed interpretino la Bibbia in modo piuttosto autonomo, rendendo il credo meno integrato e più individualista.

Al contrario, i cattolici hanno diversi riti che generano legami. L’interpretazione e la lettura dei testi sacri è un compito della guida spirituale.

Queste differenze non si ripercuoto, purtroppo, solo nell’allegro dato per cui tendenzialmente i pallidi flaccidi scelgano più facilmente la via dell’autoeliminazione, ma anche nella declinazione del capitalismo, del welfare state, dell’istruzione, della competitività. 

Scollare lo studio da riti collettivi, da ciò che è considerato criptocristiano, risignificare l’utilità in ciò che è individualmente utile, ridurre gli uomini a meri agenti economici razionali è l’obiettivo dei nostri tecnocrati neo-calvinisti.

In questo senso la propaganda individualista si accompagna alla cultura del disimpegno. L’alternanza scuola lavoro si configura come un indispensabile strumento disciplinatore. Ciò che si studia va canalizzato nel piacere di rischiare e faticare, nell’orgoglio di obbedire, nel dedicarsi a ciò che è monetariamente valutabile, non in altro. L’obiettivo del potere si configura, quindi, non come generare la competizione ma come declinarla. Come plasmare il senso della competizione, imprigionare il suo significato in un’unica declinazione.

Lo studio velleitario non è infatti uno studio che non prevede competizione. Piuttosto lascia ognuno libero di esprimere le proprie inclinazioni entro reti collettive, di definire lo spazio sociale nel quale conquistare la propria soddisfazione. Lo studio velleitario aiuta a vincere un dibattito, è imprescindibile per essere ammessi alla redazione de Il Blast, fondamentale per scopare la ragazza del palestrato.

La differenza nel modo di interpretare la competizione è il nodo centrale. La competizione propagandata dal sistema neoliberale è intimamente legata alla sopravvivenza, e il modo di agire degli individui non può tenere conto dell’esigenza di sopravvivere.

Nel celebre libro La montagna incantata, la morte è l’espediente con il quale Thomas Mann narra della vita. Numerosi personaggi entrano ed escono di scena. Ad accompagnare quelle che in confronto sembrano solo semplici comparse, per quasi la totalità del libro, vi è il duello retorico tra  Naphta e Settembrini. Il primo gesuita, rivoluzionario e reazionario insieme, il secondo patriota, progressista e liberale.

Duellano sul senso della vita, sulle emozioni, sulla morte fisica e psicologica, duellano vitalmente, duellano fino a quando la retorica non si trasforma in guanto.

Arrivati su un’altura, Settembrini, a cui viene dato il privilegio di sparare il primo proiettile, esplode il colpo in aria. Naptha, al rifiuto di Settembrini di sparare nuovamente, questa volta avendo cura di centrare l’avversario, poggia la pistola sulla propria tempia.

Due duellanti, avversari, poi nemici, giunti al momento decisivo della competizione rinunciano a prevalere. Affermano implicitamente che la competizione delle idee, il duello velleitario, ha ragione di esistere fintanto che il tuo avversario esiste, è forte, è vivo. 

Senza volere scendere nei noiosi tecnicismi degli economisti sulla definizione della ricchezza, ciò che conta è che gli individui, presi singolarmente, lottano per conquistare la ricchezza esistente. In questo contesto non vi è alcun interesse nel rispetto della vitalità dell’altro, occorre sgomitare per conquistare le proprie briciole.

Le remore di Settembrini e Naphta sarebbero fatali, il duello è quello del povero Piero.

La ricerca della funzionalità di mercato non è un fatto  meramente astratto con cui le giovani menti devono semplicemente fare i conti psicologicamente, ma è la legge che plasma l’organizzazione universitaria su qualsiasi livello. La valutazione meramente quantitativa ha prevalso integralmente sulla valutazione della ricerca qualitativa. Il fordismo, che tanto sembra desueto nella nuova economia dell’innovazione, entra a gamba tesa nella ricerca, trasformando i luoghi del sapere in semplici catene di montaggio altrettanto alienanti.

Il merito viene spostato sulla quantità di materiale prodotto, senza tenere conto della qualità. Questa valutazione che può apparire a prima vista come innocua si configura come un attacco a chiunque non rientri pienamente nei principi ideologici dominanti.

È infatti facilmente intuibile che articoli di ricerca che mettono in discussione i principi cardini delle teorie dominanti richiedono più tempo, più materiale, meno  produzione.

In definitiva, la selezione di mercato non solo si configura come una forma di disciplina neo-stakanovista, ma come un sistema che punisce, bolla e marginalizza in quanto fallito chiunque non sacrifichi se stesso sull’altare dell’ideologia neoliberale, o semplicemente non sia in grado di farlo.

Non studio non lavoro non guardo la TV, cantavano gli CCCP in aperta conflittualità alla santa ideologia del lavora-consuma-crepa.

Non mi occupo di altro che del mercato e delle necessità produttive cantano in coro i tecnocrati europei.

La nuova cultura del disimpegno è in realtà solo l’attacco all’impegno non individuale. Esaspera la colpa del disimpegno. Non avrai altro che il mercato, maledetto pagano neo-calvinista!

Saluto felicemente l’occupazione dei giovani petalanti della Sapienza per il caso Cospito, ma non posso che notare che la religione del funzionalismo abbia dato i suoi frutti. L’atteggiamento cameratesco con il quale si pretende di irregimentare la discussioni sul 41bis, anche con liste di proscrizione come già successo per la pandemia e per la guerra in Ucraina, è infatti solo la punta dell’iceberg.
Il fatto che la mobilitazione sia possibile solo su ciò che è pratico, visibilmente utile, è la dimostrazione che la cultura del funzionalismo controlli il potere e il contro potere. Un contro potere che assomiglia più ad una postura da attore, alla recita di una rabbia che non si possiede.

Rivendicare la velleitarietà, l’inutilità, il disimpegno da ciò che produttivo, sollecitare l’intelligenza remota nascosta in ognuno di noi, è mettere la sabbia negli ingranaggi della nuova grande catena di montaggio che ingloba qualsiasi spazio della vita, l’unica speranza per non morire calvinisti.

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