VAFFANCULO, SENECA. CONSIDERAZIONI SPARSE SULLA POST-MATURITÀ

VAFFANCULO, SENECA. CONSIDERAZIONI SPARSE SULLA POST-MATURITÀ
Lettura boomer
Non volevo leggere le tracce dei temi della maturità di quest’anno. Non volevo lamentarmi di quanto sia vuota una maturità senza tesina, terza prova e tema storico. Non volevo farmi del male, ma un mio amico me le ha mandate e non ho potuto fare a meno di studiarle un po’. E così eccomi qui, a contemplare l’inarrestabile decadenza del sistema scolastico che fu di Croce e di Gentile.

Incomincio col dire che le tracce di quest’anno sono oggettivamente scialbe, insipide, brutte. Per carità, non brutte come quelle del 2003, quando tra le tracce comparve una frase di Silvio (R. I. P.), pronunciata alle Celebrazioni ufficiali italiane per la Giornata mondiale dell’alimentazione:

«Affinché vi sia cibo occorre che vi sia acqua. È quindi fondamentale investire per garantire la disponibilità e l'uso efficiente delle risorse idriche».

Talmente banale da far accapponare la pelle, ma in realtà la mia è tutta invidia.

Comunque, dicevamo, le tracce di quest’anno sono brutte. Di una bruttezza che è indice di banalità, di superficialità, di un grande vuoto. Vi è un solo elemento positivo in quella che il Foglio definisce meta-maturità, ed è la relativa brevità delle tracce, per leggere le quali un tempo occorreva quasi un’ora. Sono diventate più scarne, più sintetiche, meno citazioniste. E questo è un bene: si stimola la riflessione critica dello studente attraverso i suoi personali riferimenti – letterari, filosofici, storici e, perché no, musicalisenza appesantire la consegna con iperinflazionati Galimberti.

E ora passiamo al lato negativo: si privilegia sempre più l’analisi rispetto all’argomentazione. Un’analisi necessariamente scolastica, pedante, in fondo priva di significato. Un’analisi linguistica e filologica, quasi dovessimo diventare tutti grigi burocrati della filologia, o forse prostituti della grammatica.

La via più rapida verso il suicidio letterario della società.

Cosa dev’essere passato per la testa di chi ha scritto queste tracce? Più o meno questo:

(riporto la scena esattamente come dev’essersi svolta al Ministero)

  • A1) Quella roba strana che è la scienza;
  • A2) Analisi del testo: li prendiamo per sfinimento;
  • B1) Aò, semo de destra, ce sta ‘a nazione;
  • B2) Minchia, Piero Angela! (detto come Jack quando riceve in regalo il libro su Caravaggio);
  • B3) Aò, semo de destra, o volete capì onnò? E ‘mo ve mettemo ‘a Fallaci.
  • C1) Commissione d’inchiesta, commissione d’inchiesta, commissione d’inchiesta! Sandro Bondi alla Cultura, Sandro Bondi alla Cultura, SANDRO BONDI ALLA CULTURA!
  • C2) Concetto spaziale. Attesa. Perché sembra ‘na robba ‘ntellettuale. 

Ora, partiamo dalla poesia di Quasimodo, che è un curioso esempio di poesia cosmica oggettivamente brutta (ma brutta brutta brutta!)

La traccia in sé però non è male: il riferimento al lancio in orbita del primo satellite artificiale Sputnik I, del 1957, permette di fare riferimenti ai modi – e al ritardo – col quale il mondo intellettuale si rapporta col progresso. E qui si può spaziare da La fine del mondo di Volt a quella meravigliosa scena de La ricotta di Pasolini in cui Orson Welles recita la poesia Io sono una forza del passato

Riguardo alle prime due tracce, vorrei fare un’osservazione. Come al solito, si polemizza sul fatto che sia stato scelto un autore contemporaneo che spesso a scuola non si affronta. E bla, bla, bla. A me risulta che Quasimodo e il Neorealismo siano parte integrante dei programmi ministeriali. In secondo luogo, tanto meglio se un autore non è stato affrontato in classe!

Se l’obiettivo è insegnare a scrivere e ad analizzare un testo, la scuola dovrebbe preparare ad analizzare qualsiasi testo, non solo quelli di autori presenti nel programma. Questa è una polemica che si ripresenta ogni anno ed è semplicemente assurda. Ben vengano Magris, Caproni, Tozzi, Quasimodo, Moravia e chi più ne ha più ne metta.

La terza è la traccia più bella, ma anche la più difficile. Come osserva Claudio Giunta, è una piacevole sorpresa, in un mondo che ha rinunciato alla parafrasi per stare al passo coi tempi, imbattersi in espressioni dalla spiccata letterarietà come anelare, vagheggiare, a tal segno, occorre avvertire che esso principio, … E no, non è passatismo, è classe, cari i miei coglionazzi.

L’idea di nazione è un testo che tutti gli italiani dovrebbero leggere, una dichiarazione d’amore nei confronti del nostro glorioso passato romantico.

