Ci ha aperto la figlia. Le nuvole coprivano il cielo di piazzale Libia.
Anche se era gennaio, non c’era troppo freddo. Giampiero Neri era comunque bardato, completamente avvolto da coperte. Stava seduto e ci sorrideva.
Davanti a lui un amico. Assieme leggevano episodi biblici e passi del Vangelo. Noi eravamo in due. Il mio amico gli ha consegnato un libro, Punto Omega, di Flannery O’Connor. Negli ultimi tempi rifletteva molto su una questione che riguardava la poetessa americana. Si interrogava lungamente del perché i suoi racconti fossero stati definiti dalla stampa come duri, disperati e brutali.
Lei, così mite e buona, a detta di Neri, covava un sentimento di rabbia e nascondeva un animo irrequieto, addirittura vendicativo, che era forse il motore della sua scrittura. Giampiero non se ne capacitava e voleva andare più a fondo. Avrebbe condotto una ricerca, sì, un attento studio. Voleva salvare la reputazione di un’artista che stimava da accuse così pesanti, infamanti al punto da inficiarne l’intero lavoro. Infatti, un’opera è buona se fatta in onore di Dio, se ispirata da Lui, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo. Così pensava Giampiero. Gli brillavano gli occhi. L’abbiamo salutato, la porta si è richiusa alle nostre spalle.
Non l’abbiamo più rivisto.
Ritrovare il nome della O’Connor in Utopie, l’ultima raccolta di componimenti del poeta, pubblicata postuma da Ares, mi ha fatto enorme piacere. D’altronde c’è molto Giampiero in Blast. E’ stata una nostra Guida sin dalla nostra prima visita a casa sua. O spariamo o spariamo,
gli abbiamo detto. Ci ha ricordato di mirare al petto: vivete, sparate finché potete, non fatevi travolgere, sorridete.
Una buona parola, un consiglio. Un’indicazione per viaggiare al meglio. Utopie, alla fine, è uno stradario che porta da nessuna parte, in un non-luogo, scritto da chi ha attraversato in lungo e in largo l’esistenza.
Giampiero parte dalla sua Erba nel settembre ‘43. Ha sedici anni e un rapporto burrascoso con la madre. Mentre gli Alleati e i tedeschi risalgono la Penisola (sono sbarcati da poco in Sicilia), egli prova l’ardua impresa di ridiscenderla, controcorrente. Trova un compagno, Augusto Tettamanti, un ragazzo un po’ rude, solitario, decisamente troppo poco per un nome così altisonante e imperiale. Assieme migrano, verso Sud, come fan gli uccelli, con l’arrivo della brutta stagione. Seguono solo una direzione, un orizzonte, senza una vera destinazione. Un viaggio scalcinato che non porta da nessuna parte: da Genova, per Grosseto e ancor più giù, verso Mezzogiorno. Volevamo andare a Sud, senza sapere dove
. Tra soldati e carriaggi, infine, Roma. Così lontana, così diversa dalla Brianza… Un dedalo di strade accoglie i due, fino a che… anche la memoria si perde.
Recollection in tranquility… il ricordo viene precisamente svolto in una prosa leggibile e comprensibile, precisa, icastica.
Qua ci sono tutti gli ultimi anni del maggiore dei fratelli Pontiggia, sia a livello stilistico che contenutistico: ci sono il senzatetto Giovanni e le ucraine che popolano il suo verde angolo di Milano; le difficoltà economiche della famiglia e l’indispensabile lavoro in banca; l’immancabile e ricorrente professor Fumagalli; il suo tono umile con cui osserva il quotidiano, probabilmente la sua fonte di ispirazione primaria, assieme alla Natura.
Lampirius, storpiato in lombardo in Lampadari (lampadario) dal padre Ugo, questo era infatti il suo soprannome da giovane in virtù del suo occhio attento anche agli abitanti più insignificanti e piccoli della natura, gli insetti. Ci raccontò più volte della sua passione per i minuti invertebrati (che ricorre anche in questa silloge), eredità della lettura dei Ricordi di un entomologo
, dello scienziato Jean-Henri Casimir Fabre, uno dei volumi più amati dal nostro Maestro.
“Nell’ambito della natura si sa che i predatori non si amano l’un l’altro.
La concorrenza è nociva anche quando la caccia è abbondante.
Questa è la regola, ma all’uomo non piace farne caso.”
(dal capitolo “Viaggio a Roma”, Utopie)
La Natura insegna con l’esempio. Si mostra nei suoi equilibri agli uomini. Tra le righe non è difficile leggere dell’amarezza: è tutto davanti a voi, guardate!.
Ma l’uomo è cieco e azzanna. Gli animali seguono la propria indole e così fa l’uomo: è nel suo più o meno marcato discostarsi dai binari dell’istintualità che risiede la sua particolare specificità. Questi fa sempre un po’ “di più” o di meno del necessario, ma poco cambia: ne sa comunque quanto prima, meno di un colombo o una formica. Nel Creato tutti conoscono il loro posto, noi abbiamo perso il nostro significato primigenio. Siamo forse gli animali più adattabili del pianeta.
Che sia tutto qui il nostro dramma?
