Dunque, che Sgarbi sapesse di acquistare un dipinto rubato sarebbe certo; che abbia addirittura commissionato il furto possibile, forse addirittura probabile. Iniziamo con il dire che la sua eccezionale intelligenza
ci spinge all’indulgenza. Ciò non significa che un furto non debba essere condannato, è solo che, nel raggio dell’attrazione gravitazionale del pianeta Sgarbi, regole e principi talvolta si deformano. È per questo che Vittorio Sgarbi, spesso, ha ragione anche quando sbaglia.
In effetti, la vicenda del furto è meno grave di quello che sembra. Ma andiamo con ordine. Rubare è sbagliato, e su questo non c’è alcun dubbio
, tuttavia, assecondando la linea che va per la maggiore per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni
– e ipotizzando che Sgarbi sia il mandante del furto – possiamo immaginare la storia del dipinto di Rutilio Manetti trafugato dal castello di Buriasco in due modi molto diversi. Alle due narrazioni corrispondono diversi giudizi.
a) Una povera vecchiettina, sola e affezionata ai suoi cari dipinti, respinge le insistenti offerte di Sgarbi per la vendita di una delle sue opere preferite. Un giorno scopre che questo quadro è scomparso, rubato. La disperazione e la tristezza fanno da padroni.
Sgarbi ha vigliaccamente derubato una indifesa e anziana signora.
b) Una bisbetica e ricca vecchiaccia possiede un castello, maltenuto e trascurato. Un giorno Sgarbi vede le opere conservate nel castello e si invaghisce di un dipinto, fino a quel momento ignorato dalla vecchia e custodito senza alcuna cura. Quando Sgarbi avanza la sua offerta, l’acida proprietaria, come quei bambini che vogliono il giocattolo soltanto quando qualcun altro ci si è interessato, la rifiuta. Valore affettivo? Nient’affatto, solo un capriccio, vuole vendere il castello con le proprietà al suo interno e, soprattutto, cedere all’offerta di Sgarbi le sembra una sconfitta.
Come vediamo le due narrazioni comportano posizioni di giudizio diverse e, soprattutto nella seconda ipotesi, è difficile non provare una certa simpatia per un simile Robin Hood della storia dell’arte. Pensiamoci bene: Sgarbi, in pieno delirio di onnipotenza, decide di far rubare il dipinto. Non lo fa con la freddezza criminale del ladro di professione, tutto il contrario, lo fa con la sua solita cialtronaggine che, ai nostri occhi, rappresenta la più inconfutabile prova di una sua innocenza di fondo. E poi, e qui sta il nocciolo della questione, non ruba il dipinto per venderlo sul mercato privato, magari all’estero, per poi mettere i soldi da parte o investirli; tutt’altro, lo espone a una mostra sulla pittura caravaggesca, davanti a migliaia di visitatori, pubblicandolo su un catalogo.
In questo atto, che i più non comprenderanno, sta tutta la grandezza di Vittorio Sgarbi. Se Sgarbi ha rubato non lo ha fatto per arricchirsi, lo ha fatto per il perseguimento di un’ideale di gloria personale che coincide con la volontà di accrescimento della propria collezione d’arte, destinata a diventare bene pubblico.
Per capire Sgarbi occorre leggere Massa e Potere
di Elias Canetti
, dove svariate pagine sono dedicate al furore dell’accrescimento. Sgarbi è l’uomo dell’accumulo: colleziona libri (si dice che ne abbia 500.000), colleziona parole (dette, urlate, scritte), colleziona persone (amici, seguaci, colleghi), colleziona dipinti, colleziona querele, colleziona donne, colleziona kilometri (nessuno come lui conosce il nostro paese anche nei luoghi più eccentrici e periferici). Rispetto alle querele se ne contano 670, un vero record, un primato che è costato a Sgarbi milioni di euro persi in tribunale.
Un giorno gli chiesero se rifarebbe tutto e la sua risposta fu quella di un inguaribile romantico:
Sì, è il prezzo della libertà
Insomma, nel caso di Vittorio, il
fuori classe della storia dell’arte italiana
(cit. di Luca Beatrice)
questa tensione all’accrescimento non si configura come una ricerca di ricchezza in senso stretto ma soprattutto come un’accumulazione di opere d’arte per una gloria privata che, tuttavia, coincide con l’avanzamento della storia dell’arte e con il compiacimento di coloro che queste opere potranno vedere.
Tornando alla tela di Rutilio Manetti
e dando per certa la colpevolezza di Vittorio, non ci resta che ammettere come l’obbiettivo non sarebbe stato quello di rubare per un guadagno, ma quello di trovare un dipinto anonimo, riconoscervi l’autore, valorizzarlo, presentarlo al pubblico e alla comunità scientifica, e includerlo in una collezione accessibile a tutti. Nessuno pensa che questo giustifichi un furto, ma non possiamo non provare simpatia per le battaglie contro i mulini a vento che Sgarbi compie da decenni, nel delirio di una esistenza sconquassata e votata all’accumulazione di opere d’arte. È questa ricerca di valori astratti e romantici che ha sempre salvato Vittorio Sgarbi da ogni condanna morale. Di lui può essere detto tutto tranne che abbia inseguito interessi materiali.
Del resto, chi abbia visto le condizioni addirittura deprecabili in cui conduce la sua esistenza di sacrifici, non stenterà a credere a quanto diciamo. Dorme poco, vive chiuso in un’automobile, mangia male, è sempre incazzato, non ha investito in immobili o in borsa e ha speso tutto quello che ha guadagnato in dipinti che ha addirittura fatto vincolare.
Poteva essere ricco di volgare denaro ma ha scelto la gloria e l’arte. Nel panorama di piccoli uomini con gli appartamenti da affittare, le finanze in regola, e il conto in banca pasciuto, una persona con questa attitudine spericolata alla vita deve essere guardata con ammirazione. Sgarbi ha rovinato la sua vita e il suo corpo per lasciare ai posteri un’importante collezione d’arte e il solco di una rivoluzione del linguaggio
. Sgarbi è un artista, e ha ragione Camillo Langone quando propone al Papa di firmare un salvacondotto per proteggerlo.