Non vi è alcuna retorica nazionalista – come invece hanno scritto coloro che sono ancora, e oggi come sempre, dei poveri comunisti – semmai un rigoroso approccio storicista. L’idea di nazione è il coronamento degli studi di uno dei più grandi storici del nostro Paese, nonché testo di riferimento per tutti gli studi di storia del pensiero politico sul concetto di nazione. Non solo: questa traccia sopperisce in qualche modo all’assenza del tema storico. C’è solo un grosso problema: chi può dire di aver affrontato in maniera adeguata il Risorgimento al liceo, in un Paese così antipatriottico come il nostro?

Anche il più brillante degli allievi potrebbe vacillare di fronte ai riferimenti a Mazzini e al mazzinianesimo. Inoltre, perché il tema storico dev’essere mascherato dalla solita, pedante analisi del testo?

Piero Angela è la morte della scuola italiana. La divulgazione che si sostituisce all’accademia, l’uomo qualunque che prende il posto dello scienziato. Nulla da eccepire sulla lodevole attività svolta dal padre di tutti i divulgatori scientifici (o forse sì, forse avrei qualcosa da ridire sul Cicap…), ma Piero Angela alla maturità è come Giancarlo Magalli alla Presidenza della Repubblica.

Benché marca ideologica come la cacciata di Fazio dalla Rai, la traccia sulla Fallaci è molto bella, permette anch’essa grandi riflessioni su corsi e ricorsi della storia, sulle sue leggi universali. È una traccia per veri ribelli, per quelli che, come me, hanno ambizioni universali da filosofi dell’Ottocento che condensano la loro visione del mondo in un mattone di tremila pagine.

Che dire della lettera al ministro Bianchi? Non intendo proprio dire nulla. È una traccia brutta, forse persino antipatica, anche scritta male (ma poi chi sono questi intellettuali?), eppure potrebbe far riflettere sul periodo in cui abbiamo subito la più grave restrizione delle nostre libertà dai tempi della seconda guerra mondiale. L’ultima, invece, è semplicemente banale. 

Ma è sulla seconda prova che mi voglio soffermare. Una volta si faceva una versione. Punto e basta. Una semplice versione. Ora, invece, si chiede anche una riflessione. Non perché ci importi qualcosa dell’interpretazione che gli alunni danno del passo che hanno tradotto, ma semplicemente perché i nostri alunni non sono più in grado di tradurre.

Diciamo le cose come stanno! Non ci è mai importato nulla del pensiero critico!

E poi questi autori… Sempre quelli. Con la sua sedicesima apparizione alla maturità, Seneca schizza al primo posto tra gli autori della seconda prova.

È abbastanza maturo da essere gettato nel cestino, perché, come disse Accio a Pacuvio, quel che è acerbo matura, ma quel che è maturo marcisce.

Ebbene, è giunta per Seneca l’ora di marcire.

Dirò di più: la filosofia di Seneca nasce già marcia. Una filosofia che vede nel pathos una hormé pleonazousa, una spinta eccessiva, e che ha come fine l’apatheia, è estremamente pericolosa per un uomo d’azione e di emozioni, per un romantico come me.

Di più: è una filosofia innaturale, perché spinge ad andare contro a un impulso che è intrinseco all’essere umano, la cosiddetta propatheia, che è una prepassione fisiologica, innata, invincibile (per esempio, l’acquolina in bocca o il groppo in gola, quella morsa naturale che ci coglie alla notizia del lutto)

Per quel fesso di Seneca, per la verità un autoilluso, il saggio non soffre, perché risponde razionalmente al dolore.

Non può lasciarsi prendere dall’ira, perché sa che sarebbe inutile. E invece, da che mondo è mondo, l’intellettuale soffre, e più dell’uomo comune, perché nell’intellettuale, nel nobile di spirito, è evidente la sproporzione tra il desiderio e la possibilità che esso si realizzi, come dimostrato dalla trattatistica filosofico-medica medievale sul mal d’amore cui già abbiamo fatto riferimento nell’articolo su Gianni Togni. Seneca non lo sa, perché forse non è neppure un intellettuale.

È un parolaio, un motivatore, un venditore professionista di fuffa. La Wanna Marchi dell’antichità. Uno che nelle disgrazie cerca di convincerti che non è il mondo il problema, ma sei tu il problema.

Non soffri, sei solo stolto. La cultura ti salverà. E invece la cultura è una condanna.

E infatti fece una brutta fine Nerone, certamente uomo più acculturato di Seneca. Seneca è un po’ come il personaggio interpretato da Toni Servillo nell’ultimo film di Paolo Genovese, Il primo giorno della mia vita. Ma, come insegna Severus Piton, mio unico maestro, la vita non è giusta.

Maestri di banalità si chiedono spesso come sia possibile che da una mente brillante come quella di Seneca nasca un autocrate assassino come Nerone.

Occorrerebbe invece chiedersi come abbia fatto Nerone a sopportare Seneca per tanti anni, e se non sia piuttosto Seneca ad aver causato la follia di Nerone.

Nerone è l’unico esito possibile della filosofia malata di Seneca. Di più: la morte di Seneca è l’unica politica lucida di Nerone. Vaffanculo, Seneca. Viva le emozioni, le passioni e l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei. 

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