Il percorso del Maestro di qui in avanti sfuma nella sua temporalità. Una carrellata di persone, tratteggiate a fino, con minuzia, sfila tra le pagine e i capitoli di Utopie. Ci parla del prof Bonaventura, insegnante ligure, di origine ebrea, che lo aiutò nel conseguire il diploma di maturità scientifica. Un deluso dalla politica, disgustato dagli arrivisti
, alla ricerca di una radicale alternativa, fosse di estrema destra o sinistra (letteralmente noi)
Comprava indifferentemente i giornali dell’una o dell’altra parte. Aveva la testa fra le nuvole, si era costruito un mondo tutto suo. Giampiero gli dedica un intero capitolo, forse il più Blast dell’opera
. Entriamo nella casa dello stralunato prof e nel cuore del poeta in pochi versi.
(dal capitolo “Un professore distratto”, Utopie)
Strilla il professore mentre sale le scale che conducono al suo appartamento, al secondo piano. Non si sapeva se per minacciare o per invocare
, ci viene detto. Un matto vero, un blàstide real, che, come noi, scrive con un inchiostro da lui inventato e letteralmente esplosivo. Praticamente il glossario Blast. Lo troviamo con un sorrisone sul volto, tra i suoi alunni, in una foto d’epoca. Sul nero della lavagna il gesso bianco recita:
VIVA L’ABISSINIA!
Non è però il suo prof Fumagalli… il Maestro non ce lo nasconde: Bonaventura, saputo del nuovo impiego in banca del Nostro, se ne compiace e gli regala un libro di educazione finanziaria. A Neri di crypto e stock non frega nulla e butta il tomo dal finestrino del treno. In banca c’è finito controvoglia, solo per aiutare la famiglia. La morte improvvisa del padre, ucciso dai partigiani nel novembre ‘43, e una forte inflazione monetaria, lo costrinsero ad abbandonare la facoltà di Scienze Naturali e ad occupare un ruolo presso l’istituto di credito dove aveva già lavorato proprio il padre. Forse dal professore si aspettava una tirata d’orecchie…
Altre figure della Provincia brianzola vivono nell’universo di Giampiero: come Natalina, sua governante e praticamente sua seconda nonna, che perse la casa con la guerra; il signor Bartesaghi, autentico Dongiovanni, e la sua amante, Carmine, una affascinante signora svizzera. Sembrava, e forse lo era, di un altro mondo.
Trasferitasi vicino al lago di Pusiano, si era ammalata di sclerosi e negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di telefonare a Neri. Poi, la malattia se l’era presa. Memento mori: non fate troppi progetti, una bestia feroce potrebbe portarveli via, come successo al cane del missionario comboniano di cui ci parla appena dopo. Troppo entusiasta di partire, è stato sbranato da un leopardo, in Kenya. Neri si limita ad accostare le due storie, con una poesia-prosa incessante che nella sua precisione lascia comunque al lettore un margine di interpretazione.
Si sofferma, poi, sullo stile romanico e la sua apparente semplicità, carica di un profondo significato religioso e simbolico. Una chiesa, di semplici pietre e dalle forme solide. Il paesaggio della sua terra da umano diventa quindi dapprima concreto, poi, metafisico:
“Il manufatto è nudo, privo di qualsiasi ornamento.
Deve solo rispondere al bisogno di verità.”
(dal capitolo “Del romanico”, Utopie)
Tra qualche breve e illuminante riflessione ha tempo di raccontare dell’incontro con la moglie e dell’importanza di due artisti della parola che l’hanno con ogni evidenza segnato: Dino Campana e Giuseppe Pontiggia, suo fratello. Del poeta romagnolo ha modo di ricordare l’episodio che lo coinvolse assieme a Papini e Soffici, che smarrirono l’unico manoscritto dei suoi Canti Orfici. Vuole riabilitare la reputazione dei due, con cui lo stesso Dino (che dovette riscrivere tutto, a memoria!) aveva riallacciato un dialogo, ma sui quali la critica ha sempre mosso con risentimento.
Campana ritorna nel dialogo con il fratello Peppo, come stimolo per il dibattito e modello con cui rapportarsi. Ma alla fine per Giampiero, il vero modello fu proprio Giuseppe, con cui ebbe un legame forte, anche letterario: ci parla delle bozze che gli sottoponeva degli efficaci consigli che il fratello minore gli dava.
Il nome d’arte “Giampiero Neri” fu adottato proprio per non rimanere all’ombra dell’ormai affermato Peppo. Maestro in ombra, fin da subito.
Oggi però possiamo dire che le ombre, taciturne e modeste, furono ciò che più lo avvicinò alle verità e alla Luce che cercava da tutta la vita.
“Si dice di alcune persone che quando entrano in una stanza la occupano tutta.
Dovrei immaginare che, quando se ne vanno, lasciano un grande vuoto.
Sono invece portato a pensare che a lasciare un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare.”
(dal capitolo “Viaggio a Roma”, Utopie)
Una di queste era Giampiero.
Anche negli ultimi momenti col pensiero rivolto agli altri: ai degenti e al personale sanitario del Padiglione Granelli.
Ci sono belle parole anche per loro, scritte nei momenti più bui.
A Dio, Giampiero.