Uomini Piccioni

Uomini Piccioni
Lettura boomer
I piccioni come uomini, gli uomini come piccioni. Un mondo di briciole, disarticolato, ritorto contro l’essere stesso che lo vive, collassato sulla volontà che esprime.

Come piccioni l’uomo vive di briciole cittadine, dei pertugi imboscati lontani dall’occhio, lontano dal pericolo della sua esistenza.

Come piccioni al nido in bilico su di un fatiscente pilastro urbano, scheletro di un fu immaginato vivere.

Ammassa, l’uomo, cubici spazi di sicurezza; musica assordante, bevande scadenti,

divertimento

de allontanamento, vertere volgere.

volgere altrove, deviare.

Volgere da cosa?

Il piccione delle briciole gode, perché non può altro, vuole altro?

È questo l’uomo o il piccione?

Razzola per le città affollate, compatte, organizzate, saturate, trasudanti di puoi fare! Prego accomodarsi, da questa parte.

Becca, sbuffa, tuba, svolazza, appollaiato, fa altro?

Le briciole che rimangono dinnanzi, il de – vertimento,

la pagnotta se la son portata via.

Dov’è? Non si sa. Chi ce l’ha? Che ti importa. Perché? Inutile chiederselo.

Razzola e becca,

le briciole son lì, tornano

le briciole non ci sono, torneranno

L’uomo dell’ambiente urbano, intenso come colui che non solo abita la città, ma è caratterizzato dalla città, l’uomo urbano. Oggi si può constatare come esso viva una realtà delle cose, abita, in un cosmo di elementi umanamente determinati, quali le vie, le metropolitane, l’asfalto e così via che sono divenuti una condizione esistenziale, piuttosto che le condizioni dell’esistenza umana in quanto espressione dell’umana volontà di vivere in una determinata maniera, vivere in una dimensione che sia manifesta presenza della frase io voglio.

Questo grande complesso potremmo definirlo per quanto riguarda lo spazio delle città, fisico ed esistenziale, come giungla urbana. Un termine che in sé racchiude un binomio fondamentale per quelle discipline sensibili all’uomo, cioè il rapporto tra natura e cultura. In sé, nelle pieghe interiori del suo essere e dell’espressione di questo essere, l’uomo della città, urbano, è un elemento di questo cosmo caotico, saturo, iperattivo, trasudante di puoi fare! Prego accomodarsi, da questa parte, martellante cantilena irraggiata a profusione ad ogni cartellone affisso all’angolo della palazzina, all’incrocio stradale, l’insegna della grande catena. In questo stato delle cose, questi fenomeni osservabili con non più di dieci minuti di camminata in una grande città come Milano, l’uomo è determinato dai fenomeni del suo vissuto, paradossalmente circondato da un ambiente culturale, praticamente dominato nella sua interezza dall’impronta dell’agire umano. Tale è lo stato dell’uomo urbano.

Quello che è constatabile in questo scenario così profondamente umano è il vuoto di umanità lasciato dall’assenza dell’individuo in quanto fautore della sua condizione. L’Ego, in quanto capace di riscontrare una differenza, un qualcosa che ci divide dagli animali, vive alla soglia di queste due realtà, la natura e la cultura, quest’ultima determinata dall’azione ordinatrice dell’uomo. Ma in un ambiente come quello delle grandi città, immensamente umano, disinteressato, alienato, l’azione dell’uomo è percettibilmente assente. Questa constatazione può apparire come uno stato delle cose apparente, una facciata di formalità la cui essenza è possibile mettere in discussione, ma se assumiamo che le cose come tali sono il prodotto dell’azione umana in un ambiente altamente frutto del fare umano come una città, ci accorgiamo che l’essenza delle cose non sta nel loro essere tali, l’asfalto in quanto asfalto, i palazzi in quanto palazzi, ma sono tali perché è l’uomo fautore, la sua Volontà, ad agire ordinando gli elementi percepiti per attribuirgli un senso.

Se fosse una questione di sostanza, se la cultura fosse inscritta nella dimensione materiale, l’uomo sarebbe non più dell’animale, non più di carne, sangue ed ossa.

L’uomo dell’ambiente urbano vive una condizione quasi totalmente materiale, nel senso non di incapace di agire sulla realtà e quindi di riconoscere implicitamente il significato essenziale custodito dalla materia, ma è un’esistenza il cui confine ultimo di sguardo, l’orizzonte d’azione, si ripiega su sé stesso. L’uomo urbano è tale perché il suo agire è confinato in un cosmo di significati che sono a loro volta frutto di attribuzioni di significati.

L’assenza della Natura nella condizione dell’uomo urbano, della terra nuda, dell’infinitamente imperscrutabile, di ciò che è al di fuori della portata del fare fisico e spirituale dell’uomo, è alla base della sua incapacità di essere uomo fautore, applicare la Volontà, intesa come categoria universale dell’energia misteriosa, crepuscolare, che proietta l’uomo alla soglia della natura verso l’indeterminato, l’assenza di forma materiale.

L’uomo urbano, soggetto e oggetto contemporaneamente del suo essere, non vive, ma non è morto nel senso materiale della decadenza delle molecole di cui è composta la sua materia.

L’orizzonte imploso, ripiegato su sé stesso dello stato delle cose definibile come urbano è la tomba della Volontà, è finito nel suo essere esclusivamente umano, assente di Natura, ovvero la dimensione non-umana fondamentale per la possibilità dell’uomo stesso di essere tale definendosi nell’alterità, cioè il non-umano.

La rottura della relazione tra uomo e natura, quella dimensione profondamente costitutiva dell’esistenza umana, che si ritrova nella vicenda di Adamo ed Eva, ha prodotto non-uomini, esseri privi della volontà di fare, della Volontà che è Uomo, cioè l’Ego privato di tutto sino a giungere al nucleo costitutivo della sua essenza.

Questa condizione non-umana è paradossalmente generata da una realtà che parla da ogni muro, da ogni lampione, da ogni palazzo di umanità. Una realtà costituita da fatti umani, ma assente di un orizzonte infinito, altro, assoluto, libero, che va oltre lo stato del qui e dell’ora della percezione umana. Un cosmo fatto dall’uomo, ma non umano.

La Volontà espressa dall’uomo, aleggiante nell’indeterminato caos della Natura, è tale non nel suo punto d’arrivo, quando questa è portata a termine, ma essa stessa è caratterizzata ed espressa nel corso del suo divenire. La Volontà non è ciò che è fatto ma è fare, è il suo stesso divenire, è la possibilità stessa che essa possa portare a termine l’elemento che la genera, una dimensione non-finita.

L’Uomo è tale nella Volontà che potrebbe esprimere pienamente, ma è infinitamente irrealizzabile nella sua totalità.

Il piccione, Columba livia, è un simbolo dell’abitare la città. Questi volatili sono perfettamente integrati negli ambienti urbani, ne sono un elemento integrante. Sono parte della città a un tale punto che la concezione comune associa di norma il piccione all’asfalto, le piazze, le tettoie dei palazzi, ciò che è fondamento, gli elementi essenziali che, nel loro complesso, sono urbani.

L’essere del piccione è connaturato, appare tale, con l’essere della città.

Vivono integrati in un cosmo di regole del vivere loro dettate dal fare dell’Uomo, il complesso di espressioni umane che si manifesta come città. I piccioni non sono uomini, sono non-uomini e in quanto tali l’Uomo riconosce l’alterità tra Ego e Piccione.

Piccione Spritz Città
Piccioni e Spritz, Apeiron però!

Questi esseri, i piccioni, come tante altre forme di vita non-uomo che abitano la città, fanno dei lampioni alberi su cui nidificare, le briciole lasciate dai passanti sementa trasportata dal vento. La città così umana, frutto delle mani dell’uomo diviene per il piccione la Natura. I Piccioni non si interessano, non vogliono un nido su un albero, la sementa da beccare nei prati, a loro basta ciò che è presentato a loro, sono il divenire delle cose, non il proprio divenire. Potrebbero di più, perché no?, ma non lo esprimono, non riconoscono nell’altro una differenza con il sé, la repulsione tra poli opposti che genera energia; per loro il lampione quanto la fronda d’albero sono sullo stesso piano, non-sono né albero né lampione. Questo tuffo nella mente di un piccione ipotetico non serve per comprendere cosa pensano i piccioni, ma cosa ne pensiamo noi dei piccioni. È qui che l’altro è foriero del , nella sensibile disparità tra noi e l’altro. Il piccione non sappiamo cosa pensa, non sappiamo se pensa e non ha senso se pensa o meno, ma l’atto di pensare sé il piccione è racchiude la Volontà.

La città soffoca? Frase detta e ridetta, se si vuole trovare qualcosa che ci opprime e ci piega alla realtà materiale potremmo andare avanti all’infinito stilando una lista di cosa non ci piace, cosa ci limita eccetera.

Non è la città che soffoca, ma la non-città che ci dona la scintilla della vita.

Che cos’è la non-città? La campagna si potrebbe rispondere, le profondità oceaniche, le fronde degli alberi, gli atomi di carbonio che compongono la coda di un ornitorinco. Quando ci si interroga su che cosa non è, la domanda stessa perde senso, perché siamo dinnanzi all’ineluttabile spettacolo della creazione permanente della Volontà. Siamo nulla rivolgendo lo sguardo all’Io assoluto. Nella negazione l’uomo trova l’asserzione fondamentale che lo spinge ad essere oltre sé stesso, essere uomo e non-uomo volontariamente, timoniere della sua condizione.

Vivere ciò che ci è dato è in sé la morte, perché questa ci è conferita dal momento che viviamo. Voler negare la morte è vita. Sii non-uomo per essere uomo, rifiuta il mondo per viverlo non come parte di esso, ma come spirito interlocutore, come uno spettro che aleggia liberamente nella materia.

L’uomo piccione è colui che ha perso contro la morte, che si è piegato all’offerta della vita. È divenuto unico, compiutamente formato, uomo e non-uomo contemporaneamente. La sua Volontà è morta: costui non vuole, ma desidera. Colui che desidera conosce ciò a cui ambisce, il suo fine è già stato posto. Come in un imbuto l’uomo piccione cola passivamente verso la sua fine, perché desidera la sua morte, aspira ad essa ammantandosi di bugie che chiama vita.

In un mondo di piccioni sii non-piccione, nega, distruggi, guarda la morte in faccia come una cara amica. Questa non è nemico dell’Uomo, ma il faro che guida la Volontà verso il suo divenire.

La non-vita è nemica dello spirito che fende la realtà, che distrugge tutto quello che incontra dinnanzi all’ineluttabile.

In un mondo di piccioni sii rapace, affonda gli artigli nella carne, oltre la carne, nello spirito. 

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